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Il montone dondolò il muso, recalcitrò e gemette un
belato sdegnoso, o forse solo debitamente terrorizzato; Tony arrotolò la
cavezza attorno alle nocche, sacramentando tra i denti gli insulti più terribili
contro quell’insulsa bestiaccia appestata
di pulci e puzzo. L’animale arretrò e roteò gli occhi sanguigni verso
l’alto, verso il basso, verso destra, verso sinistra, grattò il terreno molle
con lo zoccolo, ma affondò con un singulto strozzato di fango ed erba, quasi
fossero tutti intrappolati nelle sabbie mobili, trattenuti da nebbiose catene
d’argilla.
«Sta’ buono, Obadiah!»
lo richiamò il magnate e gli sovvenne il pensiero che, più della paura –Paura
di cosa, poi? Cosa avvertiva che a lui era sconosciuto?- fosse il nome a
mandarlo su di giri. E non in senso buono, ovviamente. Nessuno avrebbe voluto
chiamarsi Obadiah, forse nemmeno lo
stesso Obadiah avrebbe voluto continuare a chiamarsi così dopo quello che aveva
fatto.
O magari sì, chi lo sapeva. Tony aveva rinunciato a
capire Obadiah nel momento stesso in cui quello aveva cercato di arrostirlo in
maniera tanto efficiente quanto maleducata. Parecchio maleducata.
Il carrettino che Odisseo aveva trascinato lungo il
declivio scricchiolò e canticchiò una lugubre nenia di legno rachitico: Stark
deglutì, serrando le labbra e cominciando a capire, almeno in parte, a cosa si
dovesse l’agitazione del montone.
Fino al casolare la notte era stata limpida e
quieta, il cielo terso, le stelle visibili. Poi dal fogliame improvvisamente
irrancidito era spuntata quell’orrida struttura, quel bubbone di cemento a
parallelepipedo, un’escrescenza grigia, sporca, malarica in mezzo all’erba rattrappita, che sapeva di marcio e
muffa. Tony aveva creduto di trovarsi davanti ad una vecchia colonia fascista,
ma qualcosa, nelle viscere della catapecchia incrostata di lerciume,
l’aveva convinto del contrario.
Le voci, in primo luogo. Striscianti sussurri
smoccolati, serpi sibilline come suoni sbocconcellati, subdoli sentieri
strascicati, srotolatisi sulle piastrelle sbeccate, sulle finestre spaccate, su
stradicciole smarrite di sassolini e singulti d’ovatta. Non avevano forma, non
erano parole precise. Si rincorrevano l’una l’altra tra i lividi batuffoli di
polvere, i sacchi accartocciati della spazzatura, cicche di sigaretta,
scontrini mangiucchiati dai ratti, tappeti smembrati, giornali ammonticchiati,
tende sbranate, siringhe, cartucce, stoffe, ceramiche, tumescenze di cera,
candele di sego. Non si fermavano, non avevano calma, né requie, sghignazzavano
nell’ombra, si torcevano alla luce pallida e unticcia del fiammifero che
Odisseo tratteneva paziente tra i polpastrelli imbiancati dalla tensione.
Tony le aveva sentite infilarsi, ridacchiando, nelle
orecchie, scivolare lungo la gola, impiastrargli le narici; avevano creato un
ingorgo litanieggiante all’altezza delle corde vocali –Corde vocali che avevano
preso a liquefare, sciogliere, imbastire, annodare a loro piacimento, fino a
sminuzzarle, fino a renderle mute; si erano accovacciate nei polmoni e lì erano
rimaste, gnaulando e miagolando un lugubre coro di pianti.
Perché cantavano,
sì, su questo Stark non aveva dubbio alcuno: cantavano di nuvole e nebbia, di
vino e di miele, di acqua che scorre e tempo che sgretola, di amore che nasce e
dolore che prolifera, una montante marea di cupa oggettività che il magnate
sentiva appiccicarsi alle ossa come tante goccioline di rugiada acida e
corrosiva.
Cosa dicono? Aveva domandato ad Odisseo,
mentre entrambi stavano passando sotto un architrave dentellato.
Sono gli spiriti
dei Cimmeri(1), non dar loro ascolto. Volgi la tua mente a
ben altri pensieri, che il tuo cuore si colmi di vita e non di morte. L’eroe
gli aveva quindi voltato le spalle, cominciando a rovistare con le dita lunghe
e nodose –Così simili al legno di un albero maestro- tra le pieghe di una tenda
polverosa e bitorzoluta, tinta d’una cupa tonalità vinaccia.
Accompagnato dal dleng
dleng delle nocche di Odisseo che andavano a sbattere contro corpi ceramici
non meglio identificati, Tony aveva seriamente tentato di concentrarsi su
qualcosa che non fossero i rimbrotti purulenti di qualche anima spersa nella
polvere. Non gli era sembrato un compito tanto difficile, giacché avrebbe dato
l’anima pur di trovarsi in un altro posto, dentro un’altra casa, sopra un’altra
terra.
Immaginò il cielo, un’estensione azzurra a picco sul
mare –Dacché si erano lasciati il tramonto alle spalle, non un rigagnolo di
luce era colato a bagnare il sentiero ai loro piedi: quel luogo tetro pareva
immerso in un fetore costante di ombre. Ma nella sua testa, ecco…! Un nuovo orizzonte,
un sole brumoso a sfumare con le dita i primi vagiti dell’alba.
Sognò di un pavimento splendente, le cui piastrelle,
sospirando, variavano languide dal grigio ferro al blu metallizzato; le pareti,
alte, sfiorate appena dal tocco incolore del neon, si incontravano ai quattro
angoli del soffitto a lastroni pallidi. Lo specchio a muro raccoglieva
l’immagine rialzata del letto, i vestiti acciambellati a terra, e rifletteva
ancora anse e movimenti, i giochi di bagliori addosso alle spalle, nell’incavo
delle gambe, sul retro delle ginocchia, lungo la curva della schiena
inarcata.
Inspirò a pieni polmoni l’odore pungente della santa
trinità a tre esse –Sesso, sudore e sale- che inumidivano la bocca ed il ventre, la punta delle dita e il
profilo aguzzo delle ultime vertebre, ogni piega rigonfia delle lenzuola
incredibilmente bianche, deliziosamente sfatte.
Si crogiolò nel tepore di una vetrata aperta
sull’estate, si nutrì il cuore dell’invitante tremolio del caffè che
gorgheggiava a un corridoio di distanza, ritrovò coi polpastrelli l’incavarsi
del materasso nel punto preciso dove un altro corpo era rimasto disteso fino a
pochi attimi prima.
S’umettò le labbra col sapore dolce-amaro di una
pelle calda, tesa con uno spasmo sotto la lingua; la bocca arsa della carne che
riempie palpitando le mani, del respiro che si mozza nell’armonia gutturale
d’un roco ansimare.
Ma nulla era più vero, di quell’immagine. Nulla più
esisteva –Era bastato un filo reciso, era stato sufficiente un arresto a
cardiaco.
Bave di ragnatele caddero suicide dal soffitto, ruggì
la polvere a ricoprire il mobilio, ad insozzare le lenzuola, a graffiare
maligna la superficie dello specchio; la mente protestò e si ribellò e crollò
il cielo, il sole, l’estate, si disfece il pavimento e la realtà all’intorno: non
più il bubbolio ridacchiante del caffè, ma soffi, sibili, litanie, ingiurie,
preghiere, lacrime e canti e tutto fu nebbia e tutto fu grigio e la perdita ghignò,
sorrise, latrò, divenne mefitica e Tony non riusciva più a trovare la vita,
vedeva solo la morte e la toccava la mano e la rifuggiva e la riabbracciava, la
accompagnava in un giro di valzer e poi l’abbandonava sul ciglio dell’esistenza
e subito pentito era in ginocchio da lei e le baciava le ossa imputridite e la
pregava, la implorava di sostituire
al teschio deforme un volto ben modellato, alle orbite vuote cortesi iridi
azzurre, alla non-vita la più importante delle esistenze. Soffocava per lacrime
che non credeva di avere, urlava grida che credeva di possedere, sprofondava in
un’agonia che non credeva di provare.
Avrebbe continuato a vagabondare nel delirio dei
Cimmeri, non fosse stato per la presa salda di Odisseo sulla spalla destra.
Ricordi, Uomo di
Ferro? Vita, t’ho detto! I Cimmeri, custodi dell’Erebo, si nutrono della morte,
giacché non altro gli è rimasto: non vino, non latte, non datteri od offerte le sopracciglia cespugliose si
erano arcuate fino ad agganciarsi all’attaccatura dei capelli Guarda! Osserva come la nebbia ci si è
gonfiata all’intorno e come brulicano i loro occhi attraverso i tralci della
tua disperazione. Non pensare a chi stai andando a salvare, Uomo di Ferro, ma
chi è rimasto ad aspettarti, a salvarti, oltre il popolo e la città, di nebbia
e nubi avvolte(2).
Stark aveva annuito, forse deglutito –Aveva faticato
anche solo per ricordare dove si trovasse e in qualche condizione e perché
fosse lì, intirizzito dal terrore e dalla nebbia.
Erano usciti nel giardino incolto da una porta
scrostata e dai cardini in parte divelti, Tony che si guardava circospetto alle
spalle, la camicia incollata alla schiena per colpa d’un gelido reticolo di
sudore freddo; Odisseo che avanzava lesto tra l’erba alta, le sterpaglie e la
gramigna.
Se i ricordi alla Tower erano più un intralcio che
un sollievo, Stark decise di aggrapparsi all’unica persona ancora in grado di
tenerlo vivo: Pepper gli arrivò accanto, un’eco di dolce pazienza, addosso il
profumo tiepido di quell’intruglio alla cannella che si ostinava a bere prima
di iniziare a lavorare; un leggero retrogusto di Vodka Martini a donare una
stilla divertita agli occhi gentili, i capelli che cadevano dalla spalla destra
in un singhiozzo rosso-biondo e si arricciolavano come un sorriso appena sotto
la curva del seno.
Gli aveva dato un bacio sulla fronte, prima che
partisse per Vathy, e lo aveva abbracciato. Gli aveva chiesto scusa, lo aveva
stretto più forte.
Tony aveva riconsiderato le proprie storielle e
scappatelle varie da parecchi punti di vista, ma con Pepper la situazione era
diversa. Pepper non era stata una storia, non era stata un’esperienza…Era stata
una vita e per questo Stark ancora la
ringraziava –Arrivando persino a scegliere di
persona il suo regalo di compleanno. Di persona con Steve, ma era pur sempre un dettaglio tranquillamente
trascurabile.
Fuori dal casolare fatiscente lui ed Odisseo avevano
seguito una staccionata smangiucchiata dalle intemperie, fino a raggiungere un
recinto squadrato e in buona parte ricoperto da fogliame incolto; al centro un
montone nero e una pecora dagli occhi acquosi, immobili, come in attesa. Senza
dire una parola, l’eroe omerico aveva tratto via un carrettino cigolante
dall’ingorgo di sterpaglie che gli era accanto, vi aveva depositato il sacco di
juta in cui aveva messo…il qualunque cosa
avesse tratto dalla tenda bitorzoluta, tre anfore ancora piene –Aveva
sentito del liquido scrosciare rumoreggiando in ognuna di esse - ed una più
piccola, che sapeva di miele odoroso –Ma com’era possibile che fossero lì? Che
fossero ancora pieni? Perché erano
lì? Perché erano ancora pieni? Perché
non erano marciti e, dannazione, perché tutto, tutto sembrava predisposto da tempo immemore per la loro venuta?
Odisseo aveva poi legato i due animali e cominciato
a salire lungo il profilo della collina, attraverso sentieri che non esistevano
e deviazioni coperte di spine e rami cenciosi. Si muoveva con la sicurezza di
chi avesse il percorso tracciato non nella mente, ma nel sangue.
Quante volte sei
già stato qui?
Una sola, Uomo di
Ferro. Ma una visita a questi luoghi è bastevole per una vita intera.
Più si addentravano nel ventre guasto di quel luogo
dimenticato da Dio –Da qualunque pantheon provenisse-, più il miasma
pallidiccio s’infittiva e le nenie crocchiolanti s’alzavano di volume e
malinconia; Tony aveva spesso torto il collo a cercare la ghirlanda luminosa
che era Termini Imerese, addormentata nella conca dei declivi, ma della
cittadina italiana non era rimasto che un pigolio vacuo oltre la nebbia
melmosa.
«Di’, ma cosa ne dobbiamo fare di Obadiah e della
tua pecorella?»
Odisseo sulle prime non rispose, intento com’era a
sfilare dal sacco alcune coppe piuttosto profonde, dotate di due anse
orizzontali all’altezza dell’orlo e sulla pancia una decorazione tanto
affastellata di elementi che Stark non sapeva dove porre lo sguardo.
«Di cosa credi si nutrano le divinità ctonie, Uomo
di Ferro?» lo rimbeccò, aprendo le anfore a svelare il loro contenuto di latte
cagliato, acqua e vino dolce.
«Take Away cinese?»
L’eroe lo fissò per alcuni istanti, prima di
scoppiare a ridere e rivelare la chiostra bianca dei denti.
Non era più il pazzo arzillo che aveva incontrato a
Vathy: aveva abbandonato le spoglie da mendico per spalle larghe, torace ampio,
pelle cotta dal sole e ingemmata di cristalli di salsedine; i capelli
rosso-bruni gli arrivavano fino alle orecchie e coprivano il mento volitivo con
una sottile peluria della tonalità del bronzo, più folta sotto il naso adunco e
rada all’altezza degli zigomi, due spessi triangoli come d’argilla che
sporgevano a sostenere gli occhi obliqui e verdi, colmi di mare e sapienza.
Delle vesti con cui gli si era presentato aveva mantenuto unicamente il
cappellaccio conico, mentre la corta veste blu scuro, trattenuta in vita da una
cucitura rosso squillante, aveva ben altro aspetto ora che non recava più
traccia di polvere e sporco.
«Ehi, non giudicarlo prima di---»
«Scava una fossa cubitale, Uomo di Ferro. Mantieni
nel tuo cuore, però, ancora il soffio di allegria di questa tua facezia,
giacché ciò che vedrai ha sfiancato spiriti più audaci del tuo»
Odisseo parlava poco, ma le sue frasi erano una meno
comprensibile della precedente. La cosa peggiore, però, era la traccia di
inquietudine che esse lasciavano addosso, un sentore inevitabile e terrore,
brividi sotto pelle, fiato bollente ad attanagliare la gola.
Tony fece quel che l’eroe gli aveva detto, spiando
le sue mosse con la coda dell’occhio: lo video estrarre da una piega della
veste un coltellaccio a costola curva; il montone e la pecora scalpitarono e
belarono, qualcosa tremò, vibrò sotto la terra.
Stark scattò in piedi e s’allontanò con un salto nel
vedere un dito ricurvo spuntare dall’ultima zolla smossa, artigliare l’aria,
torcersi e quindi svanire come fiammella spenta da un soffio di fiato; si voltò
a cercare Odisseo con sguardo allucinato e le tempie sbiancate dal terrore;
l’eroe sorrise d’un ghigno superiore e lontano, slegò la cavezza, avvicinò il
carrettino e strattonò gli animali in avanti, per poi consegnare corde e
coltellaccio nelle mani del magnate. S’inginocchiò nel fango a saggiarne la
profondità con le unghie incrostate di rimasugli violacei, quindi si rialzò e
prese la prima delle anfore, versò il contenuto nelle basse coppe e lo gettò dentro
la fossa.
Il latte si frantumò ruggendo contro le pareti
bombate, l’odore si mescolò nauseabondo al lezzo crescente di putrefazione e
ossa divelte; ad esso seguì una lacrima di miele ambrato, dolce come l’ultimo
abbraccio dei cari, e poi vino profumato di zucchero e spezie, asprigno,
stucchevole, calice alzato alla memoria del defunto. Infine l’acqua, a
cancellare e mescere, a comporre e distruggere, e la terra assorbì le libagioni
con un risucchio di gengive insalivate e bocca di vecchio, l’erba ebbe un
guizzo di fuoco e smeraldo, il freddo irrigidì finanche le stelle.
«Divinità dell’Ade
e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò in
quest’impresa da infiniti tramonti non più tentata, io prometto di immolarvi la
più grassa delle vacche sterili e di colmare il rogo di ricche offerte.»
Obadiah gettò un urlo d’orrore, la pecorella
scalpitò, ma Tony era troppo paralizzato per accorgersi di qualcosa che non
fosse il fluire delle offerte in rigagnoli pestilenziali o la voce di Odisseo,
profondo rombare d’Oltretomba.
« E per…» l’eroe
sollevò gli occhi di baratro nero ad incontrare gli occhi di Stark e questi
avvertì la risposta uscire di propria sponte dalla bocca contratta.
«Steven Grant Rogers» mormorò, con un sussurro intorpidito
che non gli apparteneva.
«…Steven Gran
Rogers a parte sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei
nostri greggi.(3)»
E prima che potesse protestare, prima che potesse capire, Odisseo artigliò con dita ferine
le corde che trattenevano gli animali e il montone fu il primo a cadere. Un
lampo del coltello, il filo della lama pianse gocce vischiose di sangue fumoso
e cedettero le ginocchia coperte di vello e svennero gli occhi marroni
nell’orbita infossata del muso triangolare. Un urlo di sordo giubilo squarciò
il ventre del mondo, la nebbia fremette, s’arricciolò, cantò entusiasta e volti
senza viso di uomini antichi si acquattarono attorno al perimetro della fossa,
esseri fatti di goccioline e ragnatele, esseri che non conoscevano il sole,
esseri avvolti dai nembi eterni e senza fine –I Cimmeri.
La pecorella tentò di saltare oltre il bordo, ma
Odisseo fu veloce e l’agguantò e le disegnò un sorriso purpureo sul collo
lanoso. Sprizzarono ovunque filamenti rossi e trine vermiglie, pioggia carminia
e ululati gorgoglianti, strascicare di vesti, tendersi di nervi, strascinarsi
di piedi, versi arrochiti di stomaci contratti dalla fame di vita, dalla sete di
sangue.
Odisseo si levò, Tony arretrò, i Cimmeri esultarono.
I morti apparvero.
***
Nel muovere un passo in avanti, la pietruzza si
staccò da sotto la suola del calzare e rotolò tintinnando in acqua. Il
trampoliere(4) sollevò il collo flessuoso e girò verso di lui il
becco appuntito; rimase ad osservarlo per alcuni istanti, gli occhietti neri
socchiusi –Sospettosi, persino-, quindi battè le ali e s’involò con uno scatto
liquido, la punta candida delle piume che gettava all’intorno schizzi e gocce
grigiastre.
Gli uccelli erano ovunque, tanti puntini bianchi tra
i canneti incolori e il rimestare limaccioso dei fiumi: Thor ne vide uno
percorso da venuzze rigide, come cristalli o graffiti di ghiaccio, un secondo
limpido, a specchio, che lasciava intravedere il fondo di ciottoli sgrossati e
appiccicosi di melma verdastra; ve n’era anche un terzo, un tripudio di fiamme,
cenere e lapilli, il cui convulso scorrere lavico era accompagnato da un
singhiozzare continuo, costante(5).
Il Dio tese il collo in avanti, non osando
avvicinarsi di più, né cercare una facile discesa alle rive bollenti.
«Per Odino…!» esclamò, ritraendosi «Sono uomini,
quelli immersi!»
Ed era vero, lo sguardo non l’aveva ingannato: tra i
flutti di fuoco emerse un cranio ustionato, la pelle una crosta nera e
ributtante sulle ossa roventi; dei bulbi oculari non era rimasta che una
poltiglia di lacrime e muco, della bocca carne untuosa, pustole e bubboni
cancerosi –Eppure possedevano ancora la forza, o la maledizione?, di poter piangere, di poter urlare, di poter
implorare la salvezza.
«Non ti curar di loro, amore mio» l’Incantatrice gli
mise una mano sulla spalla «Parricidi e matricidi, poco più che bestie.»
Thor era sul punto di ribattere, quando un suono, un
belato, risuonò in invisibili cerchi
sopra le loro teste e tutta l’aria –Fino a quel momento intrisa del sapore di
vino, miele e latte cagliato- s’impregnò di metallo e sangue; il Dio alzò la
testa e corrugò la fronte quando vide i trampolieri levarsi in un sol gesto nel
medesimo istante, un unico corpo di penne e guaiti stridenti.
Nell’avvoltolarsi stagnante dell’acqua sollevata
dalle loro zampe, presero forma figure oblunghe con teste ovali, arti allungati
e corpi molli, stracci penduli dalle braccia gommose e attorcigliate attorno a
caviglie tremolanti. Claudicavano ondeggiando verso il punto in cui il fiume di
fiamme e il rivo striato di gelo si univano a formare una lingua d’acque
fumose: era sorto una specie di rigonfiamento, in quella zona, formatosi
dall’accumulo di sostanze vischiose, bianche, rosse e ambrate, dal lezzo
maleodorante, infetto. Le anime immerse nella lava tentarono di uscire,
aggrappandosi agli orli appiccicosi degli altri spiriti, ma appena uno riusciva
nell’impresa ecco…! Uno dei trampolieri gli volava affianco e gli strappava le
dita con una beccata; le creature lattee, in qualche modo richiamate dal gesto
dei parricidi, facevano ricadere il cranio sul petto bombato e piegavano le
gambe esili, come ad inginocchiarsi. Di nuovo, l’uccello interveniva ad
impedire ogni contatto, afferrando tra gli artigli la veste pallida dello
spirito e traendolo via, riconducendolo alla lunga, lenta processione.
Il Dio del Tuono sarebbe rimasto ancora per molto
tempo ad osservare la litania di anime mugolanti procedere senza scopo comprensibile,
soprattutto perché esse, una volta arrivate sull’escrescenza rialzata,
tendevano le falangi tubolari alle pareti coniche del pozzo roccioso e poi
svanivano, in un soffio di polvere e cristalli. Avrebbe voluto, questa volta,
scendere per osservare più da vicino, ma Amora doveva avere per lui altri
progetti: lo afferrò per un lembo del mantello e lo costrinse a scendere per
una viuzza screpolata, a stento bastevole per far passare entrambi in fila
indiana.
Si tennero lontani dalle rive dei tre fiumi, ma Thor
poteva comunque sentire ragnatele di zolfo e carne bruciata incrostargli le
narici e il fiato gelido degli spiriti colare denso sul retro del collo;
l’Incantatrice quasi correva, i capelli biondi ridotti a filamenti grigiastri
per la luce non-luce di quel posto infame.
«Amora» la chiamò il figlio di Odino «Amora, dove
stiamo…?»
La donna si girò veloce, lo sguardo che ostentava
una sicurezza inesistente, la bocca che cercava di nascondere il tremore
impaurito della mascella; le spalle candide erano scosse dai brividi, il petto
florido s’alzava e s’abbassava non per la corsa, ma per il panico del cervo che
si sa braccato dal cacciatore, pur non vedendolo negli angoli che svolta e
snida. Torse il collo a cercare dietro di sé, strinse le labbra truccate di
carminio e fece scivolare le dita sinuose tra quelle di Thor; questi arretrò,
ma in cuor proprio non poteva negare come, in assenza di Lady Jane, avrebbe
trattenuto con gioia la mano dell’Incantatrice contro il palmo.
«Dobbiamo sbrigarci, amore mio.» lo avvertì e portò
una nocca al labbro inferiore «Siamo stranieri in questo luogo, non scordarlo.
Se ci trovassero…» s’interruppe di colpo e gli occhi sgranarono; il Dio stava
per chiederle di continuare, quando una voce alle spalle palesò il motivo di
tanto terrore.
«Se vi trovassimo, prima vi interrogheremmo. In
seguito vi conficcheremmo la nostra picca nel costato»
Thor si girò, cauto, il braccio destro già teso
lungo il fianco, pronto a richiamare Mjolnir; appena ebbe posato lo sguardo su
chi aveva parlato, poi, il figlio di Odino capì di essere al cospetto di propri
pari.
Erano due ed erano a cavallo: nudi entrambi tranne
che per un mantello tinto di porpora ed un copricapo a guisa di guscio calato
tra i riccioli neri, acconciati ai lati delle tempie in trecce sottili, lucide
d’olio. Un balteo di cuoio abbellito di borchie in argento attraversava loro il
torace, a sostenere sulla schiena una picca di frassino, e sulla fronte algida
fiammeggiava una stella iridescente. Guardandoli nella fretta e nell’apprensione,
a Thor i due gemelli -Perché altro non avrebbero potuto essere- erano sembrati
identici in ogni dettaglio, ma osservandoli meglio notò che gli occhi di uno
avevano il colore della terra bagnata, del limo fecondo, del fango che straripa
fertile dalle bocche del fiume; le iridi dell’altro, invece, avevano la
splendida, meravigliosa lucentezza del cielo terso che circondava anche Asgard,
l’azzurro divino dell’orizzonte più terso, della più pura volta celeste. La pelle
di quest’ultimo, inoltre, era come intessuta d’oro e le carni del secondo
fratello, a confronto, ne uscivano smorte, pallidicce, malate. I muscoli non
erano così scattanti, né delineati, la bocca non così rossa, le gambe non così
forti –Se qualcuno glielo avesse chiesto, il figlio di Odino avrebbe detto che
ad uno era stato concesso al dono dell’immortalità, all’altro negato per natura
di sangue.
«Attento, cuore mio» bisbigliò Amora al suo orecchio
«Costoro sono custodi dell’Oltretomba. Essi sono gemelli, nati da un uovo di
cigno. Ma ricorda, uno solo di essi…»
«Taci!» gridò il fratello dagli occhi di terra,
tirando le briglie tintinnanti «Polluce(6), anche tu lo senti?
L’odore che li appesta, il lezzo che mi attanaglia lo stomaco» socchiuse le
palpebre, storcendo la bocca in un’espressione di sommo disgusto «Paglia
impregnata di barbarico piscio, barbaro idromele e sangue barbaro. Dite,
stranieri, riuscireste a pronunciare i nostri nomi senza arrotolare balbettando
le vostre lingue balbuzienti(7)?»
Thor ringhiò, la faccia stravolta dall’ira e dalla
vergogna; le vene del collo pulsarono, i denti scricchiolarono tanto prese a
digrignarli.
«Via, Castore, non intrattenerti oltre con loro» lo
riprese Polluce, ma sul suo viso non c’era alcuna intenzione di porre fine alla
tensione «Di certo, avranno una spiegazione per questo comportamento, vero? Del
perché si sono introdotti come i peggiori dei ladri nella Dimora dell’Ade, del
perché Cerbero non ringhia e non latra più dall’oscuro ventre del suo antro. Oppure…Oppure,
proprio come quel cane d’Odino, Signore della Fetenza, venite qui pensando di
poter disporre dell’Ade, solo perché ora---»
Non gli riuscì di concludere la frase, che già il
Principe di Asgard lo aveva colpito allo zigomo col potente Mjolnir: un gran
scoppiettare di tuoni e scricchiolare di lampi accompagnò la caduta di Polluce,
tra gli schizzi di fango e rametti bavosi incastrati tra i ricci ben modellati.
Il cavallo, privo di cavaliere, nitrì, s’imbizzarrì, mosse impazzito gli
zoccoli al vento; Castore gli fu incontro, spingendogli davanti la propria
cavalcatura con una ginocchiata nei reni.
Infuriato oltre ogni limite, girò la testa e tese la
picca.
«Pagherai col sangue quest’affronto, cane barbaro.»
***
Steve smise di parlare e gli venne il dubbio di non
aver nemmeno mai iniziato.
Ricordava l’ingresso nel gorgo nero, affiancato da
Ermete, il cicaleccio cigolante del fuso e le dita che strimpellavano rancide
nenie su un filo ben teso e il morso rugginoso d’un paio di cesoie farsi
lontano e confuso; ricordava la strada in discesa e il buio sempre più fitto,
ma che per gli occhi non era causa di fastidio alcuno: il Capitano vedeva bene
come fosse stato giorno, per quanto, a onor del vero, da osservare e rimirare
ci fosse ben poco.
Ermete era l’unica fonte di luce nel grigiame della
galleria, il bagliore delle vesti e della fascia alata che gli cingeva la
fronte creava ai suoi piedi un alone d’oro bianco capace di allontanare
qualsiasi ombra avesse cercato di sopraffarlo. E di ombre, in quel luogo, ce
n’erano in abbondanza: ombre negli angoli della roccia, nei tumori tufacei
della pietra, tra le noci di ghiaino e le erbacce scheletriche, ombre nel
reflusso sonoro di acque lontane, ombre ad infiacchire la voce, a sbriciolare i
ricordi.
Steve non le temeva, il che lo inquietava parecchio.
Più avanzava attraverso il rigurgito stagnante, più cominciava a sentirsi a
proprio agio in mezzo a quei nugoli mormoranti e un senso di pace lo
ineluttabile lo invadeva dalla cima della testa alle punte dei piedi.
E lentamente, inesorabilmente, iniziava a dimenticare.
Schiacciato dalla pesantezza dei miasmi e dal
silenzio corroborante, Steve aveva deciso di raccontare qualunque cosa gli
fosse venuta in mente, con la sensazione, così, di non perdere se stesso: aveva
detto ad Ermete del Madison Square Garden, della folla e delle luci, del
ringhio del motore sotto le dita; gli aveva presentato James “Honcho”
MacDonald, Reddy e Wolf, descrivendo la vivacità del primo, l’emozione del
secondo e la sospettosa serietà dell’ultimo, di tipico stampo californiano;
aveva taciuto del pre-spettacolo,
però, degli occhi di Stark riflessi nello specchio del bagno della Tower, il
suo completo lucido –Armani, naturalmente-, la cravatta ancora allentata, la
testa piegata appena sulla spalla destra e le braccia incrociate sotto il petto.
Come avesse appoggiato la schiena allo stipite della porta e l’avesse osservato
mentre si sistemava i capelli con la brillantina che il magnate tanto
detestava. Come gli avesse sorriso di quel suo sorriso particolare, che a
malapena la gente avrebbe catalogato sotto la voce Ghigno non troppo derisorio.
Avrebbe volentieri taciuto altro, ma ad ogni parola
che pronunciava un filo di memoria veniva reciso con un singulto strozzato e
allora Steve parlava, parlava, parlava ancora e di nuovo, e raccontava e
narrava in uno scrosciare di memorie impastate l’una con l’altra, una
fanghiglia di immagini dove il prima ed il dopo non avevano significato, e il
vero si mescolava al falso, il giorno al sogno.
Tornava indietro, sempre più indietro, tornava a
Peggy e al calore del suo sguardo, al vestito scarlatto nel baluginio polveroso
del locale, al suo sapore che sapeva di lacrime e gioia e buona fortuna sulla
bocca, e poi Bucky, come scordare Bucky?
Bucky, l’amico, il fratello, il compagno, e la sua mano tesa e il suo sguardo
rassicurante e la sua caduta nel vuoto e nella neve, l’ultimo urlo svanito
nella tormenta e il volto contratto nel laboratorio di Zola e la sua risata
sminuzzata dai lumini singhiozzanti di ConeyIsland.
Col fiato corto e il respiro inacidito in gola, il
Capitano aveva continuato a correre sul sentiero dell’esistenza passata, fino a
quando le storie erano finite e la voce si era spenta.
Allora era arrivato il languore e l’inerzia, una
forza-non forza a sospingerlo in avanti con molle fermezza, il passo
zoppicante, la testa a ciondoloni, le palpebre cadenti. Non gli importava più
di parlare, giacché non avrebbe più saputo cosa dire. Non gli importava più di
ricordare, giacché anche la memoria lo aveva abbandonato.
Non viveva più, ormai, a che serviva rivangare ciò
che era stato? Aveva abbandonato il passato e perso il futuro, tra le mani di
biacca bluastra gli rimaneva il viscido presente dell’Ade e avrebbe fatto bene
a tenerselo stretto, prima che la follia gli tarlasse brano a brano quel poco di
pace che era riuscito a conquistare –Sebbene a costo di un’esistenza che, ora,
era meno d’un vago miraggio.
Era vecchio. Vecchio e stanco.
Ora poteva smettere di affaccendarsi. Ora poteva
riposare.
«Presto arriveremo alle rive dello Stige» lo avvertì
Ermete, degnandolo di un’occhiata impersonale, di chi aveva ripetuto la
medesima frase per mille volte mille secoli «Lì ti consegnerò un obolo: quando
richiesto, lo darai a Caronte, affinché…» il volto etero del Dio s’accartocciò,
un reticolo di rughe comparve a raggrinzirgli la fronte piana.
Con un flaccido movimento del collo, il Capitano
reclinò la nuca all’indietro: latte cagliato e vino, sapor d’acqua e di miele
giallognolo gli intorpidirono la lingua, appallottolandosi entro la cavità
delle guance e scavando, scavando a fondo, a ritrovare la carne e i nervi, le
vene, lo spirito. Esplosero con un boato dentro il torace, lo stomaco si torse
e reclamò qualcosa di più del cibo, stremato da qualcosa di ben più forte della
sete.
Le pareti del ventre arsero, furibonde e roventi,
ogni fibra del corpo di Steve urlò a gran voce la vita perduta, la mente tuonò uno
schiocco di vita nel cranio altrimenti vibrante di silenzio; la voce sgorgò a
fiotti liquidi dalla bocca pervasa dall’indolenza, il respiro grattò i polmoni
muffiti e il fiato era caldo ed era buono, il richiamo tanto forte da piegare
le ginocchia.
Rogers non colse l’espressione stupita del Dio, né
si curò di come l’Ade, all’improvviso, si fosse animato di mille e più
fiammelle lattee: il corpo rispose al suo bisogno, le gambe si mossero da sole
e si lanciarono in avanti, i piedi nudi cozzarono a contatto col pietrisco,
scivolarono e sdrucciolarono, ma il Capitano non perse l’equilibrio, non perse
la presa –Non perse la speranza.
Corse lungo la riva di un fiume turbinoso d’onde
schiumanti, guidato dalla fame che lo divorava dall’interno. Vide spiriti e
foschia e lamelle di ghiaccio ed un rialzo grottesco di libagioni; non si fermò
quando un trampoliere gli tagliò la strada in un gran frullare d’ali, né quando
un ruggito di zoccoli rovinò fragoroso all’intorno e un grido e un urlo
risposero loro con barbaro rimbombo di lampi.
Ermete lo seguiva in volo, perplesso e confuso, ne
avvertiva la presenza alle spalle mentre si librava di una spanna almeno sopra
il pietrisco della sponda; Steve s’arrampicò sull’ammasso globulare e stette in
piedi a rimirare verso l’alto, ebbro di un’attesa che credeva non poter provare
mai –Che credeva non avrebbe più provato: sopra di lui le pareti ben delineate
del pozzo scintillavano per le gocce bianche del latte e sanguinavano lacrime
di dolce vino rosso; blasoni di miele colavano accanto ad un pigro ruscellare
d’acqua e su, ancora più su, dove prima il soffitto era un’unica volta di
pietra impenetrabile, un ritaglio squadrato franava luce grigia e palpabile
nebbia grigio-perla.
Il profumo metallico del sangue gli bruciava le
viscere, le rigirava sulla punta di un coltellaccio bollente, e mordeva e
bestemmiava –Aveva sete, una sete insopportabile. Sete di vita, sete di sangue,
sete di parole.
Sentiva una voce, il Capitano, qualcuno che lo
chiamava, qualcuno che lo pregava di tornare e di mostrarsi, di farsi vedere,
di dimostrare come fosse ancora presente e non divorato dall’annullamento
dell’Ade.
Steve chiuse gli occhi ed inspirò piano, inspirò a
fondo.
Quando sollevò di nuovo le palpebre ed espirò un
lungo, pesante sospiro, Tony era davanti a lui.
***
«Quindi ora lo prendo e lo porto a casa, giusto? Una
sorta di pacco espresso per le Stark Industries?»
Odisseo, ombroso e cupo in volto, scosse la testa.
Aveva le mani ancora lucide di sangue e un’immane stanchezza negli occhi
antichi; Tony, immobile sul ciglio della fossa, lo sguardo che ne rincorreva di
quando in quando il perimetro per cogliere un’avvisaglia dell’arrivo di Steve,
si girò a fissarlo con la mandibola contratta.
«Ma allora…» soffiò, le palpebre strette, le dita
chiuse a pugno «A cosa è servito venire---»
«Non puoi portare via i morti dall’Erebo, Uomo di
Ferro –Esso, infatti, ancora mi deve tre abbracci alla cara e defunta madre»
l’eroe omerico si rimise in piedi «Ti è concesso, però, dialogare con loro. In
questo caso, di avvertire colui che tanto scompiglio ha creato nell’Olimpo e
persino ad Asgard»
Stark si massaggiò le tempie con le dita, pregando a
denti stretti che qualcuno –Possibilmente vivo- gli portasse qualcosa da bere.
Qualcosa di molto, molto forte e di molto, molto adatto a sedare l’istinto
omicida che gli stava montando in corpo.
«Di cosa dovrei avvertirlo? Non lo so, magari di
fare attenzione all’umidità? Oh, ti capisco, la sua chioma è l’invidia dei Nove
Regni, come direbbe Point Break, ma sei giustamente preoccupato che sottoterra
qualche ricciolo ribelle possa sfuggire alla patriottica impalcatura di
brillantina con cui li doma ogni giorno. Molto carino da parte, davvero» annuì,
sarcastico, e batté le mani «Ora, se la finissi con i consigli da Hairstylist e ti decidessi ad essere più
chiaro e meno--»
«Avvertilo di non bere le acque del Lete o
dimenticherà tutto.»
«---Ascolta, riguardo questa tua mania di
interrompermi. Dovremmo lavorarci sopra, che ne dici?
“…Il Lete?»
«Le acque dell’oblio, che confluiscono
nell’Acheronte insieme al Cocito e al Piriflegetonte. Se Steven Grant Rogers ne
berrà anche un solo sorso, dimenticherà ogni cosa di questa terra e sarà
incatenato eternamente all’Ade.»
Tony serrò le labbra e deglutì, indeciso se trovare
la cosa di pessimo gusto, poco credibile oppure entrambe.
«Okay, d’accordo. Niente shot di questo…Fiume o
qualunque cosa sia. Dio, lo sapevo
che Rogers doveva avere più contatto fisico con la Vodka e meno col sacco di
sabbia.»
«Inoltre» continuò l’eroe, del tutto incurante dei
commenti del magnate «Ordinagli di parlare, sempre e comunque. Di parlare e di
ricordare, le situazioni minime e insignificanti, un suono, un colore, un
brivido. Digli di ricordare per se stesso e non per gli Dei o per lo psicopompo
che lo accompagnerà oltre lo Stige: i primi perché con un sol gesto li mutano
in polvere, per impedire il rimpianto dei morti e la loro pazzia. I secondi
perché assorbono tali ricordi, alla disperata ricerca dei propri, abbandonati
troppi anni addietro per poterli riavere. »
«Lasciatelo dire, tutto questo è inquietante» messo
in allerta da un rumore come di stoffa impigliata in arbusti, Tony si girò
verso la fossa.
E sbiancò.
«Rettifico. Questo
è inquietante»
Una colonna di spettri pallidi e impaludati di
foschia lattea erano comparsi dal nulla, stretti e ondeggianti nel perimetro
cubitale dove Odisseo aveva gettato le libagioni e fatto scorrere il sangue dei
due animali. Oscillavano a destra, dondolavano a sinistra, barcollavano
indietro, ciondolavano in avanti, agitavano le lunghe braccia a forma di tubo,
annuivano con le grandi teste bitorzolute e prive di qualsiasi tratto somatico.
L’eroe scattò in avanti e saltò dentro la fossa, il
braccio destro a tenere lontane le anime con la punta del coltello, l’altro ad
accennare a Stark perché lo seguisse.
«Non lasciarli avvicinare, Uomo di Ferro. Essi
vogliono parlare, vogliono essere ricordati e respirare di nuovo l’aria del
mondo, ma non c’è abbastanza sangue per tutti loro: fa’ che venga a te solo
Steven Grant Rogers, e nessun altro.»
Il figlio di Howard annuì, convinto di poter
riconoscere lo spirito di Steve da qualunque altro gli si fosse presentato
davanti. Fu con sommo orrore che scoprì come ogni anima fosse identica a quella accanto, a quella
davanti, a quella dietro ad un grado di perfezione tale da farlo uscire matto.
Erano disgraziate tutte allo stesso modo, bianche allo stesso modo, gnaulanti
allo stesso modo: nessuno presentava un dettaglio diverso che gli permettesse
di ricollegarlo al Capitano.
Andiamo pensò, nella più totale
disperazione Andiamo, Steve. Vedi di
arrivare, di tornare, di farti vedere. Dimostrami che non sei ancora stato
inghiottito da questo marasma teologico in cui hai deciso di ficcarti solo perché,
bhé, non so, c’è già stato il finale di stagione di Grey’s Anatomy? Sia chiaro,
non è un buon motivo comunque, eh, ma ti giuro, ti giuro, è da due giorni che continuo a dirmi che deve
esistere una spiegazione logica a quanto è accaduto, perché non te ne puoi
essere andato così, dal nulla, senza avvertirmi, senza darmi il tempo di
prepararmi alla cosa, senza… prese un
respiro profondo, deglutendo il vomito logorroico che gli aveva appena gonfiato
la bocca Fatti vedere, Steve. Ti prego.
Smetterò anche di bere, intesi? Ti va bene come accordo? Tu…Tu esci fuori da
quella tana per ratti e io disdico tutti gli appuntamenti in agenda con madama
Vodka e mister Rhum. Anche quelli non agenda. Anche quelli su Twitter o i Poke
su Facebook. Dico davvero stavolta. Ma tu…tu devi tornare, però. Torna. Ti
prego…”
«…Torna»
La voce gli morì sulle labbra.
«Steve» riuscì solo a pronunciare quando vide il
corpo del Capitano emergere dall’ammasso scomposto di spiriti.
Rogers avanzò piano, l’espressione vacua sul viso
innaturalmente pallido. Il corpo era nudo, ma sembrava avvolto nella stessa
guaina scivolosa delle seppie, appiccicosa come quella dei calamari; pareva che
avessero costretto le sue carni in guanto di lattice tanto era bianchiccia e
trasparente la pelle, tanto erano slavati gli occhi impolverati. Le dita erano
bitorzolute, sgraziate, le unghie bluastre; i capelli erano paglia e il biondo
era marcito fino a prendere un nauseabondo colorito verdognolo, le sopracciglia
si erano assottigliate all’inverosimile, sparendo nell’ampia fronte, colante
sudore e biacca.
«Tony» disse Steve e il tono era incolore, come
incolore erano la bocca e le vene, striature d’un rosa malato a tessere
ragnatele appena visibili sui polsi sgrossati ed il collo enfio «Cosa ci fai
qui?»
Sulle prime, Tony nemmeno capì. Storse la bocca,
scosse la testa, uno scintillio furioso gli bruciò lo sguardo.
«Che ci faccio qui? Che ci faccio qui? Non so come funzioni il sistema di notizie
nell’Ade, Capitano, ma si dà il caso che io mi sia spezzato la schiena pur di
venire a tirarti fuori da questo piattume greco e tu…»
«Io sono morto, Tony. I morti devono rimanere coi
morti. Noi non apparteniamo alla vita. Noi apparteniamo all’Ade. Non abbiamo
più passato, non c’è concesso futuro. Possediamo solo il presente. E il
presente è nell’Ade. Insieme ai morti. Noi non apparteniamo alla vita. I morti
devono rimanere coi morti. Io sono morto, Tony.»
«E considerati fortunato ad esserlo, altrimenti ti
avrei---» Stark non ebbe il tempo di concludere la propria ingiuria, che
Odisseo aveva steso un braccio ad impedire una probabile ritorsione fisica nei
confronti di Rogers –Perché ci sarebbe stata, sì, Tony lo avrebbe volentieri
preso a pugni fino ad ucciderlo di persona, lui e quei suoi dannati discorsi
sui morti che dovevano rimanere tali. Idiozie! Balle! Gli avrebbe ficcato in
testa a suon di destri e ganci che Anthony Edward Stark non si era arreso alla
morte una volta, né avrebbe scelto proprio quel momento per cominciare.
«Il sangue curerà il suo intelletto, Uomo di Ferro»
lo rassicurò l’eroe omerico, il volto sereno, placido «Guarda»
Il figlio di Howard deglutì a forza, ma si impose di
non intervenire fino a quando Steve non avesse recuperato il senno di sua
volontà –In caso contrario, ci avrebbe pensato lui a riportarlo in carreggiata.
Il Capitano sgranò gli occhi, d’improvviso famelici,
e ignorò entrambi per inginocchiarsi sul rigagnolo purpureo che ancora fumava
attorno alla gola del montone: schiuse le labbra e affondò le dita nel sangue,
lo sollevò tra le mani chiuse a coppa, ansimò come un animale e bevve. Bevve,
succhiò, sospirò estatico, si mise in piedi.
Un rivolo caldo ruscellò vermiglio dalla bocca lungo
tutto l’esofago, ramificandosi all’altezza del torace, ricostruendo vie,
sentieri e vita. Il colore sbocciò
sulle guance terree, deflagrò negli occhi di nuovo azzurri e barbagliò d’oro
tra i capelli; le labbra si tinsero d’un violento carminio, le carni
s’animarono e scintillarono e le dita erano di nuovo forti e s’aprivano e si
chiudevano a pugno e il petto si sollevava, s’abbassava, e Stark credette di
morire dinanzi a quello spettacolo. Il sangue arterioso sprizzò dai polsi e
dalle caviglie, le avviluppò e ricadde, si mescolò e modellò a ricreare il
morbido tessuto dei guanti e degli stivali, mentre il sangue venoso pompava
lento a stendere sulla sua pelle il caldo blu scuro della divisa in spandex.
Steve rimase alcuni secondi ad inspirare aria a
pieni polmoni, quindi sorrise e aprì lentamente le palpebre.
«Tony» mormorò e c’era tanto tepore in quell’unica
parola, che il magnate temette di poter andare a fuoco da un momento all’altro.
«Ehi, ragazzone» lo salutò allora, quasi si fossero
lasciati non più di cinque minuti al tavolo del bar «Bentornato»
Rogers sorrise ancora, sorrise più ampio e dolce e
quieto, si avvicinò e tese la mano verso di lui.
Tony sapeva cosa sarebbe successo, sapeva perfettamente cosa significava quel
gesto: un battito appena di cuore e avrebbe avvertito le nocche di Steve
sfiorargli delicate –Ma non più incerte, non più titubanti- il volto, dallo
zigomo fino alla bocca; lì, poi, si sarebbero aperte e avrebbero accarezzato,
disegnato il profilo delle labbra con la punta dei polpastrelli.
Perché Steve lo toccava, lo sfiorava, lo accarezzava
spesso e sempre e tutte le volte che ne aveva l’occasione: non gli aveva mai
chiesto il motivo di tanta attenzione per il contatto fisico, ma Stark era convinto
che lo facesse per meglio imprimersi nella memoria e nel sangue ogni piega,
ansa, sfumatura del suo corpo, per riportarla su un foglio di carta bianca o
anche solo per trattenerla dentro di sé quando una missione li costringeva a stare
separati per parecchio tempo –Gli ordini erano ordini, dopotutto.
Anche la prima volta che aveva condiviso il letto,
che lo avevano condiviso davvero e
non si erano limitati a dormire l’uno accanto all’altro, le dita intrecciate, i
respiri incatenati, raggomitolati insieme sotto le lenzuola azzurro pastello
del letto di Tony –Per arrivare al punto di dormire insieme, comunque, erano
stati necessari due passi avanti ed uno indietro e non solo da parte di Rogers,
che, a conti fatti, era più spaventato dall’idea di abituarsi alle usanze del
nuovo millennio che da quella di avere una relazione, seppur segreta, con un
uomo-, la prima volta, il figlio di Howard lo ricordava bene, a farla da
padrone erano state le mani di Steve, i palmi di Steve, le dita di Steve, i
polpastrelli di Steve.
Non gli era possibile scordare come il compagno gli
avesse racchiuso il volto tra le mani, come si fosse chinato sulle sue labbra a
raggiungere bocca e respiro, come si fosse spinto contro il suo torace, in
pieno contatto con il Reattore Arc. Tony aveva chiuso gli occhi quando le dita
di Rogers erano salite al collo, oltre le spalle, a delineare le fasce
muscolari delle braccia fino a colmarsi i palmi coi suoi fianchi; le mani,
ricordava Stark, erano scivolate veloci sotto la maglietta nera che stava
indossando a mo’ di pigiama e subito si erano ritratte, quasi un simile gesto
avesse avuto il potere di bruciargli la pelle.
Il figlio di Howard, alla fine, non aveva capito più
nulla –E con una certa soddisfazione poteva ben dire che anche per il Capitano
la situazione era stata la stessa: le dita aggrappate alle gambe, le mani che
scivolavano sulla schiena, passavano sotto le braccia, i baci mormorati
all’orecchio, sussurrati al collo, bisbigliati al basso ventre, il battito
cardiaco che scalpitava, ansimava, correva, galoppava, il sudore sul torace, i
polpastrelli che cercavano le costole e le vertebre, la bocca che richiamava sé
fiato e respiro, denti che siglavano possessione e sottomissione sullo sterno,
sulla clavicola, nell’incavo dei gomiti, sui polsi, la lingua che saettava a
cingere umida la dolce profondità dell’ombelico, sangue che pulsava nelle gambe
e nella colonna vertebrale, girandole di colori e dolore e carne tesa e pelle
arrossata e piacere, piacere, piacere, piacere, piacere, piacere…
Ma per quanto potesse essere stato intimo e profondo
quel loro primo, forse anche goffo, forse anche inesperto cercarsi -Tony Stark
conosceva perfettamente il corpo
delle donne, le rotondità dei fianchi, la curva dei seni, la linea dolce e
sensuale del collo e delle spalle, l’incunearsi del ventre sotto il minuscolo
cerchio dell’ombelico. Non c’erano segreti nel modo in cui inarcavano la
schiena e piegavano la testa all’indietro,nel mento che si sporgeva verso
l’alto e le labbra che si schiudevano in un battere scarlatto di rossetto, il
guizzo della lingua, il barbaglio bianco dei denti che si sgretolava e si
scioglieva in un gemito liquido. Il corpo di Steve tra le dita, al contrario, era
stata la sorpresa, l’ignoranza, la scoperta-,
per quanto potesse essere stato così vicino a quanto aveva sperimentato e
provato con Pepper –Sebbene ciò che era stato con Pepper era stato solo e
soltanto con Pepper e nulla, nulla mai sarebbe potuto rassomigliargli od eguagliarlo,
nel bene e nel male-, per quanto, si diceva, potesse essere stato così…tanto, era nulla rispetto a quando Steve
era arrivato a baciare con cauta, rispettosa lentezza il Reattore impiantato
nelle costole.
Niente avrebbe potuto far presagire un simile gesto,
perché Tony gli si era presentato, divertito e gongolante, ammanettato alla
testiera del letto –Avevano guardato da poco Sherlock Holmes, a sua discolpa, e
Stark si era autonomamente imposto come istitutore sessuale dell’obsoleto
Capitano, di cui era probabile che la fantasia erotica più vertiginosa
coinvolgesse Betty Boop in giarrettiera e reggicalze- e Rogers aveva cominciato
a mostrare deliziosi progressi e unghie ben affilate.
Poi c’era stato quell’attimo di sospensione e il
lento bacio e gli occhi chiusi e le dita della mano destra ferme contro il
costato, quelle della sinistra sospese sul fianco.
Tony si era chiesto per un istante e forse anche per
due, come fosse possibile costringere un uomo –Un ragazzo di neanche
trent’anni- come Steven Rogers alla guerra,
lui con quel suo sguardo azzurro e il bel sorriso e i modi gentili –Poi
erano arrivati i graffi e i morsi, e allora aveva dovuto ricredersi.
Forse, forse
aveva sublimato l’idea di un Capitan America terrorizzato dal sesso ai livelli
di una pudica fanciullina del Trecento fino a farlo diventare un vero e proprio
kink. D’accordo. Era plausibile.
Quando la mattina dopo si era ritrovato con la
schiena rigata di graffi rossi e gonfi, l’adorabile e quanto mai eccitante
fantasia era andata in pezzi –Sulle sue ceneri, però, ne erano sorte molte e di
ben altro genere, in cui manette e giochi di ruolo erano sempre accetti.
Rogers era stato nell’esercito, in fondo. Stark
aveva dovuto seriamente ricredersi sulla sua ormai confutabile negazione
sessuale –Non che la cosa gli fosse dispiaciuta o ancora lo dispiacesse,
naturalmente. Anzi, aveva dato alla loro relazione quel pizzico in più che…
A ricordare le proprie speculazioni psico-sessuali
su Steve, Tony sorrise, ma fu un’espressione che durò assai poco. Corrugò la
fronte, aggrottando le sopracciglia: non aveva sentito alcun tocco sulla
guancia e per un folle momento ebbe il sospetto l’altro fosse scomparso.
Riaprì allora gli occhi e lo vide contemplarsi le
mani con sguardo confuso, rimirare e rigirare le dita da una parte e dall’altra,
salvo poi serrarle fino far sbiancare le nocche. Nello sguardo guizzarono
frustrazione e rabbia, la stessa che gli era costata un rapporto in piena
regola segnato in nero su bianco nei file dello S.H.I.E.L.D. –Dovrebbe imparare a controllare la rabbia(8),
scriveva di lui Nick Fury e anche se Tony non avrebbe dovuto leggerlo, perché,
ehi, erano dati segreti o altra robaccia del genere, lo aveva letto comunque,
perché i sistemi di difesa dei computer dello S.H.I.E.L.D. erano penosi e lui faceva solo che un favore a
Mace Widu, se le incursioni non
richieste nel database servivano a migliorare un po’ le cose.
Però si era detto d’accordo con quell’affermazione.
Steve aveva così rabbia dentro, che un congegno
dell’HYDRA non avrebbe potuto provocare scoppio peggiore o più rumoroso. Il
Capitano tendeva a non mostrare quella rabbia, se era in compagnia –In sua
compagnia, in particolar modo- ma c’era, esisteva e premeva, e Stark la vedeva
negli occhi e nel cuore, nel modo in cui contraeva la mascella e guardava il
mondo quasi fosse troppo nuovo per un vecchio come lui e il proprio riflesso
quasi fosse troppo vecchio per un mondo nuovo come quello all’intorno.
Tony conosceva quel tipo di rabbia, perché ne era
oppresso alla stessa maniera: lui cercava rifugio nell’alcool, Steve in un
sacco di sabbia. Entrambi si erano votati all’autodistruzione e ne recavano i
segni, chi per il colorito giallastro del viso, chi per le nocche costantemente
sbucciate e cosparse di ecchimosi –Per entrambi cercare rifugio l’uno
nell’altro era un effetto placebo parecchio rassicurante.
«Perché? Perché non posso toccarlo?» soffiò il
Capitano, serrando le palpebre.
«Ai vivi non è concesso toccare i morti e ai morti
non è concesso toccare i vivi. Lo hai detto tu stesso, no? I morti devono rimanere coi morti»
«Oh, perfetto, ci mancava un altro Village People»
Stark alzò gli occhi al cielo, ma il Dio che era appena apparso sembrò non aver
udito –Oppure, al contrario, lo aveva deliberatamente ignorato.
«Laerziade…Chi altri avrebbe potuto portar qui il
mortale?»
«Ermete, mio signore» Odisseo chinò la testa e una
ciocca di capelli si curvò a coprire un ghigno astuto «Faccio solo ciò che mi è
stato ordinato»
«L’Ade è sguarnito, Laerziade. Nelle profondità
della sua tana, Cerbero più non latra e i Dioscuri sono inquieti.»
«Così si dice»
«Sì, bene, molto carino ed edificante, ora possiamo
tornare al problema principale?» Tony si frappose fra Ermete e l’eroe omerico,
le braccia alzate a chiedere una sorta di time out –Steve, dietro di lui, si
lasciò sfuggire una risata breve, ma ben udibile «Ovvero, portarvi via il qui
presente Capitano e reintegrarlo nel mondo dei vivi»
Ermete sollevò l’angolo destro delle labbra e le ali
che gli cingevano la fronte ebbero un battito bianco.
«E cosa ti fa credere di poter riuscire
nell’impresa, mortale?» lo dileggiò, lo sguardo macchiato di derisione.
Stark rispose alla frecciatina con un’occhiata
ironica e sollevò tranquillo le spalle.
«Perché mi chiamo Anthony Edward Stark, sono un
genio, miliardario, playboy, filantropo, occasionalmente salvo anche il mondo…»
strinse le palpebre «E l’ho già salvato dall’eternità una volta. Non vedo
perché un paio di leggende incartapecorite come voi dovrebbero impedirmelo una
seconda»
Il Dio emise uno sbuffo contrariato, scuotendo il
capo.
«Sei colmo di hybris,
mortale. Trasudi tracotanza da ogni
parola che pronunci da quella bocca empia. Ma permettimi di ricordarti le sagge
parole di Dario: la hybris, fiorendo, suole dare un frutto di ate, da cui si raccoglie una messe di pianto(9)»
«Bella, d’impatto. Dove l’hai letta? Su un biscotto
della fortuna?»
«Tony…» provò a richiamarlo il Capitano, ma il
figlio di Howard gli si rivoltò contro come una serpe, la frustrazione e
l’impotenza chiaramente leggibili sul volto affaticato.
«No! No, Steve! Lo sai, ho sempre avuto un rapporto
poco convenzionale con la religione, adesso io e lei siamo arrivati ai ferri
corti. Mi sono stancato e sono deciso
più di prima a riportarti indietro. Non ho mai creduto a un Dio, o forse sì,
quand’ero ragazzo, quand’ero bambino, e anche allora portava alternativamente
il nome tuo o di mio padre, a seconda di come mi alzavo la mattina.
“La maggior parte delle volte era il tuo, giusto per
informarti»
Steve tentò di bloccarlo, ma Tony continuò
nell’arringa. Ci teneva a dimostrare quanto poco avesse cura di quei fantomatici
Dei che giocavano con loro come bambini annoiati, che gioiscono del nuovo
balocco e tempo un giorno e già lo hanno abbandonato per qualcosa di meglio e
meno noioso.
«Di solito sei tu quello dedito alla preghiera, fra
noi due. E no, non fare quella faccia, Rogie.
Ti ho visto e ti ho sentito mentre mugugnavi qualche salmo alla luce
dell’abat-jour, cosa credi?»
Che il Capitano avesse una concezione religiosa
molto diversa dalla propria, Stark lo sapeva senza dover per forza seguirlo
ogni domenica per vedere dove andasse, se alla palestra del vecchio Stan o alla
chiesetta a tre isolati di distanza dalla Tower. Un’anonima e minuscola
accozzaglia di mattoncini rossi, un rosone di dimensioni discutibili,
sgangherate panche di legno e una croce di metallo bubbonico piantato tra le
tegole brune; l’altare era carino, però, il pulpito si reggeva bene in piedi e
l’ostensorio era l’unico, pregiato oggetto coperto in foglia d’oro di tutto il
ciarpame della navata e della sagrestia.
…Sì, va bene, una
volta Tony l’aveva seguito per vedere dove andasse, e si era nascosto
all’ombra di una colonna, dietro le spalle l’incombente presenza di San
Sebastiano; aveva pensato che il profilo di Steve, attorniato dal bagliore
delle candele, fosse particolarmente bello, ma aveva subito fatto marcia
indietro quando gli era sembrato di avvertire su di sé gli occhi un
poco…canzonatori del Cristo in Croce.
Suggestione, probabilmente
–Insomma, un Cristo in Croce che ti squadra divertito mentre imbastisci
pensieri poco casti riguardo al tuo compagno, il tutto tra le pareti della
Santa Madre Chiesa? Solo in Doctor Who.
E forse neanche in quello.
Mio
padre era irlandese(10) gli aveva raccontato Steve, una
sera soffusa e lontana, in cui tra loro c’era solo una vaschetta di gelato alla
fragola, parecchi non-detti e alla televisione passavano l’inguardabile What’s Your Number?(11) –Una settimana dopo nella vecchia
palestra di Stan a provare qualche passo di danza e le labbra del Capitano posate
sulle proprie con una naturalezza disarmante, Tony aveva compreso che il gelato
alla fragola e l’orrido film erano solo un inconscio pretesto alla reciproca
compagnia Mi ha passato un po’ della sua
Fede cattolica.
Non aveva mai dato peso alla
cosa, almeno fino a quando non si era ritrovato in un letto d’ospedale a
combattere tra la vita e la morte, e tutto perché un membro dell’A.I.M. aveva
avuto la malsana idea di tirargli una granata tra capo e collo. Nel delirio
della febbre, Tony aveva aperto gli occhi nella pastosa realtà di una notte
indefinita e aveva avvertito la presenza di Steve accanto a sé: non avendo
forze per girare la testa, si era limitato a lasciarsi cullare dalla litania
rassicurante della sua voce –Arrivando poi a comprendere il significato delle
sue parole nei giorni successivi.
Signore,
lo so, lo so che non dovrei avere nemmeno l’ardire di pregarti, non dopo quanto
è successo tra me e lui –Dicono che è sbagliato, Signore, che ai Tuoi occhi
questa relazione è peccato, questo sentimento è male, ma per una volta, una volta soltanto voglio essere
così superbo da ritenere che nulla di amore, ai Tuoi occhi, possa essere
abominio.
Perché
io lo amo, Signore.
Mi
è caro. Caro più della vita. E se è sbagliato non importa, non m’importa
nemmeno se è peccato, se è male o abominio: Tu lo hai portato a me e Tu hai
portato me a lui, ci hai messo a confronto, ci hai messo a disposizione l’uno
dell’altro e non mi sento sbagliato, peccaminoso, malefico, né abominevole
quando sono con lui, Signore. E forse in questo sta il mio peccato maggiore:
non accorgermi, forse, di quanto sia orribile questo mio amore. Forse il vero
peccato è la mia mancanza di coraggio, la mia impossibilità di dirglielo
apertamente, così irretito come sono da paura e incertezze.
Ma
non credo che il sentimento che provo sia orribile. Di nuovo, sono convinto che
se Tu hai predisposto ogni cosa perché ci incontrassimo, allora nulla di
cattivo può nascere dalla nostra relazione. Perché, ne sono sicuro ogni volta
che lo guardo, ogni volta che lo respiro, Tu già sapevi cosa sarebbe successo.
Per
cui, ti prego. Ti prego, Signore. Salvalo. Salvagli la vita.
Ti
prego. Fa’ che si risvegli. Ti prego.
Ho
bisogno di lui.
Mi
è caro, Signore.
Ti
prego.
Salvalo.
Tony non ne aveva mai fatto parola con nessuno,
soprattutto con Steve. Anche quando, alla Tower, si era svegliato di
soprassalto da un sogno che non ricordava, che non aveva importanza, e nel
riflesso dello specchio aveva visto il compagno inginocchiato sulla sponda del
letto, i gomiti affondati nel materasso, le dita chiuse e appoggiate sulla
fronte.
Recitava il Padre Nostro e lo recitava in latino.
Perché proprio in
latino? Non
aveva potuto non chiedere, la mattina dopo.
Rogers era sobbalzato sulla seggiola di cucina,
macchiando la tovaglia col caffè; le orecchie erano divenute tizzoni ardenti,
come ogni volta che si imbarazzava o era colto in flagrante nel mezzo di
qualche attività che nessuno avrebbe ritenuta degna di Steven Capitan America
Rogers.
In Italia…Durante
la guerra, sai? Capitava che finissimo in qualche paesino sperduto tra le
colline e i parroci non ci hanno mai negato una Messa o anche solo una
preghiera. Le dicevano in latino e mi sono rimaste nel cuore.(12)
Avrebbe voluto chiedere di più, tornare alla
preghiera di tanti mesi prima, domandargli di…Di quello, delle paure e dell’incertezza, ma si era accorto di come
gli bastasse così. La cucina immacolata, la colazione, Steve che sorrideva ad
un piccolo ricordo –Non gli interessava sapere se avesse avuto qualche
“passionale trasporto” per altri uomini o unicamente per le donne, né se lui,
Tony Stark, fosse l’unico uomo per cui avesse mai provato quel sentimento, o
che altro. Per il figlio di Howard era più facile: sfidare le convenzioni della
società era parte intrinseca del suo essere, anche se fino a quel momento non
aveva mai pensato che il contatto con un uomo sarebbe mai effettivamente andato
oltre una stretta di mano o una pacca sulla spalla.
Gli bastava sapere che, quella particolare mattina,
oltre a lui, Tony Stark, non esisteva nessun altro e l’unico su cui Steve si
fosse mai permesso un commento era Robert Downey Jr. E’ che ti somiglia davvero tanto si era giustificato, sfuggendo i
suoi occhi divertiti.
Nient’altro. Non importava. Non importava davvero.
«Hai presente il Salmo, no? Quello famoso, dai, che
recitano sempre nei telefilm. Ecco. Non mi interessano i pastori, né essere una
pecora –Guarda, poi, la considerazione che hanno gli Dei di quei poveri
animali» Stark indicò il montone rattrappito ai loro piedi «Per quel che mi
riguarda, è grazie a te se non manco
di nulla. Pascoli erbosi, acque tranquille…Ti sembro forse un texano? Mi basta
sapere di tornare alla Tower vivo, con te
al mio fianco, stravaccarmi sul divano a guardare qualsiasi baggianata
passino in televisione solo per poterti osservare mentre leggi un libro –Cristo Santo, Steve, i kindle li hanno inventati per un motivo!-, con
la testa appoggiata sulle mie ginocchia. Sarò fazioso e di parte, lo ammetto,
ma ad avermi tirato fuori dalla “valle oscura”» mimò le virgolette con le dita «Dell’alcool
sei stato di nuovo tu. Sei sempre tu.
Ad apparecchiare la mia mensa, a cospargermi d’olio –E qui ci fermiamo per amor della tua pudicizia- sei sempre tu. E’ nella tua casa che voglio abitare per lunghissimi anni…» riprese fiato e
alzò gli occhi ad incontrare gli occhi di Steve «Che ne dici? Secondo me
farebbe un figurone come promessa»
E da come l’altro lo guardò esterrefatto, Tony capì
di essersi fatto sfuggire troppo
nell’enfasi del momento. Si morse la lingua e si schiarì la voce, ma era già
troppo tardi.
«Tony. La tua era una pro---»
«---vocazione.
Ti sfido a restare rintracciabile fintantoché…» corrugò la fronte «Steve»
Il Capitano dovette cogliere la preoccupazione della
sua voce, perché abbassò gli occhi e subito arretrò, un’esclamazione sorpresa
appesa alla bocca: gli stivali si stavano liquefacendo e così i guanti e la
divisa, macchie incolori s’allargavano a dismisura sul petto, sulle gambe, le
vene si ritraevano con un sibilo guizzante e al loro posto serpeggiavano di
nuovo le liane rosate e malaticce.
«Cosa…» Rogers diede due poderose manate alle
chiazze oleose che andavano impadronendosi del suo corpo, della sua volontà, ma
invece di rallentare il processo, finì col peggiorarlo «No! No! No!»
«Il tuo tempo è finito, Steven.» Ermete gli fu
accanto, con velocità pigra ed indolente –Di chi sa, di chi può ogni cosa solo schioccando le dita.
«Hai ingannato l’Ade troppo a lungo, Caronte attende il suo obolo»
È troppo presto! Avrebbe voluto replicare Stark,
ma il vuoto gli aveva attanagliato il cuore e distrutto lo spirito e la voce
non usciva Non mi avete fatto parlare con
lui non un attimo, non un minuto, non un istante! Non portatelo via! Non ancora!
«Non bere!» urlò, invece, per sovrastare il roboante
silenzio dentro al petto «Se berrai la loro acqua dimenticherai ogni cosa e
allora, a quanto pare, non potrò più salvarti –Bello sapere le cose in tempo
utile, no?» un sogghigno nervoso «E continua a parlare. Non smettere. Parla a
te stesso, parla con me, ma con nessun
altro. Rimani attaccato a questa vita o non sarò più capace di ritrovarti.
“Te lo prometto, Steve. Ti porterò via da qui.»
Un quieto sorriso sollevò la bocca del Capitano, di
cui non erano rimasti che gli occhi cerulei e labbra –Tutto il resto era
pallore e morte.
«Qui? Dov’è qui? E’ un sogno, vero? Dimmi che lo è, Tony, dimmi che puoi svegliarmi. Dimmi
che non morirò nel sonno. Non permettere a questo vecchio soldato di svanire
così…(13)»
Steve allungò la mano e Tony quasi cadde nel
tentativo di stringerla, di trarla a sé un’ultima volta: crollò carponi nel
fango con le dita che annaspavano e artigliavano e s’aggrappavano al vuoto, all’aria
e all’assenza. Si chiuse nelle spalle con un sospiro e se ne stette in quella
posizione per attimi che gli parvero giorni e mesi e anni. Nemmeno Odisseo osò turbare
il dolore di cui era preda e per questo Stark gliene fu grato.
Se sollevò la testa, fu solo per una voce flautata e
rosa dal rimpianto allo stesso tempo, una voce che il magnate non udiva da
troppo tempo.
«Tony? Oh, bambino mio…!»
«…Mamma.»
***
Castore lo aveva colpito al petto, affondato la
picca proprio come aveva detto.
O forse era stato Polluce? Ah, non ricordava. Tutto
era vago, tutto era confuso tranne il dolore che montava all’altezza del cuore,
un cerchio di fiamme ad arrostire, incenerire lo sterno e i bronchi.
Se non fosse stato per quella voce sconosciuta, tonante
nel ventre della terra, forse lo avrebbero ucciso. Era così debole, in quel
luogo. Non se n’era accorto fin quando il braccio che teneva Mjolnir non s’era
irrigidito e le dita non s’erano piagate, ogni falange coperta da un’escrescenza
di liquido pus biancastro. Era crollato in ginocchio e la vergogna era stata
più forte del ferro che uno dei gemelli gli aveva conficcato nella profondità
delle carni.
Sarebbe morto, sarebbe morto davvero se i due non
fossero stati richiamati da un comando più grande del loro volere –Non ne erano
stati contenti, comunque. L’odio e la rabbia trasparivano come veleno dai volti
altrimenti belli e giovanili.
Anche gli Incantesimi di Amora non erano serviti e…Amora!
Amora? Dov’era, Amora? L’aveva trascinato lei, lei da sola, fino alla sponda
del fiume, al riparo dai trampolieri e dagli spettri lattei, dall’odore
pungente del vino e del sangue. Lei sola, fragile fanciulla, sposa di Incanti,
s’era sobbarcata il suo peso di guerriero e l’infamia di non aver saputo
difendere con onore il nome di Odino e di Asgard.
«Amora…!» la chiamò, ma la voce tonante era più
debole d’un ridicolo pigolio di pulcini. Le parole erano ingarbugliate col
sangue, i suoni con saliva e ristagno fetido di polmoni. Le gambe erano
immobili, le braccia prive di ogni forza. Il mondo non era più grigio, ma
verteva ad ogni istante ad un nero cupo, fumoso, che partiva dall’angolo dell’occhio
e s’allungava su tutta la cornea.
«Amora…!»
«Sono qui. Sono qui, amore mio. Shh…Fa’ silenzio,
mio cuore.» c’era forse qualcosa di più bello, in Asgard, a Midgard, nei Nove
Regni, del suo sorriso incorniciato dall’oro fiammeggiante dei capelli?
…Il sorriso di Jane, sì. Il sorriso di Jane era più
bello del sole, più splendido del cielo e delle cupole a specchio del Palazzo.
Il suo volto di bambina, la sua voglia di sapere, il suo amore per le stelle,
tutto in lei aveva la bellezza divina della mortalità.
Ma non erano di Jane le mani che gli sfioravano le
guance, non di Jane le dita che gli sollevavano la testa per fargli appoggiare
le labbra sull’orlo di una coppa gelida e sbeccata.
«Bevi, bevi, Thor, Figlio di Odino» lo invitò
sibillina l’Incantatrice, ogni sorsata dell’acqua limpida un cerchio alla
fronte e un dolore in meno al cuore «Bevi e scorda ogni vergogna. Bevi e
dimentica ogni affanno…»
Cor Mortem
Ducens
#06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi
Anni
Note
di Fine Capitolo
(1) Per Omero i Cimmeri
sono gli abitanti di una mitica terra oltre l'Oceano - collocata forse
nell'estremo settentrione - perennemente avvolta dalle nebbie, dove non arriva
mai il sole. Su indicazione di Circe, Ulisse nel suo peregrinare per mare, vi
si reca con i suoi compagni, per la nékyia (= l'evocazione dei morti).
Infatti, giunto in quella terra inospitale e tetra, dopo aver celebrato un
sacrificio in loro onore, Ulisse incontra le anime dei morti risalite
dall'Erebo attirate dal sangue dei sacrifici eseguiti e interrogherà lo spettro
dell'antico indovino Tiresia che gli rivelerà il suo futuro. (Wikipedia)
(2)”oltre il popolo e la città, di nebbia e nubi
avvolte” (Omero)
(3)La frase è ripresa
dal Kolossal di Franco Rossi: “Divinità
dell’Ade e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò
a ritornare ad Itaca, io prometto di immolarvi la più grassa delle vacche
sterili e di colmare il rogo di ricche offerte. E per Tiresia a parte
sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei nostri greggi.”,
a sua volta facente capo ai versi dell’XI Libro dell’Odissea:
Addotto
in su l’arena il buon naviglio,
E il montone, e la pecora sbarcati,25
Alla corrente dell’Oceano in riva
Camminavam, finchè venimmo ai lochi,
Che la Dea c’insegnò. Quivi per mano
Euriloco teneano e Perimede
Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,30
Scavai la fossa cubitale, e mele
Con vino, indi vin puro, e lucid’onda
Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste35
Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,40
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.
(4)Secondo la credenza
etrusca, i trampolieri sono animali psicopompi.
(5) I fiumi Cocito, Lete
e Piriflegetonte, confluenti dell’Acheronte, un ramo dello Stige. Nel
Piriflegetonte, secondo quando ci racconta Platone, erano immersi i parricidi e
i matricidi.
Circe, nell’Odissea, ordina all’eroe
di compiere il sacrificio ai defunti nei punto in cui si uniscono Cocito e
Piriflegetonte.
(6) Castore e Polluce
sono i fratelli di Elena, figli di Zeus e Leda –O, secondo un’altra versione
del mito, anche di Tindaro. Per questo, solo Polluce ed Elena sarebbero veri
immortali, Castore, invece, sarebbe no.
Sono rappresentati come giovani nudi,
tranne che per il pilos sul capo, a cavallo, con una stella sulla fronte e
dotati di lancia.
Che siano custodi dell’Oltretomba è
un espediente ripreso dalla cultura etrusca.
(7) Il termine
“barbaros” …Bhè, si rifà effettivamente all’atto di “balbettare”, ossia
l’incapacità degli stranieri di pronunciare a dovere le parole in lingua greca!
(8) Secret War
(9) I Persiani, Eschilo.
III Episodio.
La Hybris è la tracotanza, l’Ate la
disgrazia.
(10) Marvel Now!Capitan America #1
(11) Da noi in Italia “Sex
List”. Film inguardabile…Tranne per Chris Evans!
(12) La Messa in latino
è stata tolta solo nel 1969.
(13)
(Captain America v1, #437)
Note
Finali
YEEEEH! Sono tornata! Vi sono
mancata, vero?
Oddio, sono così stravolta dalla
stesura di questo capitolo da essermi dimenticata quello che vi volevo dire, a
parte che le due scene R-18 narrate vengono da due role con la mia Tony Stark
di fiducia e che non intendo mancare di rispetto a credenti o meno, intesi?
E’ un’opera di fantasia, cosa e chi rappresenti il mio pensiero religioso è un
segreto di Stato che non deve andare a lederà la storia, ma soprattutto la
vostra sensibilità : )
Ringrazio Alley e Shi_Tsu_Geass per
aver recensito!
Alla prossima!
(Che sarà fra un po’ visto che a
Settembre parto per altre due settimane di scavo.
OOOOOPS.)