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Autore: chocobanana_    29/08/2013    1 recensioni
[GerIta/SpaMano/FrUk/Altre Pair][Fantasy/Angst/Sentimentale][Giallo][AU][Het/Yaoi]
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Succede che qualcuno senta il bisogno di scappare da tutto, dal male che la vita gli infligge, e allora si cerca rifugio in qualcosa.
Può essere un amore, un’amicizia, una casa, qualsiasi cosa che porti conforto.
Poi c’è chi chiede alle pagine di un libro di divenire la propria realtà e non essere più fantasia.

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La testa gli faceva male, come se stesse per scoppiare da un momento all’altro.
Si chiese in quale bizzarro modo fosse arrivato in mezzo a quel prato, anzi, giardino.
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camy
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland, Nord Italia/Feliciano Vargas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2
 
Perché sono tutti gelosi delle proprie rose?

 

 
Ispezionava con ira i vetri rotti che giacevano ai suoi piedi; ad ogni passo che faceva si udivano gli scricchiolii del materiale calpestato.
Si avvicinò alla finestra rotta, si sporse, esaminando la porzione di terreno che riusciva a vedere. Notò tra i cespugli un oggetto che sembrava essere rettangolare.
Era il vassoio nero su cui Matthew aveva poggiato la cena del loro ospite.
Gli occhi smeraldini di Arthur si posarono sui grandi rami dell’albero che aveva di fronte: sicuramente era sceso da lì.
Ma non poteva essere andato lontano, non da solo.
Si voltò verso la porta aperta, e si avvicinò lentamente al ragazzo poggiato al candido muro.
«Matthew.» Lo chiamò. Il biondino rabbrividì sentendo pronunciare il suo nome con quel tono tanto gentile quanto falso. «Spiegami cosa ci faceva quel vassoio ancora qui.» Sul suo volto non c’era nessun sorriso, solo l’ombra di una rabbia che cercava di contenere.
Matthew deglutì, rendendosi conto di non poter indietreggiare. Strinse il suo orsetto bianco tra le braccia, ricordandosi di tutte le volte in cui aveva provato paura nel sentirsi osservato da quegli occhi verde brillante.
In quei giorni lontani si rassicurava cercando la mano del proprio fratello, adesso avrebbe trovato solo il vuoto.
Ogni volta che si sentiva spaventato da Arthur, cercava di riportare alla mente i motivi per cui non aveva accettato la proposta di Alfred, e nemmeno quella di Françis, arrivata qualche mese dopo.
Aveva deciso di sua iniziativa di rimanere al fianco dell’inglese, perché, in fondo, non poteva non volergli bene. E per quanto si fosse inasprito, rimaneva sempre lo stesso Arthur che li aveva accolti qualche anno prima, mentre scappavano dalla città. Matthew non avrebbe mai dimenticato quella mano che si era tesa verso i suoi occhi spalancati, che aveva stretto senza pensarci un minuto.
Alfred era stato più scettico, era sempre stato più ribelle, incline ad una libertà che non era riuscito nemmeno a sfiorare, a suo avviso.
Matthew non aveva idea di cosa volesse davvero suo fratello, ma spesso sentiva la sua mancanza, e allora si accoccolava contro il muro, seduto sul letto, e gli sembrava di avere davanti agli occhi due ragazzini che, seduti sul pavimento, si divertivano a discutere e giocare.
«Io… » Quello con gli occhi violetti cercava le giuste parole da far uscire dalle proprie labbra. Non sapeva se avrebbe dovuto accennare alla lunga chiacchierata che aveva avuto con lo “straniero.”
Conosceva Arthur, ma quello che aveva davanti non era lo stesso, non sapeva come avrebbe reagito, anzi, forse lo sapeva fin troppo bene.
Le dita del più grande scivolarono su di una guancia pallida di Matthew, un tocco delicato e leggero che turbò non poco l’altro.
«Tu…?» Chiese, curioso di sapere cos’avrebbero udito le sue orecchie.
«Dovresti lasciarlo in pace, non credi?» La voce pacata di Françis risuonò nella stanza. L’uomo dai capelli biondi attraversò l’uscio della porta e lanciò un’occhiata seria ad Arthur, poi il suo sguardo si spostò su Matthew, che se ne stava rannicchiato contro la superficie bianca e liscia alle sue spalle.
«Non dovresti spaventare una delle poche persone che ancora ha la voglia di girare per questo castello.» Affermò. Gli occhi violetti di Matthew cercarono quelli blu dell’altro, come a volerlo ringraziare.
«Ancora qui?» Arthur si voltò verso di lui, lanciandogli uno sguardo ostile. «Ti avevo detto di andartene.»
Françis lo ignorò, poi notò la finestra rotta e sorrise compiaciuto. Forse non c’era stato bisogno di far arrivare Antonio e Gilbert fino al castello, che, probabilmente, avevano già incrociato il ragazzino con gli occhi nocciola.
L’inglese vide quel sorriso sghembo e irritante farsi spazio sul viso del francese, non ci ragionò molto. Arrivò subito alla conclusione che Françis ne sapesse qualcosa.
«Sei stato tu.» Disse, adesso il suo viso era a pochi centimetri da quello dell’altro.
Françis sentiva il suo respiro caldo sulla pelle. «Io? Ma se sono sempre stato qui.» si giustificò, fingendosi offeso per quell’accusa.
«Ma tu c’entri qualcosa.» Asserì, assolutamente convinto delle proprie parole.
Matthew osservava quel confronto, spostava lo sguardo dall’uno all’altro e sentì la nostalgia avvolgergli il cuore.
Li aveva sempre visti litigare, contraddirsi, discutere, ma era tutto diverso. Prima Arthur non lo guardava in quel modo, anzi, i suoi occhi s’illuminavano quando Françis si sedeva al suo fianco e gli faceva compagnia.
Quando ciò accadeva, molta più gente frequentava quella fortezza, e lo stesso Françis era il benvenuto all’interno di quelle mura.
Arthur aveva sempre avuto un caratteraccio, ma, in fondo, anche lui aveva dei sentimenti.
E non era raro intravedere un lieve rossore sulle sua guance o un accennato sorriso sulle labbra.
Ad Alfred aveva riservato spesso quell’espressione sollevata e serena.
Poi era venuto il buio. Intere nottate a vagare per i corridoi della rocca, quelle in cui Matthew e Alfred passavano a squadrare l’inglese, chiedendosi cosa avesse.
Arthur sembrava perennemente stanco, il viso pallido, violacee occhiaie sotto gli occhi. Iniziavano a vedersi sempre meno persone.
Cominciavano le urla, i finti sorrisi, le apparenti gentilezze, la ricerca di un qualcosa che il biondino dagli occhi viole ancora ignorava.
Apparvero quelle rose, quelle grandi siepi ornate con quei fiori eleganti e colorati.
Era proibito avvicinarsi a quel giardino.
Françis si vedeva sempre più di rado, e l’ultima volta che passò di lì, Alfred era già andato via. Quel mattino Matthew decise che sarebbe rimasto al fianco di Arthur.
Il francese gli aveva lanciato un’occhiata perplessa, poi aveva sorriso, intuendo i motivi del ragazzino.
Matthew sapeva il mistero delle rose, ma non aveva idea del perché l’inglese fosse cambiato tanto.
Quando l’aveva chiesto a Françis, lui era rimasto in silenzio. Aveva alzato le iridi blu verso l’orizzonte e aveva scosso la testa, come se non avesse avuto le parole necessarie a raccontare l’accaduto.
«Matthew, puoi andare.» Mormorò Arthur. «Parliamo dopo.» aggiunse.
Françis sorrise a Matthew, quest’ultimo strinse Kumakjirou e uscì di corsa, mentre il cuore gli batteva all’impazzata.
«Noi, invece, dobbiamo parlare.» Gli occhi verdi dell’inglese puntarono quelli blu dell’altro uomo, che sospirò.
«Me lo immaginavo.» Scosse la testa, consapevole che non sarebbe tornato presto da Gilbert e Antonio.
Eppure era curioso di conoscere questo nuovo “straniero”.
 
♣♣♣♣
 
Feliciano appoggiò le labbra alla ciotola azzurrina che gli era stata data. Sentì il latte caldo inumidirgli le labbra e poi invadergli la bocca, per poi scivolare lungo la gola.
Una ragazza dai lunghi capelli castani se ne stava seduta di fronte a lui, gli sorrideva intenerita. Lo aveva subito accolto in casa, senza fare domande.
Feliciano era stato scortato da Gilbert e Antonio attraverso una fitta foresta, appena usciti avevano intravisto piccole casa in lontananza.
Le abitazioni erano dipinte con colori chiari, quasi smorti. Feliciano si era sentito confortato, vedere persone che facevano compere, che portavano a giocare i propri bambini, che parlavano per le piccole vie della città lo rassicurava.
Non aveva parlato molto, per quanto lui amasse discorrere e fare amicizia.
Aveva notato che, molte volte, gli abitanti si voltavano ad osservarlo, poi mormoravano qualcosa. Ma tutti, dopo poco, tornavano alle loro commissioni.
Il castano aveva abbassato più volte lo sguardo verso il terreno brullo e ghiaioso, mentre ad ogni passo si alzava una leggera polvere.
Anche Gilbert e Antonio erano rimasti zitti, nonostante avessero litigato per tutto il sentiero che oltrepassava il bosco.
Non appena ebbe bevuto tutto, Feliciano lanciò un’occhiata alla ragazza, ricambiando il suo sorriso.
«Grazie.» Mormorò, poi si rese conto che tutti, in quella stanza, lo stavano squadrando ed esaminando.
«Come sei arrivato qui?» Chiese la ragazza, prendendo il recipiente ormai vuoto, aveva lasciato il suo posto e  aveva riposto l’oggetto nel lavandino.
«Eliza, magari dovremmo farlo riposare un po’.» Propose Antonio. «Magari puoi fare qualcosa per quei lividi e quei graffi.»
Elizaveta osservò quei piccoli tagli rossastri e quelle chiazze violacee. Prese un panno beige e lo sciacquò sotto ad un fiotto d’acqua fredda.
Poggiò il tessuto sulla guancia dell’italiano, che si morse il labbro per il dolore che gli provocò quel delicato contatto.
«Allora parleremo domani.» Acconsentì la castana. «Non appena sarà tornato anche Ludwig.»
«Dovrebbe tornare stanotte.» Disse Gilbert, serio. Quando Eliza aveva pronunciato quel nome, il ragazzo con gli occhi rossi si era irrigidito.
«Vedrai che starà benone.» Antonio si affiancò all’amico e gli diede una pacca sulla spalla.
«Sono troppo magnifico per essere preoccupato.» Ribatté Gilbert, roteando gli occhi e ridacchiando, mentre cercava di nascondere le sue preoccupazioni.
Ludwig era pur sempre suo fratello minore, era lecito stare in ansia per lui.
«Non fare lo sbruffone.» Lo rimbeccò Eliza. «Sembri solo più idiota del solito.»
Gilbert fece una smorfia e sbuffò. «Sei crudele.» Replicò.
Riusciva a respirare un’aria tranquilla, come se tutti loro stessero provando a non farlo preoccupare. Ma Feliciano sapeva benissimo che c’era qualcosa che non andava: si sentiva a disagio, avvertiva di essere “in più” in quella casa, dato che quei  ragazzi sembrava facessero parte di una sola e unica famiglia, in cui lui non c’entrava nulla.
Ancora non sapeva nulla, aveva voglia di apprendere e capire. Si lasciò accompagnare in un’accogliente cameretta dalle pareti giallognole.
«Una volta era la mia camera.»  Eliza guardava un punto indefinito della stanza, un sorriso malinconico che le adornava il volto.
Feliciano annuì e ringraziò a bassa voce. La castana, dopo averlo salutato, richiuse la porta nera alle proprie spalle.
Il ragazzo sospirò, mentre sentiva la stanchezza impadronirsi di lui.
Le palpebre gli si chiudevano da sole, e le gambe gli tremavano leggermente. I graffi gli facevano meno male.
Si stese sul lenzuolo color panna, e s’infilo sotto le coperte rosa chiaro; si vedeva che quella camera era appartenuta ad una bambina.
La carta da parati era un po’ rovinata, e sul muro c’erano varie mensole di legno, piene di libri, diari, fogli.
Poi c’era una scrivania vuota, beige. Il legno di quest’ultima era tutto imbrattato di scritte nere.
Feliciano ne lesse una in particolare.
“Secondo te perché sono tutti gelosi delle proprie rose?” A quella domanda non c’era nessuna risposta, solo un secco “Non lo so”.
L’italiano si soffermò, poi, ad osservare il soffitto.
Continuava a pensare a quegli eleganti fiori dai petali lisci e colorati, così fieri e fragili, protetti solo da piccole ma appuntite spine.
Chissà perché sembravano essere così importanti. L’avrebbe chiesto ad Eliza, sperando in un responso che non fosse silenzio, aveva bisogno di parole e chiarimenti.
 
♣♣♣♣
 
 Camminava velocemente avanti e indietro, le mani incrociate sul petto.
«Dovresti calmarti, non credi?» gli fece notare Françis, che se ne stava appoggiato al muro, sempre composto, come se le occhiate piene di rabbia di Arthur non gli facessero niente di niente.
Quell’apparente indifferenza non faceva che irritare l’inglese ancora di più.
L’uomo con gli occhi blu c’era già stato male, a suo tempo. Non era più il momento di piangersi addosso e cose simili.
Che poi, perché Arthur ce l’avesse tanto con lui non gli era mai stato del tutto chiaro, semmai, per tutto quello che era capitato, il contrario sarebbe stato giustificato.
Françis lo aveva odiato, e lo ammetteva a se stesso. C’era stato un periodo in cui, se l’avesse visto in giro, gli avrebbe puntato volentieri una spada contro.
Ormai iniziava a pensare che Arthur facesse così perché si sentiva in colpa, perché sapeva di aver fatto qualcosa di orribile; prendersi cura delle rose non significava espiare i peccati commessi, e l’inglese lo sapeva fin troppo bene.
«Come facevi a sapere che era nel mio giardino?!» L’inglese arrestò il passo, poi si voltò verso l’altro. «Spiegamelo.» Ordinò.
«Vedi di abbassare i toni.»
Arthur sbuffò, dischiuse le labbra per ribattere, ma si rese conto di non sapere cosa dire. Françis gli sorrise, serafico.
Attese qualche minuto, poi si avvicinò a quello che una volta era stato suo amico.
«Tutti percepiscono l’arrivo di uno straniero, poi c’è chi sta più attento e sa anche dove arriveranno.» Rispose, facendo spallucce.
Arthur non si era mai spiegato come Françis riuscisse a sentire più degli altri l’aura di quelli che venivano da fuori, ma supponeva che neanche lui lo sapesse con esattezza.
«Dove l’avete portato?» Chiese quello con gli occhi verdi.
«Non penso che mi convenga dirtelo.»
Sfortunatamente Arthur era in svantaggio, si era lasciato sfuggire quel ragazzo da sotto al naso, ma lui odiava perdere e quindi non sarebbe successo.
Si sarebbe rifatto presto.
«Comunque…» Françis gli poggiò una mano sulla spalla. «Da quant’è che ti serve un giardiniere?» Ridacchiò, per poi guardare negli occhi Arthur.
«Non sono affari tuoi.»
Tipica risposta di Arthur, tremendamente prevedibile. L’inglese abbassò lo sguardo sul guanto immacolato che copriva la mano dell’altro.
«Penso di potermene andare.» Mormorò Françis. «Au Revoir.» Aggiunse con un perfetto accento francese.
Un passo e si ritrovò a pochi centimetri dal proprio viso la spada argentea di Arthur.
«Non ho detto che puoi andartene.» Il biondino lo guardava con la coda negli occhi, con aria tremendamente seria. «Mettiti in mezzo e ti ammazzo
Davvero Arthur pensava di intimidirlo? Era abituato a quel genere di minacce da parte sua.
Però, nel momento in cui riuscì ad incrociare le iridi smeraldo del ragazzo, si accorse di qualcosa che non c’era le altre volte.
Spesso, mista a quell’ira inspiegabile, c’era anche una scintilla di fragilità, debolezza.
Una luce fioca che sembrava essersi spenta, perché quell’espressione terribilmente seria sembrava affermare che non si sarebbe fatto problemi ad infilargli una spada nel petto.
«Me ne ricorderò».
Arthur abbassò l’arma e rimase immobile. Sentiva i passi di Françis risuonare sul pavimento di marmo bianco, sentì tutta la propria determinazione sgretolarsi e cadergli addosso, come un macigno.
La porta si chiuse con un grande tonfo. Arthur si abbandonò su di una poltrona di pelle rosso scuro, si sentiva incredibilmente stanco e provato.
Pensava di essersi abituato a quel genere di confronti, ma il cuore continuava a soffrire troppo, come se gli importasse ancora qualcosa del suo vecchio amico.
Françis si bloccò subito fuori la porta, davanti a lui si ergevano eleganti e alte colonne candide e regali.
Nella stanza che aveva appena lasciato aveva respirato un’aria piuttosto pesante, che là fuori sembrava essere sparita completamente.
Il biondo respirò a fondo e scosse la testa. Possibile che restare in quel posto avesse cambiato così tanto le loro vite fino a stravolgerle del tutto?
Il francese sapeva benissimo cosa voleva Arthur, era quello che desideravano tutti.
Uscire da lì.
Ma chissà per quale assurdo motivo, l’inglese aveva deciso di farlo da solo, a modo suo.
Françis sentì l’impellente bisogno di uscire fuori da quell’enorme, quanto opprimente, castello.
Gli rimbombavano in testa le ultime parole che Arthur gli aveva rivolto, continuava a sentire la sua voce pronunciarle, tagliente e ferma.
Si ricordò di tutte le volte in cui gli aveva detto qualcosa di simile, sia per gioco o per scherzo, come quando erano bambini, sia per rancore, come succedeva ultimamente.
 
Arthur sgranò gli occhi mentre Françis usciva da quel piccolo nascondiglio di pietra. «Dove vai?» Chiese, timoroso di rimanere solo.
«Vado a cercare qualcosa per ripararci da questo temporale e tornare a casa.» Rispose l’altro, non accorgendosi dell’espressione preoccupata del più piccolo.
Il francese fece un passo verso l’esterno della cavità, ma venne bloccato dalla mano di Arthur, che gli aveva afferrato la maglietta.
«Sei impazzito?».
Si voltò versò il bambino, che cercò di nascondere il rossore che aveva sulle guance. «Se te ne vai… io ti ammazzo.»
Françis gli sorrise intenerito e gli accarezzò i capelli biondo paglia.
«Non ti lascerò.» Mormorò. Il piccolo inglese trattenne un singhiozzo e annuì.
 
♣♣♣♣
 
.:Angolo dell'autrice:.

Giorno c: 
Finalmente ecco il secondo capitolo di questa fic ♥♥
Come avevo detto nello scorso  capitolo, questo è prettamente incentrato su Arthur, e il suo legame con Matthew, Alfred e Françis. L'ultima parte, quella in corsivo, ovviamente è un ricordo, ed è per evidenziare il cambiamento di Arthur. Diciamo che quando sono bambini, io me l'immagino spesso insieme, anche perché alla fine Françis stava sempre in giro su (?). Quindi Arthur è affezionato a lui, soprattutto perché gli fa compagnia ceh--
Avrei voluto spiegare di più in questo capitolo, ma ho preferito spostare il momento-- Però è palese che le rose siano il punto centrale della fic--
Ho voluto anche spezzare i due momenti tra Arthur e Françis per rendere il tutto meno pesante-- 
Ringrazio Vale e Roby che mi hanno controllato il capitolo, perché gli errori ci sono anche dopo aver riletto 456789 volte-- 
Ringrazio anche Belarus per le due recensioni ♥ e mi scuso se non ho risposto alla seconda-- ;w; e poi grazie a chi ha messo la fic tra le seguite e le ricordate, e a chi ha solo letto.
Al prossimo capitolo, sperando di avervi incuriositi ancora di più. 
camy

 
   
 
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