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Autore: Euachkatzl    28/08/2013    3 recensioni
2013: la rivista Rolling Stone decide di pubblicare una biografia di uno dei gruppi rock più grandi di sempre, i Guns n' Roses. Ogni ex componente del gruppo viene intervistato singolarmente, vengono poste loro identiche domande. Ad una, però, rispondono tutti allo stesso modo.
"Un periodo della tua vita al quale vorresti tornare?"
"Febbraio 1986"
Ma che è successo, nel febbraio 1986?
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Quando sono ormai le due di notte, i Ramones finiscono finalmente di suonare e si rinchiudono nei camerini, pronti a dare il via alla vera festa. Prendo Duff per mano e li seguo, chiudendo la porta alle mie spalle.
“Avete presente quella sfida di bevute che abbiamo fatto tanto tempo fa?” si illumina Joey, che ha sulle ginocchia una biondina assai poco interessata a quello che sta dicendo.
“Certo, l’ho vinta io” dico alzando la mano.
“Solo perché io avevo bevuto già da prima”
“Non è vero, è perché io reggo l’alcol meglio di chiunque”
“Meglio di me?”
Mi volto verso Duff, che è seduto al mio fianco sul divanetto mezzo sfondato del camerino.
“È una sfida?”
Joey non poteva sperare di meglio.
“Signori, si va al bancone”
Tutti insieme usciamo dal camerino e torniamo nel locale vero e proprio, dove un altro gruppo si sta esibendo, tra l’indifferenza del pubblico, ubriaco o strafatto.
“Non ne ho mai perso una, di queste sfide. Non vorrei mandarti in coma etilico, ci tengo a te”
Il biondo mi fa l’occhiolino.
“Il mio soprannome è ‘il re della birra’, non so se hai afferrato”
“Andiamo giù pesanti in queste sfide, niente birra amore mio” se la ride Joey mentre mi siedo su uno degli sgabelli davanti al bancone nero.
“Allora, funziona così” si mette a spiegare il cantante “a ogni bicchiere, vi faccio una domanda personale, che sapete per forza. Il primo che risponde sbagliato, ha perso. Tutto chiaro?”
“Chiarissimo”
“Ma come fai a sapere se lui dice la verità?” chiedo, indicando Duff.
“Controlliamo noi”
Mi volto e vedo che alle nostre spalle ci sono Izzy, Slash e Steven, che a quanto pare ci stavano ascoltando da un bel pezzo.
“Che ci fate qua?”
Steven si gratta la testa.
“È una mia idea. Volevo vedere il regalo di Duff”
Ridiamo. Arriva il primo cocktail. Duff lo butta giù tutto d’un fiato, io lo bevo lentamente.
“È una tattica?”
“Io me le gusto, le cose che bevo”
“Oooook, prima domanda” comincia Joey “Visto che siamo al primo bicchiere una difficile. Nome dell’ospedale dove siete nati”
“Ehi, io non la so questa” si lamenta Duff.
“Hai perso” sorrido soddisfatta.
“No, vabbè, cambiamo domanda. Non possiamo buttarlo fuori alla prima” Joey ci riflette un attimo su “Canzone preferita? Mi dovete cantare la prima strofa”
“She was a girl from Birmingham, she just had an abortion, she was a case of insanity, her name was Pauline she lived in a tree… Se volete ve la canto tutta”
“Bodies” decreta il cantante. Batte la mano sulla spalla di Duff. “Biondone, mi piaci sempre di più. Jeanette?”
“Every time I look in the mirror, all these lines on my face getting clearer, the past is gone, it went by, like dusk to dawn, isn’t that the way, everybody’s got the dues in life to pay”
“Dream on”
“Dream on” confermo, sospirando. Fottiti, Steven Tyler, mi lasci per strada e io continuo ad amare le tue canzoni.
Secondo giro di cocktail, seconda domanda.
“Voto con cui siete usciti dal liceo”
“63, e un calcio in culo per farmi uscire più velocemente”
Io rido.
“Io non sono uscita dal liceo”
“Tu non ci sei neanche entrata, al liceo” mi sfotte Joey.
Continuiamo così per non so quanto tempo, non so quanti cocktail, non so quante rivelazioni piuttosto scomode che tanto non ricorderò. Fatto sta che l’ultima domanda è stata: il vostro cognome?
“Isbell” urlo io, scaldata da tutta quella roba che ho bevuto. Riesco ancora a connettere cervello e lingua, ammirevole.
“Ottantatrè” dice Duff, appoggiando poi la testa sul bancone per cercare un po’ di refrigerio.
“Hai peeeeeeeerso”
 
Cazzo, ma questo bancone non è per niente fresco. Mi alzo, barcollante, Jeanette si appoggia a me e mi dice che vuole seguirmi. Con una mano costantemente sul bancone, giusto per non schiantarmi a terra, arrivo alla porta sul retro. Sono andato nella direzione sbagliata. Ma chissenefrega, è una porta, ed è aperta. Va più che bene. Jeanette mi lascia e fa per uscire, ma non si accorge dello scalino appena oltre l’uscio. Stramazza faccia a terra, ridendo come una cretina.
“Che cazzo fai?” le chiedo. Mi sembra la domanda più adatta. O forse no. Forse dovrei aiutarla a rialzarsi. Forse si è fatta male. Ma sta ridendo, non può essersi fatta male. Ma non si muove, forse è perché si è fatta male.
“Sto abbracciando il pavimento” urla lei, e si gira sulla schiena, tendendo le braccia verso di me. Afferro le sue mani graffiate e la tiro in piedi. Forse troppo velocemente. Perde l’equilibrio e si appoggia su di me, che come stabilità sono messo peggio di lei. Sento il cemento duro sotto la mia schiena, per un attimo mi manca il fiato. Jeanette è sopra di me, beatamente accoccolata sul mio petto.
“Sento il tuo respiro” mi sussurra. Porto le mani dietro la testa, visto che il cemento è davvero scomodo, e mi metto a fissare le stelle. Un giorno che non mi ricordo, ad un’ora che non so, in un anno a me sconosciuto, mi metto a fissare le stelle.
“Sono belle le stelle stasera, no?”
Sento Jeanette voltare la testa.
“Non vedo un cazzo” si rialza e si appoggia al muro, giusto per non cadere di nuovo. Dopo due voli, ha capito di aver bisogno di un appoggio. Cammina lenta, rasente al muro.
“Dove vai?” le urlo. Non mi risponde. Mi alzo anch’io e la raggiungo.
 

Finalmente sono riuscito a guardarmi Shining in santa pace. Senza Slash che chiede di vedere qualcos’altro ogni cinque secondi, senza gente che commenta ogni scena o chiede quando arriva il momento più pauroso. Mi alzo dal divano e faccio per andare in camera, quando sento la porta aprirsi e tre ragazzi piuttosto allegri entrare.
“Finalmente! Dove cazzo eravate andati?”
Izzy, Steven e Slash si buttano a peso morto sul divano.
“A vedere il regalo di Duff”
“E cos’era?”
“Concerto dei Ramones”
“E sfida di bevute” aggiunge Slash divertito. Lo guardo storto.
“Ha vinto Jeanette. Duff non fa di cognome ottantatrè” spiega Steven, convinto che adesso io abbia capito tutto.
“E adesso dove sono?” chiedo.
“Bo, in giro” il biondo fa spallucce e va in bagno.
Duff e Jeanette sono in giro. Ubriachi. Duff più ubriaco di Jeanette. Jeanette che riesce a malapena a biascicare il suo cognome.
“Vado a farmi un giro” dico con più naturalezza possibile, sperando che nessuno noti che sono le cinque di mattina.
 

“Guarda, c’è carotina” urlo indicando un’ombra che avanza verso di noi.
Siamo in un parco pubblico, Duff seduto a gambe aperte a dormire contro un albero e io accoccolata addosso a lui. Abbiamo una panchina di fianco. Ma noi siamo seduti contro quest’albero, con i pantaloni fradici a causa dell’erba bagnata. Viva le sbronze, insomma.
“Buongiorno, eh” saluta Axl fermandosi di fronte a noi. Mi alzo in fretta e mi appoggio a lui per non cadere.
“Macciao”
Appoggio la testa su una sua spalla, chiudo gli occhi.
“Mi gira la testa”
“Tranquilla, adesso ti porto a casa”
E dimenticandoci completamente di un Duff in coma profondo, ci avviamo verso casa.
 
Mi sveglio e mi ritrovo contro un albero, in un parco di non so che quartiere, con davanti a me le scarpe di Jeanette. Di vernice rossa, aperte sul davanti. Alte qualcosa come otto metri e mezzo. Mi guardo un po’ in giro, la moretta dev’essere qua intorno. Ho un giramento di testa piuttosto forte, un senso di nausea mi assale. Appoggio il capo all’indietro contro il tronco, lentamente. Chiudo gli occhi. No, pessima idea. Li riapro. Respiro lentamente, prendo grandi boccate d’aria e le butto fuori. Manco stessi partorendo. Mi rialzo, raccolgo le scarpe rosse e con tutta la calma del mondo, tenendo la testa più ferma possibile, esco dal parco e giro a sinistra, sperando che sia la strada giusta per casa.

 
“Ma stiamo davvero andando a casa?” mi chiede Jeanette, che cammina piano, appoggiata a me.
“No”
“E dove stiamo andando?”
“In un bel posto”
“Tu ci credi nel paradiso?”
La guardo storto.
“Che?”
Lei, per tutta risposta, si mette a ridere. Una risata ubriaca. È andata, ormai.
Arriviamo nella vecchia zona industriale di Los Angeles. Piena di capannoni abbandonati e vuota di gente. Mi è sempre piaciuta.
Entriamo in un edificio con una gigantesca vetrata sul soffitto. Qualche vetro non c’è più, qualcuno giace a terra in mille pezzi. Spingo Jeanette contro una parete, faccio scorrere le mie mani lungo la sua vita, i suoi fianchi. Le bacio l’ombelico che il top dorato lascia scoperto. Afferro con decisione l’orlo dei pantaloni aderenti che indossa e lo faccio scendere sempre di più, accompagnato dalle mie mani. Mi piego sulle ginocchia, faccio arrivare i pantaloni ai piedi minuti della ragazza. Lei, collaborativa, li alza uno alla volta, permettendomi di sfilarle facilmente i fuseaux. Non porta le scarpe. Non l’avevo notato. Qualche filo d’erba è intrappolato tra le sue dita. Mi rialzo, sul volto di Jeanette un sorriso enigmatico, qualcosa tra la malizia, la soddisfazione, la sottomissione, la sbronza. Sei strana, ragazza. Infilo una mano nelle sue mutandine, strappandole un sussulto. Comincio a massaggiarle il monte di venere, mentre l’altra mano si appoggia su un suo seno, coperto dal top che non ho pensato di togliere. Jeanette piega la testa all’indietro, inarca la schiena, avvicina i suoi fianchi ai miei. Il suo respiro è affannoso, e resta tale anche quando porto le mie labbra sulle sue, facendo scivolare la mano appoggiata sul suo seno fino alla schiena, avvicinandola ancora di più a me. L’eccitazione sale velocemente, muovo più veloce le dita sulla sua intimità, cerco di andare più a fondo. Jeanette non fa nulla. Si lascia baciare, si lascia usare. Usare. Io la sto usando. È ubriaca, mi sta lasciando fare. È inerme. La allontano da me. Lei mi guarda con uno sguardo smarrito.
“Dai rivestiti, andiamo davvero a casa”
Lei, obbediente, indossa i pantaloni e mi segue fuori dall’edificio, fuori dalla vecchia zona industriale, fino a casa.
Mi sento una merda.

 
“Alleluia, siete tornati” è lo pseudo saluto di Steven, che guarda la tv con una terrina di pop corn in mano.
“Ho sonno” dico, e vado verso la stanza di Steve e Duff, trovando la pertica addormentato beatamente sul suo letto. Sorrido e mi lancio sull’altro letto. Mi gira la testa, mi viene da vomitare, ho voglia di cioccolato. Anzi no, ho voglia di fragole. Di frullato alle fragole.
“Axl…” muguno.
“Axl…” chiamo più forte. Il rosso arriva in camera, con una faccia mogia.
“Ho voglia di frullato alle fragole. E di cioccolata. E di un biscotto”
Mi guarda allampanato, come se gli avessi chiesto la luna.
“E di tanto sonno” aggiunge lui, uscendo dalla stanza chiudendo la porta alle sue spalle.
 
Mi butto sul divano, che strano ma vero non è occupato da nessuno. Steven è appena sloggiato, è andato in cucina. Chiudo gli occhi e ascolto pigramente la musica che danno alla tv. Mi rigiro sul sofà un paio di volte, prima di addormentarmi, ascoltando una canzone che non conosco ma che mi piace davvero molto.
 
Il mal di testa è passato. Sparito. E con il mal di testa tutto il resto di dolorini vari. Guardo fuori dalla finestra della mia stanza. Il sole ormai è tramontato. Saranno le sei, le sei e mezza. Mi volto per andare in cucina a mangiare qualcosa e mi accorgo di Jeanette sul letto di Steven, che dorme tranquilla. È bellissima. I capelli neri sparsi sul cuscino bianco, un sorriso pacifico sulle labbra. Le braccia raccolte vicino al viso, le gambe piegate al petto. Come faccia a dormire in una posizione del genere non lo so.
Nel mio tragitto verso un panino, o un piatto di pasta, o qualsiasi tipo di cibo presente in cucina, mi imbatto in Axl sul divano, anche lui addormentato beato. Che è, che in questa casa dormono tutti già alle sei?
Dalla cucina arriva un rumore di vetri rotti, un paio di parolacce e un’imprecazione, il tutto accompagnato da Steven che esce incazzato borbottando qualcosa. Entro nella stanza e vedo Slash che mi guarda disperato.
“Le bende?”
“Bende?”
Lo guardo storto, poi velocemente esamino la situazione in cucina. Vetri rotti per terra, Saul che schizza male e Izzy che si tiene un polso, che sta sanguinando in modo alquanto preoccupante.
“Va bene Saul, tu esci, ci penso io” tento di prendere in mano la situazione, nonostante mi sia appena svegliato, mi sia appena ripreso da una sbronza assurda e abbia una fame da lupi. So quanto Slash abbia paura del sangue, meglio non farlo rimanere troppo tempo vicino al polso di Jeff.
Visto che di bende, cerotti, disinfettante o qualsiasi cosa utile in casa nostra non c’è ombra, prendo la prima maglietta che trovo in salotto e improvviso una fasciatura. Potevo fare il medico del pronto soccorso, non il bassista.

 
La porta della camera sbatte molto poco elegantemente e mi fa svegliare di colpo.
“Scusa. Non sapevo che eri qui” si affretta a dire Steve, il più dolcemente possibile, ma si vede perfettamente che è incazzato nero.
“Che è successo?”
Mi strofino un occhio, ritrovandomi con le dita sporche di mascara, eyeliner e qualsiasi schifezza mi ero messa in faccia.
“Ma niente, stavo prendendo un bicchiere ed è arrivato Izzy, mi sono spaventato e mi è scivolato e poi bo, si è rotto, Izzy si è tagliato e poi è arrivato pure Slash e mi ha detto su come al solito”
“Ma niente di grave? Cioè, non è che mio fratello ci resta secco, vero?” tento di buttarla sullo scherzoso. In fondo è solo un bicchiere rotto, che cazzo può aver fatto ad un ragazzo come Jeff? La testa di Duff fa capolino dalla porta aperta.
“Ci serve qualcuno che ci accompagni in ospedale”   
Confusa, seguo il biondo fuori da casa, fino all’auto.
“Stacci tu vicino a lui, io guido”
Mi siedo sui sedili posteriori, di fianco a Jeff. Ha una maglietta legata alla buona intorno ad un polso. Una maglietta bianca. Che lascia intuire perfettamente che un bicchiere rotto può far molto male anche ad un ragazzo come Jeff.
“Jeanette, che cazzo hai fatto a tuo fratello?”
“Niente, è scivolato da solo”
“E come mai hai un pezzo di vetro in mano?”
“Jeff è scivolato su questo”
È lo stesso polso, cazzo. Lo stesso. Nello stesso identico punto. Slaccio delicatamente la maglietta, mio fratello fa una smorfia di dolore.
“Che cazzo fai?”
“Lascia, te la metto meglio”
Un segno netto, profondo, che prende di taglio un paio di vene. Appena sotto, la cicatrice che Jeff porta da quando aveva otto anni. Da quando gliel’ho fatta io.
 
Arriviamo in ospedale e ci fiondiamo al pronto soccorso, dove una ventina di persone sta aspettando il proprio turno.
“Ne abbiamo qua, di tempo da perdere” commenta Duff. Io intanto sono in preda al panico. Non che abbia la fobia del sangue o cose simili, ma ho una specie di paura che mi ha preso e mi fa stare sempre più male. Potrei spiegarla come paura di essere di nuovo mandata in collegio. Solo che questa volta mi peserebbe tanto. Tantissimo. Perché questa volta ho una famiglia, o degli amici, o come cazzo li voglio chiamare, che mi vogliono bene. O almeno, a cui io voglio bene. Che poi non so perché mi sto facendo questi problemi, non sono stata io a far male a Jeff. Ma è una situazione così simile.
Un medico passa di fianco a me, lo prendo per un braccio e lo prego di fermarsi. Tento di spiegargli rapidamente la situazione, ma ne viene fuori un racconto confuso e distorto, che mi fa ottenere solo la compassione del dottore.
“Stia tranquilla, signorina. Si sieda e aspetti il proprio turno”
“Ma gli dia almeno un’occhiata. Che cazzo ci fa qui, ci gioca? Non sono al pronto soccorso per aspettare il mio turno”
Esasperato, il medico slaccia la maglietta intorno al polso di Jeff e osserva la ferita per circa un millisecondo.
“Codice bianco, secondo reparto sulla destra”
Sospiro, stanca, mi porto una mano sul viso. Duff mi passa un braccio intorno alla vita e insieme a Jeff andiamo dove ci ha indicato il dottore. Un’altra ventina di persone ci fissa.
 
Non c’è nessuno. Di nuovo. O forse no. No, da camera mia arriva una melodia, suonata con la chitarra. Sorrido. Jeff. Apro la porta e invece trovo Slash seduto sul suo letto, la schiena appoggiata al muro, che strimpella la sua chitarra classica.
“Ci sei solo tu?”
Scuote la testa.
“Steve è in camera sua. Ha fatto cadere un bicchiere e Jeff si è tagliato. L’hanno portato in ospedale”
Faccio di sì con il capo, poi vado in cucina, dove dei vetri rotti sono sparsi per il pavimento. In fretta, prendo la scopa e li elimino. Non è mai bello avere vetri rotti per casa. Dopo essermi assicurato di aver ripulito tutto per bene, mangio un paio di biscotti, l’unica cosa pronta in cucina, e vado a farmi una doccia. Chissà che tornino presto, quei matti.
 

Sono ore che aspettiamo in questo cazzo di reparto. Sono ore che ste venti persone sono ancora davanti a noi. O non c’è un dottore o il tizio che stanno medicando è davvero messo male. Ad un certo punto, un uomo in camice bianco dall’aria un po’ stravolta fa capolino dalla porta alla fine della sala.
“Il prossimo?”
Una signora, che tiene in braccio una bambina bianca come un lenzuolo, si dirige verso la porta ed entra nella stanza, dalla quale esce subito dopo una ragazza bionda, sulla ventina, con la faccia stravolta tanto quanto quella del dottore e i capelli arruffati. Tranquilla, ci sfila davanti. Dalla borsetta rossa si intravedono un paio di collant. Il suo perfetto equilibrio su un paio di tacchi vertiginosi mi fa intuire che non si trovasse lì per un’emergenza. Un’emergenza del dottore, casomai. Ci saluta, con tanto di occhiolino a Duff, e se ne va, beata e pacifica.
Troia.
 
  
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