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Autore: Nina Ninetta    25/08/2013    2 recensioni
June è una ragazza ventenne rimasta a casa per ripassare l'esame universitario di Diritto Romano che l'attende di lì a qualche giorno. Quando tuttavia scende la notte, l’energia elettrica salta a causa di un improvviso e violento temporale estivo che lascerà l’intera cittadina al buio. June soffre di acluofobia, la sua paura più grande quindi è la totale mancanza di luce, un terrore viscerale che le attanaglierà lo stomaco come un serpente. Pur di non restare da sola scenderà a compromessi con sé stessa: accettare la compagnia del suo odiato vicino di casa.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#2
E luce (non) fu!

 

Restai per un po’ a fissare il pavimento con le mattonelle chiare, intorno a me era tornato quel silenzio che mi serviva per proseguire i miei studi, interrotti bruscamente da quella dannata musica.
Restai a fissare il pavimento senza vederlo realmente, pizzicandomi il labbro inferiore fra il pollice e l’indice. Sentivo il cuore diminuire i suoi battiti a ogni respiro, chiusi gli occhi e sollevai il capo, trattenendo per qualche secondo l’aria, poi la lasciai fluire e riaprii le palpebre, posando una mano sul petto, dove verificai che il cuore avevo ripreso la sua normale cadenza.
Camminai per tutto il corridoio fino a raggiungere la mia stanza. La luce accesa proiettava i suoi raggi sul libro aperto, guardai le pagine e mi resi conto che tutta l’adrenalina che avevo avuto nel ripetere e ripetere fino alla nausea quelle frasi mi aveva abbandonata, svuotandomi di ogni voglia. Mi lasciai cadere pesantemente sul letto e sentii le molle del materasso lamentarsi. Lessi qualche rigo del libro sul comodino, Misery di Stephen King.
Stephen King.
Steve R. Smith.
Sbuffai, mi sembrava che anche il libro si facesse beffe di me in quel momento. Mi stavo sforzando di non pensare a lui (a lui mezzo nudo, a lui che mi sorpassa e per poco non mi sfiora, lasciando una scia di profumo accattivante), ma scorgere il nome dell’autore del romanzo che stavo leggendo in quel periodo me lo rendeva assai difficile. È come sforzarsi di non pensare ad una determinata cosa e ovunque ti giri, qualsiasi oggetto tu guardi, fa riaffiorare in te proprio quel ricordo che vorresti tenere lontano.
Lasciai perdere l’idea di leggere e presi a giocherellare con il cellulare, cancellando i messaggi inutili, le foto sfocate e cose così, poi mi addormentai, con la luce accesa, chiedendomi se lui fosse ancora a casa a prepararsi o fosse già uscito, una vocina mi rispose che non avevo sentito il consueto rombo del motore di quella macchina pessima lasciare il vialetto. Quindi si, era ancora in casa.  
 
A svegliarmi non fu il rombo del motore della sua macchina, bensì quello di un tuono prolungato, uno di quelli che fanno tremare i vetri e sembrano non dover passare mai, mentre ti chiedi se sia arrivata la fine del mondo. Istintivamente mi raggomitolai su me stessa, aspettando con il cuore in gola (per lo spavento che mi aveva destata di colpo) che passasse quel momento. Passò e frastornata mi puntellai sulle mani per guardarmi attorno, la  camera era così come l’avevo lasciata. Non so per quanto tempo abbia dormito, so solo che a me sembrava un’eternità. Nonostante ci fosse la minaccia di un imminente temporale, avevo la pelle umida a causa dell’afa e avevo caldo. Mi misi a sedere al centro del letto, intenzionata ad andare in cucina a rinfrescarmi con una bibita
«Visto che sei qui, posso offrirti un bicchiere di …»
La sua voce irrisoria mi risuonò nella mente bacata, l’idea di un drink fresco mi aveva fatto tornare in mente quella frase e il ricordo di quello che era accaduto prima (si, ma quanto prima? Un’ora? Un giorno? Cinque minuti?) mi disse che non l’avevo sognato, ma era successo davvero.
Ora più che mai avevo bisogno di una bibita ghiacciata.
Mi alzai trascinandomi lungo il corridoio, dove accesi le lampade al neon per illuminarmi il cammino, mi fermai ad osservare il mio viso allo specchio: occhi socchiusi e gonfi, arrossati, colorito sbiadito, capelli sciolti e spettinati. Sbadigliando li districai con le dita e fu come rivedere Steve acconciarsi i capelli nel bagno di casa sua. Spiazzata da quell’immagine vivida rimasi con le dita fra i capelli a metà lunghezza, a fissare la mia faccia, ma vedendo la sua schiena. Poi il buio.
Buio, nel senso letterale della parola.
Buio, come se mi avessero annodato una fascia sugli occhi e stretto forte.
Buio, così intenso che non riesci a vedere la tua mano ad un palmo di distanza dal naso.
Buio, nero come la pece, come il fondo di un pozzo,  che ti toglie il respiro e ti fa sentire irrimediabilmente vulnerabile a qualsiasi cosa.
E mi sentivo come se mi avessero gettata davvero in un pozzo profondo e … buio.
 
Ho sempre avuto paura del buio, mia mamma mi racconta che da bambina mi venivano le convulsioni al solo calar del sole e quando mi mettevano a letto ed arrivava il momento di spegnere ogni fonte di luce (TV, abat juor, ecc …) iniziavo a strillare e a strapparmi i capelli, tanto che mi portarono in visita da un buon dottore, il quale, per dare un nome alle miei insensate reazioni al buio, sfilò bei soldini a mamma e papà.
Questo me lo ricordo bene.
In ogni caso, la mia malattia è comunemente chiamata acluofobia o nictofobia: paura del buio. Il dottore mi diede dei farmaci a base di morfina per dormire, consigliando ai miei di illuminare la camera durante le notti con una luce, fioca, ma pur sempre illuminata. Poi aggiunse che con il passare degli anni questo terrore, abbastanza comune fra i bambini, sarebbe scomparso.
Quanto si sbagliava!
A vent’anni suonati il buio mi terrorizzava ancora come se ne avessi cinque, e la mia lampada era perennemente accesa, di giorno e di notte.
 
Mi sentii deglutire, più che altro lo feci per accertarmi che la gola non si fosse chiusa del tutto, serrata com’era. Brancolai nell’oscurità più totale, non sapevo se volevo tornare nella mia camera e ficcarmi sotto le coperte, o andare in cucina a bere un po’ d’acqua, nella speranza di placare i battiti del cuore. Non riuscivo a formare pensieri coerenti, mi sentivo come un pesciolino che all’improvviso aveva perso il senso dell’orientamento, ritrovandosi a nuotare negli sconfinati abissi del mare.
Un lampo squarciò il cielo e penetrò attraverso le finestre con le tende chiuse, con la coda dell’occhio vidi una figura nello specchio e gridai, inginocchiandomi sul pavimento che toccai con le gambe nude, era freddo ma non ci feci caso, mentre un nuovo tuono fece vibrare le pareti e i quadri appesi ad esse. Mi coprii le orecchie con le mani continuando ad urlare, fin quando il tuono scemò.
Il giorno dopo, ripensando a quei momenti, mi sarei sentita una vera stupida per essermi spaventata così tanto nel vedere il mio riflesso nello specchio. Ma la paura è davvero una pessima amica con cui passare il tempo.
Il silenzio che mi circondava era assoluto, quasi rimpiansi quella musica fastidiosa, era come stare in una bolla d’acqua e io mi sentivo sempre più alla stregua di un pesce piccolo piccolo. Rimasi ancora un po’ con i palmi schiacciati ai lati del viso e le palpebre strizzate, poi lentamente mi misi in piedi, aggrappandomi al mobile con lo specchio, le gambe mi tremavano, anzi, ero tutta un tremolio: labbra, braccia, busto, gambe. Tutto.
Forse era a causa del buio, forse a causa di quel silenzio tombale, o forse perché il terrore aveva acuminato i miei sensi (eccetto la vista!),  riuscii ad udire un rumore altrimenti impercettibile. Credevo che il cuore non potesse pompare più di così, invece lo fece, potevo sentirlo sbattere contro il petto con così tanta veemenza che lo premetti con una mano, come per tenerlo dentro di me e non farlo balzare fuori. Mi dissi che era solo frutto della mia immaginazione, era la paura a farmi brutti scherzi, molto probabilmente era stato un tuono attutito. Eppure, quando lo sentii di nuovo, non ebbi più dubbi, anche se la mia mente continuava a propinarmi ipotesi assurde per alleggerire la tensione che correva lungo il mio corpo. Per lo meno ripresi il senso dell’orientamento e, passo dopo passo, mi incamminai verso la porta d’ingresso, da cui provenivano quei rumori ammortizzati. Camminavo di sbieco, come un detective in quei film polizieschi che tanto odio, mi mancava solo la pistola da tenere con le braccia tese verso il basso e, in quel momento, avrei tanto voluto averne una.
La porta d’ingresso si dibatteva, era chiaro che qualcuno stava tentando di entrare con la forza. Per un attimo dimenticai il buio che mi circondava, rasentavo il muro, aspettandomi da un momento all’altro di vedere entrare in casa qualche omone con la faccia coperta da un passamontagna, o un calzino nero. Tanto neanche avrei potuto riconoscerlo senza un filo di luce. Avanzai ancora, mi sembravano attimi lunghi una vita, le gambe pesanti e i piedi nudi e freddi, i polpastrelli delle mani scivolavano contro il muro alle mie spalle, la mente vuota e terrorizzata. Quando inciampai nei piedi della credenza era troppo tardi per evitare di finire distesa a terra, come un sacco di patate, e slogarmi una caviglia. Il dolore fu acuto fin da subito, mi morsi il labbro per non urlare e, soprattutto credo, per non inveire contro un dio qualsiasi. Mi misi a sedere e sentii il freddo delle mattonelle contro il sedere, mentre chiudevo le mani intorno alla caviglia destra. Era come se avessi la pelle infilzata da un migliaio di aghi e il dolore si propagava su, lungo la coscia e mi avvolgeva il piede come un fuoco. Avevo le lacrime agli occhi, ma sapevo che rimanere inerme sul pavimento, mentre uno sconosciuto stava tentando in tutti i modi di violare la casa, non era cauto per niente.
Strinsi i denti e mi issai, attenta a non poggiare la pianta del piede dolente per terra, ma fu inutile e una nuova fitta mi salì per la gamba, allora mi lasciai sfuggire un gridolino, serrando immediatamente le labbra. Poggiai le  mani sul mobile contro il quale ero andata a sbattere e rimasi curva su di lui per riprendere fiato e attendere che il dolore si affievolisse, fu allora che con le dita sfiorai un oggetto duro e liscio: era il portafiori in ceramica che i miei avevano comprato durante una vacanza in Italia e un’idea mi balzò in testa. Mi piaceva quel vaso italiano, mi trasmetteva una sensazione di solidità e fermezza e anche il fatto che si trovasse lì proprio in quel frangente.
Ancor più dello sbatacchiare della porta, mi spaventò il classico click metallico della chiave che fa scattare la serratura. Sicuramente i ladri (o chiunque ci fosse nel vialetto di casa mia) avevano portato con sé i ferri del mestiere, un giravite in questo caso, o una di quelle chiavi universali che possono aprire qualsiasi serratura. Non so se esista davvero una cosa simile, l’ho visto nei telefilm. Mossa dall’adrenalina sviluppata dal terrore, afferrai il portafiori e, zoppicando, mi schiacciai contro il muro alla destra della porta d’ingresso, il cuore in gola e il respiro trattenuto, mentre la caviglia inviava il suo disappunto a tutto il corpo.
 
Quello che sto per raccontarvi accadde in una manciata di secondi, o addirittura frazione di secondi, ma a me parve svolgersi tutto al rallentatore, come i fotogrammi di un video che si susseguono così lentamente da poter scorgere anche le sbavature più nascoste.
Nel momento in cui la serratura della porta scattò, la prima cosa che vidi fu un tenue raggio di luce bianca e, scordandomi di respirare probabilmente, alzai il vaso poco sopra il mio capo, in attesa di veder comparire una testa sulla quale romperlo. Invece, inizialmente, fu solo quella luce fioca e la porta che si apriva piano, senza emettere alcun cigolio sinistro. Se avessi potuto, sarei scomparsa nel muro, attraverso il muro, come un X-men. Ma non potevo, ovviamente, e rimasi perfettamente immobile.
Calai il portafiori che stringevo saldamente in mano nell’attimo in cui adocchiai una sagoma scura e informe.
Quello che vidi fu il viso di Steve illuminato dalla torcia che aveva portato con sé. Non saprei decifrare la sua espressione in quel momento, fra l’esterrefatto e il preoccupato. Mi afferrò entrambi i polsi e li tenne in alto, sopra le nostre teste, chiusi gli occhi mentre il vaso si infrangeva in mille pezzi sul pavimento, provocando un gran fragore che mi rimbombò nella testa. A questo si aggiunse un tonfo più lieve, quasi metallico e, solo quando riaprì gli occhi, prima uno poi l’altro formando una sorta di occhiolino approssimativo, mi resi conto che la casa era di nuovo immersa nel buio, dalla porta aperta penetrava la penombra della notte che gli illuminava la schiena, ma non il viso, ai miei piedi la torcia che aveva lasciato cadere per difendersi dal mio attacco, si era spenta. Forse rompendosi in mille pezzi come era accaduto al bellissimo vaso italiano dei miei genitori.
Mi teneva ancora i polsi quando mi scosse leggermente:
«Volevi uccidermi con quel coso?» potevo sentire il suo odore anche a distanza. Completamente fuori controllo, iniziai a singhiozzare, tirando su con il naso, aprii la bocca per parlare, ma non ci riuscii
«Oh, no no no» mi lasciò i polsi e mi strinse, accarezzandomi la testa, il suo tono si era addolcito e il suo profumo adesso era fortissimo e inebriante. Si scusò per avermi spaventata così tanto, sempre tenendomi stretta contro il suo addome. Gli stavo bagnando la maglia all’altezza del cuore con le mie lacrime, ma sembrava un fattore di poco conto per lui:
«La caviglia» farfugliai con la voce incrinata e lui, poggiandomi le mani sulle spalle, erano grandi e rassicuranti sulla pelle nuda, mi spostò indietro. Mi sentii futilmente strappata via dal suo addome, come un neonato allontanato dalle confortevoli braccia materne. Sentivo i suoi occhi puntati su di me mentre mi chiedeva
«Come?»
«La caviglia» la indicai con l’indice sinistro, nel frattempo che il dorso destro era impegnato ad asciugarmi la faccia «Sono caduta e … e ho inciampato e … e …» un violento pianto isterico mi colse alla sprovvista e forse lo spaventò « … mi fa maleeee!».
In realtà non piangevo così disperatamente solo per il dolore al piede, quello si era forte, ma di certo non me lo stavano amputando senza anestesia. Piangevo per la paura che avevo provato quando era andata via la corrente ed ero rimasta sospesa in una dimensione buia e spaventosa (almeno lo era stata per me); piangevo per il terrore viscerale che mi aveva attanagliato lo stomaco quando avevo scorto una figura nello specchio (che poi ero io!) e, subito dopo, avuto la certezza che qualcuno voleva entrare in casa, incurante del temporale che stava per scatenarsi; piangevo per il sollievo che avevo provato vedendo il suo volto fare capolino nell’oscurità; piangevo per la sensazione di protezione che mi aveva donato il suo abbraccio e perché adesso avrei potuto abbassare le difese.
E respirare.


continua ...


  
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