Film > The Avengers
Segui la storia  |       
Autore: LaMicheCoria    26/08/2013    1 recensioni
«Non so come funzioni il sistema di notizie nell’Ade, Capitano, ma si dà il caso che io mi sia spezzato la schiena pur di venire a tirarti fuori da questo piattume greco e tu…»
«Io sono morto, Tony. I morti devono rimanere coi morti. Noi non apparteniamo alla vita. Noi apparteniamo all’Ade. Non abbiamo più passato, non c’è concesso futuro. Possediamo solo il presente. E il presente è nell’Ade. Insieme ai morti. Noi non apparteniamo alla vita. I morti devono rimanere coi morti. Io sono morto, Tony.»

Per ordine di Giove, Atropo recide il Filo della Vita di Steve Rogers. Un sacrificio necessario per riportare l'Equilibrio nell'esistenza dei mortali, perchè è giunto il momento che il Destino di Capitan America finalmente si compia.
Ma forse non tutto è così semplice e se Temi, la Giustizia Divina, non interviene più nelle vicende degli uomini, sarà il Caso a far sì che l'inganno -Se esiste, venga svelato.
Per riportare indietro il loro compagno i Vendicatori si spingeranno fino alla bocca dell'Ade -E anche oltre.
[Steve/Tony] [Clint/Coulson] [Bruce/Natasha] [Thor/Jane - Amora/Thor] [ CONCLUSA ]
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Steve Rogers/Captain America, Thor, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
cmd6

.:  *** :.

 

 

 

Il montone dondolò il muso, recalcitrò e gemette un belato sdegnoso, o forse solo debitamente terrorizzato; Tony arrotolò la cavezza attorno alle nocche, sacramentando tra i denti gli insulti più terribili contro quell’insulsa bestiaccia appestata di pulci e puzzo. L’animale arretrò e roteò gli occhi sanguigni verso l’alto, verso il basso, verso destra, verso sinistra, grattò il terreno molle con lo zoccolo, ma affondò con un singulto strozzato di fango ed erba, quasi fossero tutti intrappolati nelle sabbie mobili, trattenuti da nebbiose catene d’argilla.
«Sta’ buono, Obadiah!» lo richiamò il magnate e gli sovvenne il pensiero che, più della paura –Paura di cosa, poi? Cosa avvertiva che a lui era sconosciuto?- fosse il nome a mandarlo su di giri. E non in senso buono, ovviamente. Nessuno avrebbe voluto chiamarsi Obadiah, forse nemmeno lo stesso Obadiah avrebbe voluto continuare a chiamarsi così dopo quello che aveva fatto.
O magari sì, chi lo sapeva. Tony aveva rinunciato a capire Obadiah nel momento stesso in cui quello aveva cercato di arrostirlo in maniera tanto efficiente quanto maleducata. Parecchio maleducata.
Il carrettino che Odisseo aveva trascinato lungo il declivio scricchiolò e canticchiò una lugubre nenia di legno rachitico: Stark deglutì, serrando le labbra e cominciando a capire, almeno in parte, a cosa si dovesse l’agitazione del montone.
Fino al casolare la notte era stata limpida e quieta, il cielo terso, le stelle visibili. Poi dal fogliame improvvisamente irrancidito era spuntata quell’orrida struttura, quel bubbone di cemento a parallelepipedo, un’escrescenza grigia, sporca, malarica in mezzo all’erba rattrappita, che sapeva di marcio e muffa. Tony aveva creduto di trovarsi davanti ad una vecchia colonia fascista, ma qualcosa, nelle viscere della catapecchia incrostata di lerciume, l’aveva convinto del contrario.
Le voci, in primo luogo. Striscianti sussurri smoccolati, serpi sibilline come suoni sbocconcellati, subdoli sentieri strascicati, srotolatisi sulle piastrelle sbeccate, sulle finestre spaccate, su stradicciole smarrite di sassolini e singulti d’ovatta. Non avevano forma, non erano parole precise. Si rincorrevano l’una l’altra tra i lividi batuffoli di polvere, i sacchi accartocciati della spazzatura, cicche di sigaretta, scontrini mangiucchiati dai ratti, tappeti smembrati, giornali ammonticchiati, tende sbranate, siringhe, cartucce, stoffe, ceramiche, tumescenze di cera, candele di sego. Non si fermavano, non avevano calma, né requie, sghignazzavano nell’ombra, si torcevano alla luce pallida e unticcia del fiammifero che Odisseo tratteneva paziente tra i polpastrelli imbiancati dalla tensione.
Tony le aveva sentite infilarsi, ridacchiando, nelle orecchie, scivolare lungo la gola, impiastrargli le narici; avevano creato un ingorgo litanieggiante all’altezza delle corde vocali –Corde vocali che avevano preso a liquefare, sciogliere, imbastire, annodare a loro piacimento, fino a sminuzzarle, fino a renderle mute; si erano accovacciate nei polmoni e lì erano rimaste, gnaulando e miagolando un lugubre coro di pianti.
Perché cantavano, sì, su questo Stark non aveva dubbio alcuno: cantavano di nuvole e nebbia, di vino e di miele, di acqua che scorre e tempo che sgretola, di amore che nasce e dolore che prolifera, una montante marea di cupa oggettività che il magnate sentiva appiccicarsi alle ossa come tante goccioline di rugiada acida e corrosiva.
Cosa dicono? Aveva domandato ad Odisseo, mentre entrambi stavano passando sotto un architrave dentellato.
Sono gli spiriti dei Cimmeri(1), non dar loro ascolto. Volgi la tua mente a ben altri pensieri, che il tuo cuore si colmi di vita e non di morte. L’eroe gli aveva quindi voltato le spalle, cominciando a rovistare con le dita lunghe e nodose –Così simili al legno di un albero maestro- tra le pieghe di una tenda polverosa e bitorzoluta, tinta d’una cupa tonalità vinaccia.
Accompagnato dal dleng dleng delle nocche di Odisseo che andavano a sbattere contro corpi ceramici non meglio identificati, Tony aveva seriamente tentato di concentrarsi su qualcosa che non fossero i rimbrotti purulenti di qualche anima spersa nella polvere. Non gli era sembrato un compito tanto difficile, giacché avrebbe dato l’anima pur di trovarsi in un altro posto, dentro un’altra casa, sopra un’altra terra.
Immaginò il cielo, un’estensione azzurra a picco sul mare –Dacché si erano lasciati il tramonto alle spalle, non un rigagnolo di luce era colato a bagnare il sentiero ai loro piedi: quel luogo tetro pareva immerso in un fetore costante di ombre. Ma nella sua testa, ecco…! Un nuovo orizzonte, un sole brumoso a sfumare con le dita i primi vagiti dell’alba.
Sognò di un pavimento splendente, le cui piastrelle, sospirando, variavano languide dal grigio ferro al blu metallizzato; le pareti, alte, sfiorate appena dal tocco incolore del neon, si incontravano ai quattro angoli del soffitto a lastroni pallidi. Lo specchio a muro raccoglieva l’immagine rialzata del letto, i vestiti acciambellati a terra, e rifletteva ancora anse e movimenti, i giochi di bagliori addosso alle spalle, nell’incavo delle gambe, sul retro delle ginocchia, lungo la curva della schiena inarcata.   
Inspirò a pieni polmoni l’odore pungente della santa trinità a tre esse –Sesso, sudore e sale- che inumidivano la bocca ed il ventre, la punta delle dita e il profilo aguzzo delle ultime vertebre, ogni piega rigonfia delle lenzuola incredibilmente bianche, deliziosamente sfatte.
Si crogiolò nel tepore di una vetrata aperta sull’estate, si nutrì il cuore dell’invitante tremolio del caffè che gorgheggiava a un corridoio di distanza, ritrovò coi polpastrelli l’incavarsi del materasso nel punto preciso dove un altro corpo era rimasto disteso fino a pochi attimi prima.
S’umettò le labbra col sapore dolce-amaro di una pelle calda, tesa con uno spasmo sotto la lingua; la bocca arsa della carne che riempie palpitando le mani, del respiro che si mozza nell’armonia gutturale d’un roco ansimare.
Ma nulla era più vero, di quell’immagine. Nulla più esisteva –Era bastato un filo reciso, era stato sufficiente un arresto a cardiaco.
Bave di ragnatele caddero suicide dal soffitto, ruggì la polvere a ricoprire il mobilio, ad insozzare le lenzuola, a graffiare maligna la superficie dello specchio; la mente protestò e si ribellò e crollò il cielo, il sole, l’estate, si disfece il pavimento e la realtà all’intorno: non più il bubbolio ridacchiante del caffè, ma soffi, sibili, litanie, ingiurie, preghiere, lacrime e canti e tutto fu nebbia e tutto fu grigio e la perdita ghignò, sorrise, latrò, divenne mefitica e Tony non riusciva più a trovare la vita, vedeva solo la morte e la toccava la mano e la rifuggiva e la riabbracciava, la accompagnava in un giro di valzer e poi l’abbandonava sul ciglio dell’esistenza e subito pentito era in ginocchio da lei e le baciava le ossa imputridite e la pregava, la implorava di sostituire al teschio deforme un volto ben modellato, alle orbite vuote cortesi iridi azzurre, alla non-vita la più importante delle esistenze. Soffocava per lacrime che non credeva di avere, urlava grida che credeva di possedere, sprofondava in un’agonia che non credeva di provare.
Avrebbe continuato a vagabondare nel delirio dei Cimmeri, non fosse stato per la presa salda di Odisseo sulla spalla destra.
Ricordi, Uomo di Ferro? Vita, t’ho detto! I Cimmeri, custodi dell’Erebo, si nutrono della morte, giacché non altro gli è rimasto: non vino, non latte, non datteri od offerte le sopracciglia cespugliose si erano arcuate fino ad agganciarsi all’attaccatura dei capelli Guarda! Osserva come la nebbia ci si è gonfiata all’intorno e come brulicano i loro occhi attraverso i tralci della tua disperazione. Non pensare a chi stai andando a salvare, Uomo di Ferro, ma chi è rimasto ad aspettarti, a salvarti, oltre il popolo e la città, di nebbia e nubi avvolte(2).
Stark aveva annuito, forse deglutito –Aveva faticato anche solo per ricordare dove si trovasse e in qualche condizione e perché fosse lì, intirizzito dal terrore e dalla nebbia.
Erano usciti nel giardino incolto da una porta scrostata e dai cardini in parte divelti, Tony che si guardava circospetto alle spalle, la camicia incollata alla schiena per colpa d’un gelido reticolo di sudore freddo; Odisseo che avanzava lesto tra l’erba alta, le sterpaglie e la gramigna.
Se i ricordi alla Tower erano più un intralcio che un sollievo, Stark decise di aggrapparsi all’unica persona ancora in grado di tenerlo vivo: Pepper gli arrivò accanto, un’eco di dolce pazienza, addosso il profumo tiepido di quell’intruglio alla cannella che si ostinava a bere prima di iniziare a lavorare; un leggero retrogusto di Vodka Martini a donare una stilla divertita agli occhi gentili, i capelli che cadevano dalla spalla destra in un singhiozzo rosso-biondo e si arricciolavano come un sorriso appena sotto la curva del seno.
Gli aveva dato un bacio sulla fronte, prima che partisse per Vathy, e lo aveva abbracciato. Gli aveva chiesto scusa, lo aveva stretto più forte.
Tony aveva riconsiderato le proprie storielle e scappatelle varie da parecchi punti di vista, ma con Pepper la situazione era diversa. Pepper non era stata una storia, non era stata un’esperienza…Era stata una vita e per questo Stark ancora la ringraziava –Arrivando persino a scegliere di persona il suo regalo di compleanno. Di persona con Steve, ma era pur sempre un dettaglio tranquillamente trascurabile.
Fuori dal casolare fatiscente lui ed Odisseo avevano seguito una staccionata smangiucchiata dalle intemperie, fino a raggiungere un recinto squadrato e in buona parte ricoperto da fogliame incolto; al centro un montone nero e una pecora dagli occhi acquosi, immobili, come in attesa. Senza dire una parola, l’eroe omerico aveva tratto via un carrettino cigolante dall’ingorgo di sterpaglie che gli era accanto, vi aveva depositato il sacco di juta in cui aveva messo…il qualunque cosa avesse tratto dalla tenda bitorzoluta, tre anfore ancora piene –Aveva sentito del liquido scrosciare rumoreggiando in ognuna di esse - ed una più piccola, che sapeva di miele odoroso –Ma com’era possibile che fossero lì? Che fossero ancora pieni? Perché erano lì? Perché erano ancora pieni? Perché non erano marciti e, dannazione, perché tutto, tutto sembrava predisposto da tempo immemore per la loro venuta?
Odisseo aveva poi legato i due animali e cominciato a salire lungo il profilo della collina, attraverso sentieri che non esistevano e deviazioni coperte di spine e rami cenciosi. Si muoveva con la sicurezza di chi avesse il percorso tracciato non nella mente, ma nel sangue.
Quante volte sei già stato qui?
Una sola, Uomo di Ferro. Ma una visita a questi luoghi è bastevole per una vita intera.

Più si addentravano nel ventre guasto di quel luogo dimenticato da Dio –Da qualunque pantheon provenisse-, più il miasma pallidiccio s’infittiva e le nenie crocchiolanti s’alzavano di volume e malinconia; Tony aveva spesso torto il collo a cercare la ghirlanda luminosa che era Termini Imerese, addormentata nella conca dei declivi, ma della cittadina italiana non era rimasto che un pigolio vacuo oltre la nebbia melmosa.
«Di’, ma cosa ne dobbiamo fare di Obadiah e della tua pecorella?»
Odisseo sulle prime non rispose, intento com’era a sfilare dal sacco alcune coppe piuttosto profonde, dotate di due anse orizzontali all’altezza dell’orlo e sulla pancia una decorazione tanto affastellata di elementi che Stark non sapeva dove porre lo sguardo.
«Di cosa credi si nutrano le divinità ctonie, Uomo di Ferro?» lo rimbeccò, aprendo le anfore a svelare il loro contenuto di latte cagliato, acqua e vino dolce.
«Take Away cinese?»
L’eroe lo fissò per alcuni istanti, prima di scoppiare a ridere e rivelare la chiostra bianca dei denti.
Non era più il pazzo arzillo che aveva incontrato a Vathy: aveva abbandonato le spoglie da mendico per spalle larghe, torace ampio, pelle cotta dal sole e ingemmata di cristalli di salsedine; i capelli rosso-bruni gli arrivavano fino alle orecchie e coprivano il mento volitivo con una sottile peluria della tonalità del bronzo, più folta sotto il naso adunco e rada all’altezza degli zigomi, due spessi triangoli come d’argilla che sporgevano a sostenere gli occhi obliqui e verdi, colmi di mare e sapienza. Delle vesti con cui gli si era presentato aveva mantenuto unicamente il cappellaccio conico, mentre la corta veste blu scuro, trattenuta in vita da una cucitura rosso squillante, aveva ben altro aspetto ora che non recava più traccia di polvere e sporco.
«Ehi, non giudicarlo prima di---»
«Scava una fossa cubitale, Uomo di Ferro. Mantieni nel tuo cuore, però, ancora il soffio di allegria di questa tua facezia, giacché ciò che vedrai ha sfiancato spiriti più audaci del tuo»
Odisseo parlava poco, ma le sue frasi erano una meno comprensibile della precedente. La cosa peggiore, però, era la traccia di inquietudine che esse lasciavano addosso, un sentore inevitabile e terrore, brividi sotto pelle, fiato bollente ad attanagliare la gola.
Tony fece quel che l’eroe gli aveva detto, spiando le sue mosse con la coda dell’occhio: lo video estrarre da una piega della veste un coltellaccio a costola curva; il montone e la pecora scalpitarono e belarono, qualcosa tremò, vibrò sotto la terra.
Stark scattò in piedi e s’allontanò con un salto nel vedere un dito ricurvo spuntare dall’ultima zolla smossa, artigliare l’aria, torcersi e quindi svanire come fiammella spenta da un soffio di fiato; si voltò a cercare Odisseo con sguardo allucinato e le tempie sbiancate dal terrore; l’eroe sorrise d’un ghigno superiore e lontano, slegò la cavezza, avvicinò il carrettino e strattonò gli animali in avanti, per poi consegnare corde e coltellaccio nelle mani del magnate. S’inginocchiò nel fango a saggiarne la profondità con le unghie incrostate di rimasugli violacei, quindi si rialzò e prese la prima delle anfore, versò il contenuto nelle basse coppe e lo gettò dentro la fossa.
Il latte si frantumò ruggendo contro le pareti bombate, l’odore si mescolò nauseabondo al lezzo crescente di putrefazione e ossa divelte; ad esso seguì una lacrima di miele ambrato, dolce come l’ultimo abbraccio dei cari, e poi vino profumato di zucchero e spezie, asprigno, stucchevole, calice alzato alla memoria del defunto. Infine l’acqua, a cancellare e mescere, a comporre e distruggere, e la terra assorbì le libagioni con un risucchio di gengive insalivate e bocca di vecchio, l’erba ebbe un guizzo di fuoco e smeraldo, il freddo irrigidì finanche le stelle.
«Divinità dell’Ade e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò in quest’impresa da infiniti tramonti non più tentata, io prometto di immolarvi la più grassa delle vacche sterili e di colmare il rogo di ricche offerte.»
Obadiah gettò un urlo d’orrore, la pecorella scalpitò, ma Tony era troppo paralizzato per accorgersi di qualcosa che non fosse il fluire delle offerte in rigagnoli pestilenziali o la voce di Odisseo, profondo rombare d’Oltretomba.
« E per…» l’eroe sollevò gli occhi di baratro nero ad incontrare gli occhi di Stark e questi avvertì la risposta uscire di propria sponte dalla bocca contratta.
«Steven Grant Rogers» mormorò, con un sussurro intorpidito che non gli apparteneva.
«…Steven Gran Rogers a parte sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei nostri greggi.(3)»
E prima che potesse protestare, prima che potesse capire, Odisseo artigliò con dita ferine le corde che trattenevano gli animali e il montone fu il primo a cadere. Un lampo del coltello, il filo della lama pianse gocce vischiose di sangue fumoso e cedettero le ginocchia coperte di vello e svennero gli occhi marroni nell’orbita infossata del muso triangolare. Un urlo di sordo giubilo squarciò il ventre del mondo, la nebbia fremette, s’arricciolò, cantò entusiasta e volti senza viso di uomini antichi si acquattarono attorno al perimetro della fossa, esseri fatti di goccioline e ragnatele, esseri che non conoscevano il sole, esseri avvolti dai nembi eterni e senza fine –I Cimmeri.
La pecorella tentò di saltare oltre il bordo, ma Odisseo fu veloce e l’agguantò e le disegnò un sorriso purpureo sul collo lanoso. Sprizzarono ovunque filamenti rossi e trine vermiglie, pioggia carminia e ululati gorgoglianti, strascicare di vesti, tendersi di nervi, strascinarsi di piedi, versi arrochiti di stomaci contratti dalla fame di vita, dalla sete di sangue.
Odisseo si levò, Tony arretrò, i Cimmeri esultarono.
I morti apparvero.

 

***

Nel muovere un passo in avanti, la pietruzza si staccò da sotto la suola del calzare e rotolò tintinnando in acqua. Il trampoliere(4) sollevò il collo flessuoso e girò verso di lui il becco appuntito; rimase ad osservarlo per alcuni istanti, gli occhietti neri socchiusi –Sospettosi, persino-, quindi battè le ali e s’involò con uno scatto liquido, la punta candida delle piume che gettava all’intorno schizzi e gocce grigiastre.
Gli uccelli erano ovunque, tanti puntini bianchi tra i canneti incolori e il rimestare limaccioso dei fiumi: Thor ne vide uno percorso da venuzze rigide, come cristalli o graffiti di ghiaccio, un secondo limpido, a specchio, che lasciava intravedere il fondo di ciottoli sgrossati e appiccicosi di melma verdastra; ve n’era anche un terzo, un tripudio di fiamme, cenere e lapilli, il cui convulso scorrere lavico era accompagnato da un singhiozzare continuo, costante(5).
Il Dio tese il collo in avanti, non osando avvicinarsi di più, né cercare una facile discesa alle rive bollenti.
«Per Odino…!» esclamò, ritraendosi «Sono uomini, quelli immersi!»
Ed era vero, lo sguardo non l’aveva ingannato: tra i flutti di fuoco emerse un cranio ustionato, la pelle una crosta nera e ributtante sulle ossa roventi; dei bulbi oculari non era rimasta che una poltiglia di lacrime e muco, della bocca carne untuosa, pustole e bubboni cancerosi –Eppure possedevano ancora la forza, o la maledizione?, di poter piangere, di poter urlare, di poter implorare la salvezza.
«Non ti curar di loro, amore mio» l’Incantatrice gli mise una mano sulla spalla «Parricidi e matricidi, poco più che bestie.»
Thor era sul punto di ribattere, quando un suono, un belato, risuonò in invisibili cerchi sopra le loro teste e tutta l’aria –Fino a quel momento intrisa del sapore di vino, miele e latte cagliato- s’impregnò di metallo e sangue; il Dio alzò la testa e corrugò la fronte quando vide i trampolieri levarsi in un sol gesto nel medesimo istante, un unico corpo di penne e guaiti stridenti.
Nell’avvoltolarsi stagnante dell’acqua sollevata dalle loro zampe, presero forma figure oblunghe con teste ovali, arti allungati e corpi molli, stracci penduli dalle braccia gommose e attorcigliate attorno a caviglie tremolanti. Claudicavano ondeggiando verso il punto in cui il fiume di fiamme e il rivo striato di gelo si univano a formare una lingua d’acque fumose: era sorto una specie di rigonfiamento, in quella zona, formatosi dall’accumulo di sostanze vischiose, bianche, rosse e ambrate, dal lezzo maleodorante, infetto. Le anime immerse nella lava tentarono di uscire, aggrappandosi agli orli appiccicosi degli altri spiriti, ma appena uno riusciva nell’impresa ecco…! Uno dei trampolieri gli volava affianco e gli strappava le dita con una beccata; le creature lattee, in qualche modo richiamate dal gesto dei parricidi, facevano ricadere il cranio sul petto bombato e piegavano le gambe esili, come ad inginocchiarsi. Di nuovo, l’uccello interveniva ad impedire ogni contatto, afferrando tra gli artigli la veste pallida dello spirito e traendolo via, riconducendolo alla lunga, lenta processione.
Il Dio del Tuono sarebbe rimasto ancora per molto tempo ad osservare la litania di anime mugolanti procedere senza scopo comprensibile, soprattutto perché esse, una volta arrivate sull’escrescenza rialzata, tendevano le falangi tubolari alle pareti coniche del pozzo roccioso e poi svanivano, in un soffio di polvere e cristalli. Avrebbe voluto, questa volta, scendere per osservare più da vicino, ma Amora doveva avere per lui altri progetti: lo afferrò per un lembo del mantello e lo costrinse a scendere per una viuzza screpolata, a stento bastevole per far passare entrambi in fila indiana.
Si tennero lontani dalle rive dei tre fiumi, ma Thor poteva comunque sentire ragnatele di zolfo e carne bruciata incrostargli le narici e il fiato gelido degli spiriti colare denso sul retro del collo; l’Incantatrice quasi correva, i capelli biondi ridotti a filamenti grigiastri per la luce non-luce di quel posto infame.
«Amora» la chiamò il figlio di Odino «Amora, dove stiamo…?»
La donna si girò veloce, lo sguardo che ostentava una sicurezza inesistente, la bocca che cercava di nascondere il tremore impaurito della mascella; le spalle candide erano scosse dai brividi, il petto florido s’alzava e s’abbassava non per la corsa, ma per il panico del cervo che si sa braccato dal cacciatore, pur non vedendolo negli angoli che svolta e snida. Torse il collo a cercare dietro di sé, strinse le labbra truccate di carminio e fece scivolare le dita sinuose tra quelle di Thor; questi arretrò, ma in cuor proprio non poteva negare come, in assenza di Lady Jane, avrebbe trattenuto con gioia la mano dell’Incantatrice contro il palmo.
«Dobbiamo sbrigarci, amore mio.» lo avvertì e portò una nocca al labbro inferiore «Siamo stranieri in questo luogo, non scordarlo. Se ci trovassero…» s’interruppe di colpo e gli occhi sgranarono; il Dio stava per chiederle di continuare, quando una voce alle spalle palesò il motivo di tanto terrore.
«Se vi trovassimo, prima vi interrogheremmo. In seguito vi conficcheremmo la nostra picca nel costato»
Thor si girò, cauto, il braccio destro già teso lungo il fianco, pronto a richiamare Mjolnir; appena ebbe posato lo sguardo su chi aveva parlato, poi, il figlio di Odino capì di essere al cospetto di propri pari.
Erano due ed erano a cavallo: nudi entrambi tranne che per un mantello tinto di porpora ed un copricapo a guisa di guscio calato tra i riccioli neri, acconciati ai lati delle tempie in trecce sottili, lucide d’olio. Un balteo di cuoio abbellito di borchie in argento attraversava loro il torace, a sostenere sulla schiena una picca di frassino, e sulla fronte algida fiammeggiava una stella iridescente. Guardandoli nella fretta e nell’apprensione, a Thor i due gemelli -Perché altro non avrebbero potuto essere- erano sembrati identici in ogni dettaglio, ma osservandoli meglio notò che gli occhi di uno avevano il colore della terra bagnata, del limo fecondo, del fango che straripa fertile dalle bocche del fiume; le iridi dell’altro, invece, avevano la splendida, meravigliosa lucentezza del cielo terso che circondava anche Asgard, l’azzurro divino dell’orizzonte più terso, della più pura volta celeste. La pelle di quest’ultimo, inoltre, era come intessuta d’oro e le carni del secondo fratello, a confronto, ne uscivano smorte, pallidicce, malate. I muscoli non erano così scattanti, né delineati, la bocca non così rossa, le gambe non così forti –Se qualcuno glielo avesse chiesto, il figlio di Odino avrebbe detto che ad uno era stato concesso al dono dell’immortalità, all’altro negato per natura di sangue.
«Attento, cuore mio» bisbigliò Amora al suo orecchio «Costoro sono custodi dell’Oltretomba. Essi sono gemelli, nati da un uovo di cigno. Ma ricorda, uno solo di essi…»
«Taci!» gridò il fratello dagli occhi di terra, tirando le briglie tintinnanti «Polluce(6), anche tu lo senti? L’odore che li appesta, il lezzo che mi attanaglia lo stomaco» socchiuse le palpebre, storcendo la bocca in un’espressione di sommo disgusto «Paglia impregnata di barbarico piscio, barbaro idromele e sangue barbaro. Dite, stranieri, riuscireste a pronunciare i nostri nomi senza arrotolare balbettando le vostre lingue balbuzienti(7)
Thor ringhiò, la faccia stravolta dall’ira e dalla vergogna; le vene del collo pulsarono, i denti scricchiolarono tanto prese a digrignarli.
«Via, Castore, non intrattenerti oltre con loro» lo riprese Polluce, ma sul suo viso non c’era alcuna intenzione di porre fine alla tensione «Di certo, avranno una spiegazione per questo comportamento, vero? Del perché si sono introdotti come i peggiori dei ladri nella Dimora dell’Ade, del perché Cerbero non ringhia e non latra più dall’oscuro ventre del suo antro. Oppure…Oppure, proprio come quel cane d’Odino, Signore della Fetenza, venite qui pensando di poter disporre dell’Ade, solo perché ora---»
Non gli riuscì di concludere la frase, che già il Principe di Asgard lo aveva colpito allo zigomo col potente Mjolnir: un gran scoppiettare di tuoni e scricchiolare di lampi accompagnò la caduta di Polluce, tra gli schizzi di fango e rametti bavosi incastrati tra i ricci ben modellati. Il cavallo, privo di cavaliere, nitrì, s’imbizzarrì, mosse impazzito gli zoccoli al vento; Castore gli fu incontro, spingendogli davanti la propria cavalcatura con una ginocchiata nei reni.
Infuriato oltre ogni limite, girò la testa e tese la picca.
«Pagherai col sangue quest’affronto, cane barbaro.»

 

***

Steve smise di parlare e gli venne il dubbio di non aver nemmeno mai iniziato.
Ricordava l’ingresso nel gorgo nero, affiancato da Ermete, il cicaleccio cigolante del fuso e le dita che strimpellavano rancide nenie su un filo ben teso e il morso rugginoso d’un paio di cesoie farsi lontano e confuso; ricordava la strada in discesa e il buio sempre più fitto, ma che per gli occhi non era causa di fastidio alcuno: il Capitano vedeva bene come fosse stato giorno, per quanto, a onor del vero, da osservare e rimirare ci fosse ben poco.
Ermete era l’unica fonte di luce nel grigiame della galleria, il bagliore delle vesti e della fascia alata che gli cingeva la fronte creava ai suoi piedi un alone d’oro bianco capace di allontanare qualsiasi ombra avesse cercato di sopraffarlo. E di ombre, in quel luogo, ce n’erano in abbondanza: ombre negli angoli della roccia, nei tumori tufacei della pietra, tra le noci di ghiaino e le erbacce scheletriche, ombre nel reflusso sonoro di acque lontane, ombre ad infiacchire la voce, a sbriciolare i ricordi.
Steve non le temeva, il che lo inquietava parecchio. Più avanzava attraverso il rigurgito stagnante, più cominciava a sentirsi a proprio agio in mezzo a quei nugoli mormoranti e un senso di pace lo ineluttabile lo invadeva dalla cima della testa alle punte dei piedi.
E lentamente, inesorabilmente, iniziava a dimenticare.
Schiacciato dalla pesantezza dei miasmi e dal silenzio corroborante, Steve aveva deciso di raccontare qualunque cosa gli fosse venuta in mente, con la sensazione, così, di non perdere se stesso: aveva detto ad Ermete del Madison Square Garden, della folla e delle luci, del ringhio del motore sotto le dita; gli aveva presentato James “Honcho” MacDonald, Reddy e Wolf, descrivendo la vivacità del primo, l’emozione del secondo e la sospettosa serietà dell’ultimo, di tipico stampo californiano; aveva taciuto del pre-spettacolo, però, degli occhi di Stark riflessi nello specchio del bagno della Tower, il suo completo lucido –Armani, naturalmente-, la cravatta ancora allentata, la testa piegata appena sulla spalla destra e le braccia incrociate sotto il petto. Come avesse appoggiato la schiena allo stipite della porta e l’avesse osservato mentre si sistemava i capelli con la brillantina che il magnate tanto detestava. Come gli avesse sorriso di quel suo sorriso particolare, che a malapena la gente avrebbe catalogato sotto la voce Ghigno non troppo derisorio.
Avrebbe volentieri taciuto altro, ma ad ogni parola che pronunciava un filo di memoria veniva reciso con un singulto strozzato e allora Steve parlava, parlava, parlava ancora e di nuovo, e raccontava e narrava in uno scrosciare di memorie impastate l’una con l’altra, una fanghiglia di immagini dove il prima ed il dopo non avevano significato, e il vero si mescolava al falso, il giorno al sogno.
Tornava indietro, sempre più indietro, tornava a Peggy e al calore del suo sguardo, al vestito scarlatto nel baluginio polveroso del locale, al suo sapore che sapeva di lacrime e gioia e buona fortuna sulla bocca, e poi  Bucky, come scordare Bucky? Bucky, l’amico, il fratello, il compagno, e la sua mano tesa e il suo sguardo rassicurante e la sua caduta nel vuoto e nella neve, l’ultimo urlo svanito nella tormenta e il volto contratto nel laboratorio di Zola e la sua risata sminuzzata dai lumini singhiozzanti di ConeyIsland.
Col fiato corto e il respiro inacidito in gola, il Capitano aveva continuato a correre sul sentiero dell’esistenza passata, fino a quando le storie erano finite e la voce si era spenta.
Allora era arrivato il languore e l’inerzia, una forza-non forza a sospingerlo in avanti con molle fermezza, il passo zoppicante, la testa a ciondoloni, le palpebre cadenti. Non gli importava più di parlare, giacché non avrebbe più saputo cosa dire. Non gli importava più di ricordare, giacché anche la memoria lo aveva abbandonato.
Non viveva più, ormai, a che serviva rivangare ciò che era stato? Aveva abbandonato il passato e perso il futuro, tra le mani di biacca bluastra gli rimaneva il viscido presente dell’Ade e avrebbe fatto bene a tenerselo stretto, prima che la follia gli tarlasse brano a brano quel poco di pace che era riuscito a conquistare –Sebbene a costo di un’esistenza che, ora, era meno d’un vago miraggio.
Era vecchio. Vecchio e stanco.
Ora poteva smettere di affaccendarsi. Ora poteva riposare.
«Presto arriveremo alle rive dello Stige» lo avvertì Ermete, degnandolo di un’occhiata impersonale, di chi aveva ripetuto la medesima frase per mille volte mille secoli «Lì ti consegnerò un obolo: quando richiesto, lo darai a Caronte, affinché…» il volto etero del Dio s’accartocciò, un reticolo di rughe comparve a raggrinzirgli la fronte piana.
Con un flaccido movimento del collo, il Capitano reclinò la nuca all’indietro: latte cagliato e vino, sapor d’acqua e di miele giallognolo gli intorpidirono la lingua, appallottolandosi entro la cavità delle guance e scavando, scavando a fondo, a ritrovare la carne e i nervi, le vene, lo spirito. Esplosero con un boato dentro il torace, lo stomaco si torse e reclamò qualcosa di più del cibo, stremato da qualcosa di ben più forte della sete.
Le pareti del ventre arsero, furibonde e roventi, ogni fibra del corpo di Steve urlò a gran voce la vita perduta, la mente tuonò uno schiocco di vita nel cranio altrimenti vibrante di silenzio; la voce sgorgò a fiotti liquidi dalla bocca pervasa dall’indolenza, il respiro grattò i polmoni muffiti e il fiato era caldo ed era buono, il richiamo tanto forte da piegare le ginocchia.
Rogers non colse l’espressione stupita del Dio, né si curò di come l’Ade, all’improvviso, si fosse animato di mille e più fiammelle lattee: il corpo rispose al suo bisogno, le gambe si mossero da sole e si lanciarono in avanti, i piedi nudi cozzarono a contatto col pietrisco, scivolarono e sdrucciolarono, ma il Capitano non perse l’equilibrio, non perse la presa –Non perse la speranza.
Corse lungo la riva di un fiume turbinoso d’onde schiumanti, guidato dalla fame che lo divorava dall’interno. Vide spiriti e foschia e lamelle di ghiaccio ed un rialzo grottesco di libagioni; non si fermò quando un trampoliere gli tagliò la strada in un gran frullare d’ali, né quando un ruggito di zoccoli rovinò fragoroso all’intorno e un grido e un urlo risposero loro con barbaro rimbombo di lampi.
Ermete lo seguiva in volo, perplesso e confuso, ne avvertiva la presenza alle spalle mentre si librava di una spanna almeno sopra il pietrisco della sponda; Steve s’arrampicò sull’ammasso globulare e stette in piedi a rimirare verso l’alto, ebbro di un’attesa che credeva non poter provare mai –Che credeva non avrebbe più provato: sopra di lui le pareti ben delineate del pozzo scintillavano per le gocce bianche del latte e sanguinavano lacrime di dolce vino rosso; blasoni di miele colavano accanto ad un pigro ruscellare d’acqua e su, ancora più su, dove prima il soffitto era un’unica volta di pietra impenetrabile, un ritaglio squadrato franava luce grigia e palpabile nebbia grigio-perla.
Il profumo metallico del sangue gli bruciava le viscere, le rigirava sulla punta di un coltellaccio bollente, e mordeva e bestemmiava –Aveva sete, una sete insopportabile. Sete di vita, sete di sangue, sete di parole.
Sentiva una voce, il Capitano, qualcuno che lo chiamava, qualcuno che lo pregava di tornare e di mostrarsi, di farsi vedere, di dimostrare come fosse ancora presente e non divorato dall’annullamento dell’Ade.
Steve chiuse gli occhi ed inspirò piano, inspirò a fondo.
Quando sollevò di nuovo le palpebre ed espirò un lungo, pesante sospiro, Tony era davanti a lui.

 

***

«Quindi ora lo prendo e lo porto a casa, giusto? Una sorta di pacco espresso per le Stark Industries?»
Odisseo, ombroso e cupo in volto, scosse la testa. Aveva le mani ancora lucide di sangue e un’immane stanchezza negli occhi antichi; Tony, immobile sul ciglio della fossa, lo sguardo che ne rincorreva di quando in quando il perimetro per cogliere un’avvisaglia dell’arrivo di Steve, si girò a fissarlo con la mandibola contratta.
«Ma allora…» soffiò, le palpebre strette, le dita chiuse a pugno «A cosa è servito venire---»
«Non puoi portare via i morti dall’Erebo, Uomo di Ferro –Esso, infatti, ancora mi deve tre abbracci alla cara e defunta madre» l’eroe omerico si rimise in piedi «Ti è concesso, però, dialogare con loro. In questo caso, di avvertire colui che tanto scompiglio ha creato nell’Olimpo e persino ad Asgard»
Stark si massaggiò le tempie con le dita, pregando a denti stretti che qualcuno –Possibilmente vivo- gli portasse qualcosa da bere. Qualcosa di molto, molto forte e di molto, molto adatto a sedare l’istinto omicida che gli stava montando in corpo.
«Di cosa dovrei avvertirlo? Non lo so, magari di fare attenzione all’umidità? Oh, ti capisco, la sua chioma è l’invidia dei Nove Regni, come direbbe Point Break, ma sei giustamente preoccupato che sottoterra qualche ricciolo ribelle possa sfuggire alla patriottica impalcatura di brillantina con cui li doma ogni giorno. Molto carino da parte, davvero» annuì, sarcastico, e batté le mani «Ora, se la finissi con i consigli da Hairstylist e ti decidessi ad essere più chiaro e meno--»
«Avvertilo di non bere le acque del Lete o dimenticherà tutto.»
«---Ascolta, riguardo questa tua mania di interrompermi. Dovremmo lavorarci sopra, che ne dici?
“…Il Lete?»
«Le acque dell’oblio, che confluiscono nell’Acheronte insieme al Cocito e al Piriflegetonte. Se Steven Grant Rogers ne berrà anche un solo sorso, dimenticherà ogni cosa di questa terra e sarà incatenato eternamente all’Ade.»
Tony serrò le labbra e deglutì, indeciso se trovare la cosa di pessimo gusto, poco credibile oppure entrambe.
«Okay, d’accordo. Niente shot di questo…Fiume o qualunque cosa sia. Dio, lo sapevo che Rogers doveva avere più contatto fisico con la Vodka e meno col sacco di sabbia.»
«Inoltre» continuò l’eroe, del tutto incurante dei commenti del magnate «Ordinagli di parlare, sempre e comunque. Di parlare e di ricordare, le situazioni minime e insignificanti, un suono, un colore, un brivido. Digli di ricordare per se stesso e non per gli Dei o per lo psicopompo che lo accompagnerà oltre lo Stige: i primi perché con un sol gesto li mutano in polvere, per impedire il rimpianto dei morti e la loro pazzia. I secondi perché assorbono tali ricordi, alla disperata ricerca dei propri, abbandonati troppi anni addietro per poterli riavere. »
«Lasciatelo dire, tutto questo è inquietante» messo in allerta da un rumore come di stoffa impigliata in arbusti, Tony si girò verso la fossa.
E sbiancò.
«Rettifico. Questo è inquietante»
Una colonna di spettri pallidi e impaludati di foschia lattea erano comparsi dal nulla, stretti e ondeggianti nel perimetro cubitale dove Odisseo aveva gettato le libagioni e fatto scorrere il sangue dei due animali. Oscillavano a destra, dondolavano a sinistra, barcollavano indietro, ciondolavano in avanti, agitavano le lunghe braccia a forma di tubo, annuivano con le grandi teste bitorzolute e prive di qualsiasi tratto somatico.
L’eroe scattò in avanti e saltò dentro la fossa, il braccio destro a tenere lontane le anime con la punta del coltello, l’altro ad accennare a Stark perché lo seguisse.
«Non lasciarli avvicinare, Uomo di Ferro. Essi vogliono parlare, vogliono essere ricordati e respirare di nuovo l’aria del mondo, ma non c’è abbastanza sangue per tutti loro: fa’ che venga a te solo Steven Grant Rogers, e nessun altro.»
Il figlio di Howard annuì, convinto di poter riconoscere lo spirito di Steve da qualunque altro gli si fosse presentato davanti. Fu con sommo orrore che scoprì come ogni anima fosse identica a quella accanto, a quella davanti, a quella dietro ad un grado di perfezione tale da farlo uscire matto. Erano disgraziate tutte allo stesso modo, bianche allo stesso modo, gnaulanti allo stesso modo: nessuno presentava un dettaglio diverso che gli permettesse di ricollegarlo al Capitano.   
Andiamo pensò, nella più totale disperazione Andiamo, Steve. Vedi di arrivare, di tornare, di farti vedere. Dimostrami che non sei ancora stato inghiottito da questo marasma teologico in cui hai deciso di ficcarti solo perché, bhé, non so, c’è già stato il finale di stagione di Grey’s Anatomy? Sia chiaro, non è un buon motivo comunque, eh, ma ti giuro, ti giuro, è da due giorni che continuo a dirmi che deve esistere una spiegazione logica a quanto è accaduto, perché non te ne puoi essere andato così, dal nulla, senza avvertirmi, senza darmi il tempo di prepararmi alla cosa, senza… prese un respiro profondo, deglutendo il vomito logorroico che gli aveva appena gonfiato la bocca Fatti vedere, Steve. Ti prego. Smetterò anche di bere, intesi? Ti va bene come accordo? Tu…Tu esci fuori da quella tana per ratti e io disdico tutti gli appuntamenti in agenda con madama Vodka e mister Rhum. Anche quelli non agenda. Anche quelli su Twitter o i Poke su Facebook. Dico davvero stavolta. Ma tu…tu devi tornare, però. Torna. Ti prego…”
«…Torna»
La voce gli morì sulle labbra.
«Steve» riuscì solo a pronunciare quando vide il corpo del Capitano emergere dall’ammasso scomposto di spiriti.
Rogers avanzò piano, l’espressione vacua sul viso innaturalmente pallido. Il corpo era nudo, ma sembrava avvolto nella stessa guaina scivolosa delle seppie, appiccicosa come quella dei calamari; pareva che avessero costretto le sue carni in guanto di lattice tanto era bianchiccia e trasparente la pelle, tanto erano slavati gli occhi impolverati. Le dita erano bitorzolute, sgraziate, le unghie bluastre; i capelli erano paglia e il biondo era marcito fino a prendere un nauseabondo colorito verdognolo, le sopracciglia si erano assottigliate all’inverosimile, sparendo nell’ampia fronte, colante sudore e biacca.
«Tony» disse Steve e il tono era incolore, come incolore erano la bocca e le vene, striature d’un rosa malato a tessere ragnatele appena visibili sui polsi sgrossati ed il collo enfio «Cosa ci fai qui?»
Sulle prime, Tony nemmeno capì. Storse la bocca, scosse la testa, uno scintillio furioso gli bruciò lo sguardo.
«Che ci faccio qui? Che ci faccio qui? Non so come funzioni il sistema di notizie nell’Ade, Capitano, ma si dà il caso che io mi sia spezzato la schiena pur di venire a tirarti fuori da questo piattume greco e tu…»
«Io sono morto, Tony. I morti devono rimanere coi morti. Noi non apparteniamo alla vita. Noi apparteniamo all’Ade. Non abbiamo più passato, non c’è concesso futuro. Possediamo solo il presente. E il presente è nell’Ade. Insieme ai morti. Noi non apparteniamo alla vita. I morti devono rimanere coi morti. Io sono morto, Tony.»
«E considerati fortunato ad esserlo, altrimenti ti avrei---» Stark non ebbe il tempo di concludere la propria ingiuria, che Odisseo aveva steso un braccio ad impedire una probabile ritorsione fisica nei confronti di Rogers –Perché ci sarebbe stata, sì, Tony lo avrebbe volentieri preso a pugni fino ad ucciderlo di persona, lui e quei suoi dannati discorsi sui morti che dovevano rimanere tali. Idiozie! Balle! Gli avrebbe ficcato in testa a suon di destri e ganci che Anthony Edward Stark non si era arreso alla morte una volta, né avrebbe scelto proprio quel momento per cominciare.
«Il sangue curerà il suo intelletto, Uomo di Ferro» lo rassicurò l’eroe omerico, il volto sereno, placido «Guarda»
Il figlio di Howard deglutì a forza, ma si impose di non intervenire fino a quando Steve non avesse recuperato il senno di sua volontà –In caso contrario, ci avrebbe pensato lui a riportarlo in carreggiata.
Il Capitano sgranò gli occhi, d’improvviso famelici, e ignorò entrambi per inginocchiarsi sul rigagnolo purpureo che ancora fumava attorno alla gola del montone: schiuse le labbra e affondò le dita nel sangue, lo sollevò tra le mani chiuse a coppa, ansimò come un animale e bevve. Bevve, succhiò, sospirò estatico, si mise in piedi.
Un rivolo caldo ruscellò vermiglio dalla bocca lungo tutto l’esofago, ramificandosi all’altezza del torace, ricostruendo vie, sentieri e vita. Il colore sbocciò sulle guance terree, deflagrò negli occhi di nuovo azzurri e barbagliò d’oro tra i capelli; le labbra si tinsero d’un violento carminio, le carni s’animarono e scintillarono e le dita erano di nuovo forti e s’aprivano e si chiudevano a pugno e il petto si sollevava, s’abbassava, e Stark credette di morire dinanzi a quello spettacolo. Il sangue arterioso sprizzò dai polsi e dalle caviglie, le avviluppò e ricadde, si mescolò e modellò a ricreare il morbido tessuto dei guanti e degli stivali, mentre il sangue venoso pompava lento a stendere sulla sua pelle il caldo blu scuro della divisa in spandex.
Steve rimase alcuni secondi ad inspirare aria a pieni polmoni, quindi sorrise e aprì lentamente le palpebre.
«Tony» mormorò e c’era tanto tepore in quell’unica parola, che il magnate temette di poter andare a fuoco da un momento all’altro.
«Ehi, ragazzone» lo salutò allora, quasi si fossero lasciati non più di cinque minuti al tavolo del bar «Bentornato»
Rogers sorrise ancora, sorrise più ampio e dolce e quieto, si avvicinò e tese la mano verso di lui.
Tony sapeva cosa sarebbe successo, sapeva perfettamente cosa significava quel gesto: un battito appena di cuore e avrebbe avvertito le nocche di Steve sfiorargli delicate –Ma non più incerte, non più titubanti- il volto, dallo zigomo fino alla bocca; lì, poi, si sarebbero aperte e avrebbero accarezzato, disegnato il profilo delle labbra con la punta dei polpastrelli.
Perché Steve lo toccava, lo sfiorava, lo accarezzava spesso e sempre e tutte le volte che ne aveva l’occasione: non gli aveva mai chiesto il motivo di tanta attenzione per il contatto fisico, ma Stark era convinto che lo facesse per meglio imprimersi nella memoria e nel sangue ogni piega, ansa, sfumatura del suo corpo, per riportarla su un foglio di carta bianca o anche solo per trattenerla dentro di sé quando una missione li costringeva a stare separati per parecchio tempo –Gli ordini erano ordini, dopotutto.
Anche la prima volta che aveva condiviso il letto, che lo avevano condiviso davvero e non si erano limitati a dormire l’uno accanto all’altro, le dita intrecciate, i respiri incatenati, raggomitolati insieme sotto le lenzuola azzurro pastello del letto di Tony –Per arrivare al punto di dormire insieme, comunque, erano stati necessari due passi avanti ed uno indietro e non solo da parte di Rogers, che, a conti fatti, era più spaventato dall’idea di abituarsi alle usanze del nuovo millennio che da quella di avere una relazione, seppur segreta, con un uomo-, la prima volta, il figlio di Howard lo ricordava bene, a farla da padrone erano state le mani di Steve, i palmi di Steve, le dita di Steve, i polpastrelli di Steve.
Non gli era possibile scordare come il compagno gli avesse racchiuso il volto tra le mani, come si fosse chinato sulle sue labbra a raggiungere bocca e respiro, come si fosse spinto contro il suo torace, in pieno contatto con il Reattore Arc. Tony aveva chiuso gli occhi quando le dita di Rogers erano salite al collo, oltre le spalle, a delineare le fasce muscolari delle braccia fino a colmarsi i palmi coi suoi fianchi; le mani, ricordava Stark, erano scivolate veloci sotto la maglietta nera che stava indossando a mo’ di pigiama e subito si erano ritratte, quasi un simile gesto avesse avuto il potere di bruciargli la pelle.
Il figlio di Howard, alla fine, non aveva capito più nulla –E con una certa soddisfazione poteva ben dire che anche per il Capitano la situazione era stata la stessa: le dita aggrappate alle gambe, le mani che scivolavano sulla schiena, passavano sotto le braccia, i baci mormorati all’orecchio, sussurrati al collo, bisbigliati al basso ventre, il battito cardiaco che scalpitava, ansimava, correva, galoppava, il sudore sul torace, i polpastrelli che cercavano le costole e le vertebre, la bocca che richiamava sé fiato e respiro, denti che siglavano possessione e sottomissione sullo sterno, sulla clavicola, nell’incavo dei gomiti, sui polsi, la lingua che saettava a cingere umida la dolce profondità dell’ombelico, sangue che pulsava nelle gambe e nella colonna vertebrale, girandole di colori e dolore e carne tesa e pelle arrossata e piacere, piacere, piacere, piacere, piacere, piacere…
Ma per quanto potesse essere stato intimo e profondo quel loro primo, forse anche goffo, forse anche inesperto cercarsi -Tony Stark conosceva perfettamente il corpo delle donne, le rotondità dei fianchi, la curva dei seni, la linea dolce e sensuale del collo e delle spalle, l’incunearsi del ventre sotto il minuscolo cerchio dell’ombelico. Non c’erano segreti nel modo in cui inarcavano la schiena e piegavano la testa all’indietro,nel mento che si sporgeva verso l’alto e le labbra che si schiudevano in un battere scarlatto di rossetto, il guizzo della lingua, il barbaglio bianco dei denti che si sgretolava e si scioglieva in un gemito liquido. Il corpo di Steve tra le dita, al contrario, era stata la sorpresa, l’ignoranza, la scoperta-, per quanto potesse essere stato così vicino a quanto aveva sperimentato e provato con Pepper –Sebbene ciò che era stato con Pepper era stato solo e soltanto con Pepper e nulla, nulla mai sarebbe potuto rassomigliargli od eguagliarlo, nel bene e nel male-, per quanto, si diceva, potesse essere stato così…tanto, era nulla rispetto a quando Steve era arrivato a baciare con cauta, rispettosa lentezza il Reattore impiantato nelle costole.
Niente avrebbe potuto far presagire un simile gesto, perché Tony gli si era presentato, divertito e gongolante, ammanettato alla testiera del letto –Avevano guardato da poco Sherlock Holmes, a sua discolpa, e Stark si era autonomamente imposto come istitutore sessuale dell’obsoleto Capitano, di cui era probabile che la fantasia erotica più vertiginosa coinvolgesse Betty Boop in giarrettiera e reggicalze- e Rogers aveva cominciato a mostrare deliziosi progressi e unghie ben affilate.
Poi c’era stato quell’attimo di sospensione e il lento bacio e gli occhi chiusi e le dita della mano destra ferme contro il costato, quelle della sinistra sospese sul fianco.
Tony si era chiesto per un istante e forse anche per due, come fosse possibile costringere un uomo –Un ragazzo di neanche trent’anni- come Steven Rogers alla guerra,  lui con quel suo sguardo azzurro e il bel sorriso e i modi gentili –Poi erano arrivati i graffi e i morsi, e allora aveva dovuto ricredersi.
Forse, forse aveva sublimato l’idea di un Capitan America terrorizzato dal sesso ai livelli di una pudica fanciullina del Trecento fino a farlo diventare un vero e proprio kink. D’accordo. Era plausibile.
Quando la mattina dopo si era ritrovato con la schiena rigata di graffi rossi e gonfi, l’adorabile e quanto mai eccitante fantasia era andata in pezzi –Sulle sue ceneri, però, ne erano sorte molte e di ben altro genere, in cui manette e giochi di ruolo erano sempre accetti.
Rogers era stato nell’esercito, in fondo. Stark aveva dovuto seriamente ricredersi sulla sua ormai confutabile negazione sessuale –Non che la cosa gli fosse dispiaciuta o ancora lo dispiacesse, naturalmente. Anzi, aveva dato alla loro relazione quel pizzico in più che…
A ricordare le proprie speculazioni psico-sessuali su Steve, Tony sorrise, ma fu un’espressione che durò assai poco. Corrugò la fronte, aggrottando le sopracciglia: non aveva sentito alcun tocco sulla guancia e per un folle momento ebbe il sospetto l’altro fosse scomparso.
Riaprì allora gli occhi e lo vide contemplarsi le mani con sguardo confuso, rimirare e rigirare le dita da una parte e dall’altra, salvo poi serrarle fino far sbiancare le nocche. Nello sguardo guizzarono frustrazione e rabbia, la stessa che gli era costata un rapporto in piena regola segnato in nero su bianco nei file dello S.H.I.E.L.D. –Dovrebbe imparare a controllare la rabbia(8), scriveva di lui Nick Fury e anche se Tony non avrebbe dovuto leggerlo, perché, ehi, erano dati segreti o altra robaccia del genere, lo aveva letto comunque, perché i sistemi di difesa dei computer dello S.H.I.E.L.D. erano penosi e lui faceva solo che un favore a Mace Widu, se le incursioni non richieste nel database servivano a migliorare un po’ le cose.
Però si era detto d’accordo con quell’affermazione.
Steve aveva così rabbia dentro, che un congegno dell’HYDRA non avrebbe potuto provocare scoppio peggiore o più rumoroso. Il Capitano tendeva a non mostrare quella rabbia, se era in compagnia –In sua compagnia, in particolar modo- ma c’era, esisteva e premeva, e Stark la vedeva negli occhi e nel cuore, nel modo in cui contraeva la mascella e guardava il mondo quasi fosse troppo nuovo per un vecchio come lui e il proprio riflesso quasi fosse troppo vecchio per un mondo nuovo come quello all’intorno.
Tony conosceva quel tipo di rabbia, perché ne era oppresso alla stessa maniera: lui cercava rifugio nell’alcool, Steve in un sacco di sabbia. Entrambi si erano votati all’autodistruzione e ne recavano i segni, chi per il colorito giallastro del viso, chi per le nocche costantemente sbucciate e cosparse di ecchimosi –Per entrambi cercare rifugio l’uno nell’altro era un effetto placebo parecchio rassicurante.
«Perché? Perché non posso toccarlo?» soffiò il Capitano, serrando le palpebre.
«Ai vivi non è concesso toccare i morti e ai morti non è concesso toccare i vivi. Lo hai detto tu stesso, no? I morti devono rimanere coi morti»
«Oh, perfetto, ci mancava un altro Village People» Stark alzò gli occhi al cielo, ma il Dio che era appena apparso sembrò non aver udito –Oppure, al contrario, lo aveva deliberatamente ignorato.
«Laerziade…Chi altri avrebbe potuto portar qui il mortale?»
«Ermete, mio signore» Odisseo chinò la testa e una ciocca di capelli si curvò a coprire un ghigno astuto «Faccio solo ciò che mi è stato ordinato»
«L’Ade è sguarnito, Laerziade. Nelle profondità della sua tana, Cerbero più non latra e i Dioscuri sono inquieti.»
«Così si dice»
«Sì, bene, molto carino ed edificante, ora possiamo tornare al problema principale?» Tony si frappose fra Ermete e l’eroe omerico, le braccia alzate a chiedere una sorta di time out –Steve, dietro di lui, si lasciò sfuggire una risata breve, ma ben udibile «Ovvero, portarvi via il qui presente Capitano e reintegrarlo nel mondo dei vivi»
Ermete sollevò l’angolo destro delle labbra e le ali che gli cingevano la fronte ebbero un battito bianco.
«E cosa ti fa credere di poter riuscire nell’impresa, mortale?» lo dileggiò, lo sguardo macchiato di derisione.
Stark rispose alla frecciatina con un’occhiata ironica e sollevò tranquillo le spalle.
«Perché mi chiamo Anthony Edward Stark, sono un genio, miliardario, playboy, filantropo, occasionalmente salvo anche il mondo…» strinse le palpebre «E l’ho già salvato dall’eternità una volta. Non vedo perché un paio di leggende incartapecorite come voi dovrebbero impedirmelo una seconda»
Il Dio emise uno sbuffo contrariato, scuotendo il capo.
«Sei colmo di hybris, mortale. Trasudi tracotanza da ogni parola che pronunci da quella bocca empia. Ma permettimi di ricordarti le sagge parole di Dario: la hybris, fiorendo, suole dare un frutto di ate, da cui si raccoglie una messe di pianto(9)»
«Bella, d’impatto. Dove l’hai letta? Su un biscotto della fortuna?»
«Tony…» provò a richiamarlo il Capitano, ma il figlio di Howard gli si rivoltò contro come una serpe, la frustrazione e l’impotenza chiaramente leggibili sul volto affaticato.
«No! No, Steve! Lo sai, ho sempre avuto un rapporto poco convenzionale con la religione, adesso io e lei siamo arrivati ai ferri corti. Mi sono stancato e sono deciso più di prima a riportarti indietro. Non ho mai creduto a un Dio, o forse sì, quand’ero ragazzo, quand’ero bambino, e anche allora portava alternativamente il nome tuo o di mio padre, a seconda di come mi alzavo la mattina.
“La maggior parte delle volte era il tuo, giusto per informarti»
Steve tentò di bloccarlo, ma Tony continuò nell’arringa. Ci teneva a dimostrare quanto poco avesse cura di quei fantomatici Dei che giocavano con loro come bambini annoiati, che gioiscono del nuovo balocco e tempo un giorno e già lo hanno abbandonato per qualcosa di meglio e meno noioso.
«Di solito sei tu quello dedito alla preghiera, fra noi due. E no, non fare quella faccia, Rogie. Ti ho visto e ti ho sentito mentre mugugnavi qualche salmo alla luce dell’abat-jour, cosa credi?»
Che il Capitano avesse una concezione religiosa molto diversa dalla propria, Stark lo sapeva senza dover per forza seguirlo ogni domenica per vedere dove andasse, se alla palestra del vecchio Stan o alla chiesetta a tre isolati di distanza dalla Tower. Un’anonima e minuscola accozzaglia di mattoncini rossi, un rosone di dimensioni discutibili, sgangherate panche di legno e una croce di metallo bubbonico piantato tra le tegole brune; l’altare era carino, però, il pulpito si reggeva bene in piedi e l’ostensorio era l’unico, pregiato oggetto coperto in foglia d’oro di tutto il ciarpame della navata e della sagrestia.
…Sì, va bene, una volta Tony l’aveva seguito per vedere dove andasse, e si era nascosto all’ombra di una colonna, dietro le spalle l’incombente presenza di San Sebastiano; aveva pensato che il profilo di Steve, attorniato dal bagliore delle candele, fosse particolarmente bello, ma aveva subito fatto marcia indietro quando gli era sembrato di avvertire su di sé gli occhi un poco…canzonatori del Cristo in Croce.
Suggestione, probabilmente –Insomma, un Cristo in Croce che ti squadra divertito mentre imbastisci pensieri poco casti riguardo al tuo compagno, il tutto tra le pareti della Santa Madre Chiesa? Solo in Doctor Who.
E forse neanche in quello.
Mio padre era irlandese(10) gli aveva raccontato Steve, una sera soffusa e lontana, in cui tra loro c’era solo una vaschetta di gelato alla fragola, parecchi non-detti e alla televisione passavano l’inguardabile What’s Your Number?(11) –Una settimana dopo nella vecchia palestra di Stan a provare qualche passo di danza e le labbra del Capitano posate sulle proprie con una naturalezza disarmante, Tony aveva compreso che il gelato alla fragola e l’orrido film erano solo un inconscio pretesto alla reciproca compagnia Mi ha passato un po’ della sua Fede cattolica.
Non aveva mai dato peso alla cosa, almeno fino a quando non si era ritrovato in un letto d’ospedale a combattere tra la vita e la morte, e tutto perché un membro dell’A.I.M. aveva avuto la malsana idea di tirargli una granata tra capo e collo. Nel delirio della febbre, Tony aveva aperto gli occhi nella pastosa realtà di una notte indefinita e aveva avvertito la presenza di Steve accanto a sé: non avendo forze per girare la testa, si era limitato a lasciarsi cullare dalla litania rassicurante della sua voce –Arrivando poi a comprendere il significato delle sue parole nei giorni successivi.
Signore, lo so, lo so che non dovrei avere nemmeno l’ardire di pregarti, non dopo quanto è successo tra me e lui –Dicono che è sbagliato, Signore, che ai Tuoi occhi questa relazione è peccato, questo sentimento è male,  ma per una volta, una volta soltanto voglio essere così superbo da ritenere che nulla di amore, ai Tuoi occhi, possa essere abominio.
Perché io lo amo, Signore.
Mi è caro. Caro più della vita. E se è sbagliato non importa, non m’importa nemmeno se è peccato, se è male o abominio: Tu lo hai portato a me e Tu hai portato me a lui, ci hai messo a confronto, ci hai messo a disposizione l’uno dell’altro e non mi sento sbagliato, peccaminoso, malefico, né abominevole quando sono con lui, Signore. E forse in questo sta il mio peccato maggiore: non accorgermi, forse, di quanto sia orribile questo mio amore. Forse il vero peccato è la mia mancanza di coraggio, la mia impossibilità di dirglielo apertamente, così irretito come sono da paura e incertezze.
Ma non credo che il sentimento che provo sia orribile. Di nuovo, sono convinto che se Tu hai predisposto ogni cosa perché ci incontrassimo, allora nulla di cattivo può nascere dalla nostra relazione. Perché, ne sono sicuro ogni volta che lo guardo, ogni volta che lo respiro, Tu già sapevi cosa sarebbe successo.
Per cui, ti prego. Ti prego, Signore. Salvalo. Salvagli la vita.
Ti prego. Fa’ che si risvegli. Ti prego.
Ho bisogno di lui.
Mi è caro, Signore.
Ti prego.
Salvalo.

Tony non ne aveva mai fatto parola con nessuno, soprattutto con Steve. Anche quando, alla Tower, si era svegliato di soprassalto da un sogno che non ricordava, che non aveva importanza, e nel riflesso dello specchio aveva visto il compagno inginocchiato sulla sponda del letto, i gomiti affondati nel materasso, le dita chiuse e appoggiate sulla fronte.
Recitava il Padre Nostro e lo recitava in latino.
Perché proprio in latino? Non aveva potuto non chiedere, la mattina dopo.
Rogers era sobbalzato sulla seggiola di cucina, macchiando la tovaglia col caffè; le orecchie erano divenute tizzoni ardenti, come ogni volta che si imbarazzava o era colto in flagrante nel mezzo di qualche attività che nessuno avrebbe ritenuta degna di Steven Capitan America Rogers.
In Italia…Durante la guerra, sai? Capitava che finissimo in qualche paesino sperduto tra le colline e i parroci non ci hanno mai negato una Messa o anche solo una preghiera. Le dicevano in latino e mi sono rimaste nel cuore.(12)
Avrebbe voluto chiedere di più, tornare alla preghiera di tanti mesi prima, domandargli di…Di quello, delle paure e dell’incertezza, ma si era accorto di come gli bastasse così. La cucina immacolata, la colazione, Steve che sorrideva ad un piccolo ricordo –Non gli interessava sapere se avesse avuto qualche “passionale trasporto” per altri uomini o unicamente per le donne, né se lui, Tony Stark, fosse l’unico uomo per cui avesse mai provato quel sentimento, o che altro. Per il figlio di Howard era più facile: sfidare le convenzioni della società era parte intrinseca del suo essere, anche se fino a quel momento non aveva mai pensato che il contatto con un uomo sarebbe mai effettivamente andato oltre una stretta di mano o una pacca sulla spalla.
Gli bastava sapere che, quella particolare mattina, oltre a lui, Tony Stark, non esisteva nessun altro e l’unico su cui Steve si fosse mai permesso un commento era Robert Downey Jr. E’ che ti somiglia davvero tanto si era giustificato, sfuggendo i suoi occhi divertiti.
Nient’altro. Non importava. Non importava davvero.
«Hai presente il Salmo, no? Quello famoso, dai, che recitano sempre nei telefilm. Ecco. Non mi interessano i pastori, né essere una pecora –Guarda, poi, la considerazione che hanno gli Dei di quei poveri animali» Stark indicò il montone rattrappito ai loro piedi «Per quel che mi riguarda, è grazie a te se non manco di nulla. Pascoli erbosi, acque tranquille…Ti sembro forse un texano? Mi basta sapere di tornare alla Tower vivo, con te al mio fianco, stravaccarmi sul divano a guardare qualsiasi baggianata passino in televisione solo per poterti osservare mentre leggi un libro –Cristo Santo, Steve, i kindle li hanno inventati per un motivo!-, con la testa appoggiata sulle mie ginocchia. Sarò fazioso e di parte, lo ammetto, ma ad avermi tirato fuori dalla “valle oscura”» mimò le virgolette con le dita «Dell’alcool sei stato di nuovo tu. Sei sempre tu. Ad apparecchiare la mia mensa, a cospargermi d’olio –E qui ci fermiamo per amor della tua pudicizia- sei sempre tu. E’ nella tua casa che voglio abitare per lunghissimi anni…» riprese fiato e alzò gli occhi ad incontrare gli occhi di Steve «Che ne dici? Secondo me farebbe un figurone come promessa»
E da come l’altro lo guardò esterrefatto, Tony capì di essersi fatto sfuggire troppo nell’enfasi del momento. Si morse la lingua e si schiarì la voce, ma era già troppo tardi.
«Tony. La tua era una pro---»
«---vocazione. Ti sfido a restare rintracciabile fintantoché…» corrugò la fronte «Steve»
Il Capitano dovette cogliere la preoccupazione della sua voce, perché abbassò gli occhi e subito arretrò, un’esclamazione sorpresa appesa alla bocca: gli stivali si stavano liquefacendo e così i guanti e la divisa, macchie incolori s’allargavano a dismisura sul petto, sulle gambe, le vene si ritraevano con un sibilo guizzante e al loro posto serpeggiavano di nuovo le liane rosate e malaticce.
«Cosa…» Rogers diede due poderose manate alle chiazze oleose che andavano impadronendosi del suo corpo, della sua volontà, ma invece di rallentare il processo, finì col peggiorarlo «No! No! No!»
«Il tuo tempo è finito, Steven.» Ermete gli fu accanto, con velocità pigra ed indolente –Di chi sa, di chi può ogni cosa solo schioccando le dita. «Hai ingannato l’Ade troppo a lungo, Caronte attende il suo obolo»
È troppo presto! Avrebbe voluto replicare Stark, ma il vuoto gli aveva attanagliato il cuore e distrutto lo spirito e la voce non usciva Non mi avete fatto parlare con lui non un attimo, non un minuto, non un istante! Non portatelo via! Non ancora!
«Non bere!» urlò, invece, per sovrastare il roboante silenzio dentro al petto «Se berrai la loro acqua dimenticherai ogni cosa e allora, a quanto pare, non potrò più salvarti –Bello sapere le cose in tempo utile, no?» un sogghigno nervoso «E continua a parlare. Non smettere. Parla a te stesso, parla con me, ma con nessun altro. Rimani attaccato a questa vita o non sarò più capace di ritrovarti.
“Te lo prometto, Steve. Ti porterò via da qui.»
Un quieto sorriso sollevò la bocca del Capitano, di cui non erano rimasti che gli occhi cerulei e labbra –Tutto il resto era pallore e morte.
«Qui? Dov’è qui? E’ un sogno, vero? Dimmi che lo è, Tony, dimmi che puoi svegliarmi. Dimmi che non morirò nel sonno. Non permettere a questo vecchio soldato di svanire così…(13)»
Steve allungò la mano e Tony quasi cadde nel tentativo di stringerla, di trarla a sé un’ultima volta: crollò carponi nel fango con le dita che annaspavano e artigliavano e s’aggrappavano al vuoto, all’aria e all’assenza. Si chiuse nelle spalle con un sospiro e se ne stette in quella posizione per attimi che gli parvero giorni e mesi e anni. Nemmeno Odisseo osò turbare il dolore di cui era preda e per questo Stark gliene fu grato.
Se sollevò la testa, fu solo per una voce flautata e rosa dal rimpianto allo stesso tempo, una voce che il magnate non udiva da troppo tempo.
«Tony? Oh, bambino mio…!»
«…Mamma.»

 

***

Castore lo aveva colpito al petto, affondato la picca proprio come aveva detto.
O forse era stato Polluce? Ah, non ricordava. Tutto era vago, tutto era confuso tranne il dolore che montava all’altezza del cuore, un cerchio di fiamme ad arrostire, incenerire lo sterno e i bronchi.
Se non fosse stato per quella voce sconosciuta, tonante nel ventre della terra, forse lo avrebbero ucciso. Era così debole, in quel luogo. Non se n’era accorto fin quando il braccio che teneva Mjolnir non s’era irrigidito e le dita non s’erano piagate, ogni falange coperta da un’escrescenza di liquido pus biancastro. Era crollato in ginocchio e la vergogna era stata più forte del ferro che uno dei gemelli gli aveva conficcato nella profondità delle carni.
Sarebbe morto, sarebbe morto davvero se i due non fossero stati richiamati da un comando più grande del loro volere –Non ne erano stati contenti, comunque. L’odio e la rabbia trasparivano come veleno dai volti altrimenti belli e giovanili.
Anche gli Incantesimi di Amora non erano serviti e…Amora! Amora? Dov’era, Amora? L’aveva trascinato lei, lei da sola, fino alla sponda del fiume, al riparo dai trampolieri e dagli spettri lattei, dall’odore pungente del vino e del sangue. Lei sola, fragile fanciulla, sposa di Incanti, s’era sobbarcata il suo peso di guerriero e l’infamia di non aver saputo difendere con onore il nome di Odino e di Asgard.
«Amora…!» la chiamò, ma la voce tonante era più debole d’un ridicolo pigolio di pulcini. Le parole erano ingarbugliate col sangue, i suoni con saliva e ristagno fetido di polmoni. Le gambe erano immobili, le braccia prive di ogni forza. Il mondo non era più grigio, ma verteva ad ogni istante ad un nero cupo, fumoso, che partiva dall’angolo dell’occhio e s’allungava su tutta la cornea.
«Amora…!»
«Sono qui. Sono qui, amore mio. Shh…Fa’ silenzio, mio cuore.» c’era forse qualcosa di più bello, in Asgard, a Midgard, nei Nove Regni, del suo sorriso incorniciato dall’oro fiammeggiante dei capelli?
…Il sorriso di Jane, sì. Il sorriso di Jane era più bello del sole, più splendido del cielo e delle cupole a specchio del Palazzo. Il suo volto di bambina, la sua voglia di sapere, il suo amore per le stelle, tutto in lei aveva la bellezza divina della mortalità.
Ma non erano di Jane le mani che gli sfioravano le guance, non di Jane le dita che gli sollevavano la testa per fargli appoggiare le labbra sull’orlo di una coppa gelida e sbeccata.
«Bevi, bevi, Thor, Figlio di Odino» lo invitò sibillina l’Incantatrice, ogni sorsata dell’acqua limpida un cerchio alla fronte e un dolore in meno al cuore «Bevi e scorda ogni vergogna. Bevi e dimentica ogni affanno…»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi Anni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo

 

(1) Per Omero i Cimmeri sono gli abitanti di una mitica terra oltre l'Oceano - collocata forse nell'estremo settentrione - perennemente avvolta dalle nebbie, dove non arriva mai il sole. Su indicazione di Circe, Ulisse nel suo peregrinare per mare, vi si reca con i suoi compagni, per la nékyia (= l'evocazione dei morti). Infatti, giunto in quella terra inospitale e tetra, dopo aver celebrato un sacrificio in loro onore, Ulisse incontra le anime dei morti risalite dall'Erebo attirate dal sangue dei sacrifici eseguiti e interrogherà lo spettro dell'antico indovino Tiresia che gli rivelerà il suo futuro. (Wikipedia)

 

(2)oltre il popolo e la città, di nebbia e nubi avvolte” (Omero)

 

(3)La frase è ripresa dal Kolossal di Franco Rossi: “Divinità dell’Ade e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò a ritornare ad Itaca, io prometto di immolarvi la più grassa delle vacche sterili e di colmare il rogo di ricche offerte. E per Tiresia a parte sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei nostri greggi.”, a sua volta facente capo ai versi dell’XI Libro dell’Odissea:

 

Addotto in su l’arena il buon naviglio,
E il montone, e la pecora sbarcati,25
Alla corrente dell’Oceano in riva
Camminavam, finchè venimmo ai lochi,
Che la Dea c’insegnò. Quivi per mano
Euriloco teneano e Perimede
Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,30
Scavai la fossa cubitale, e mele
Con vino, indi vin puro, e lucid’onda
Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste35
Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,40
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.

 

(4)Secondo la credenza etrusca, i trampolieri sono animali psicopompi.

 

(5) I fiumi Cocito, Lete e Piriflegetonte, confluenti dell’Acheronte, un ramo dello Stige. Nel Piriflegetonte, secondo quando ci racconta Platone, erano immersi i parricidi e i matricidi.
Circe, nell’Odissea, ordina all’eroe di compiere il sacrificio ai defunti nei punto in cui si uniscono Cocito e Piriflegetonte.

 

(6) Castore e Polluce sono i fratelli di Elena, figli di Zeus e Leda –O, secondo un’altra versione del mito, anche di Tindaro. Per questo, solo Polluce ed Elena sarebbero veri immortali, Castore, invece, sarebbe no.
Sono rappresentati come giovani nudi, tranne che per il pilos sul capo, a cavallo, con una stella sulla fronte e dotati di lancia.
Che siano custodi dell’Oltretomba è un espediente ripreso dalla cultura etrusca.

 

(7) Il termine “barbaros” …Bhè, si rifà effettivamente all’atto di “balbettare”, ossia l’incapacità degli stranieri di pronunciare a dovere le parole in lingua greca!

 

(8) Secret War

 

(9) I Persiani, Eschilo. III Episodio.

La Hybris è la tracotanza, l’Ate la disgrazia.

 

(10)  Marvel Now!Capitan America #1

 

(11) Da noi in Italia “Sex List”. Film inguardabile…Tranne per Chris Evans!

 

(12) La Messa in latino è stata tolta solo nel 1969.

 

(13) Where is here? Is this /a dream/? Tell me it /is/, Tony. Tell me you can /wake me/. Tell me I'm not /going/ to die in my sleep.
Don't let this old soldier just /fade away/... (Captain America v1, #437)

[ https://www.facebook.com/photo.php?fbid=198418630282598&set=pb.188901724567622.-2207520000.1377550334.&type=3&src=https%3A%2F%2Ffbcdn-sphotos-d-a.akamaihd.net%2Fhphotos-ak-prn1%2F68530_198418630282598_1619872740_n.jpg&size=538%2C800 ]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

YEEEEH! Sono tornata! Vi sono mancata, vero?

Oddio, sono così stravolta dalla stesura di questo capitolo da essermi dimenticata quello che vi volevo dire, a parte che le due scene R-18 narrate vengono da due role con la mia Tony Stark di fiducia e che non intendo mancare di rispetto a credenti o meno, intesi? E’ un’opera di fantasia, cosa e chi rappresenti il mio pensiero religioso è un segreto di Stato che non deve andare a lederà la storia, ma soprattutto la vostra sensibilità : )
Ringrazio Alley e Shi_Tsu_Geass per aver recensito!
Alla prossima!
(Che sarà fra un po’ visto che a Settembre parto per altre due settimane di scavo.
OOOOOPS.)

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Avengers / Vai alla pagina dell'autore: LaMicheCoria