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Autore: Nina Ninetta    31/08/2013    1 recensioni
June è una ragazza ventenne rimasta a casa per ripassare l'esame universitario di Diritto Romano che l'attende di lì a qualche giorno. Quando tuttavia scende la notte, l’energia elettrica salta a causa di un improvviso e violento temporale estivo che lascerà l’intera cittadina al buio. June soffre di acluofobia, la sua paura più grande quindi è la totale mancanza di luce, un terrore viscerale che le attanaglierà lo stomaco come un serpente. Pur di non restare da sola scenderà a compromessi con sé stessa: accettare la compagnia del suo odiato vicino di casa.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#4
Macchie indelebili e lingue aliene


 
Tornò da me fischiettando ancora il motivetto di quella odiosa canzone.
Sollevai una palpebra e lo vidi sedersi sul pavimento, a gambe incrociate, prese a sciogliere le bende, arrotolate come una braciola. Al suo fianco la luce della torcia illuminò anche il mio animo.
Richiusi le palpebre e me ne stetti buona buona, dalla porta aperta proveniva lo scroscio della pioggia battente e l’afa, che aveva troneggiato nella giornata, stava lasciando spazio a temperature decisamente più fresche.
Lui continuò a fischiettare.
 
La seconda volta che lo vidi fu una settimana dopo che ci eravamo stretti la mano, io nel mio giardino, lui nel suo.
Era una giornata calda, tanto che l’aria condizionata del locale mi aveva fatto venire la pelle d’oca sulle braccia. Ero in attesa del mio caffè e, nel frattempo, tamburellavo le unghie sul bancone di marmo chiaro.
Lessi la scritta sulla maglia della barista voltata di schiena, la frase citava più o meno così “scusate le spalle”. Sorrisi e mi guardai intorno. Quella mattina il bar era abbastanza vuoto, qualcuno se ne stava per fatti suoi al tavolino, a leggere il giornale o perso nel mondo virtuale con il suo notebook, qualcun altro era in compagnia: quattro amiche, due amici, una coppia di fidanzati. Poi le porte scorrevoli si aprirono, scivolando silenziose, e lo vidi entrare. Distolsi lo sguardo all’istante, lasciando che i capelli mi ricadessero in avanti a nascondermi il volto.
Non so perché abbia sentito il bisogno imminente di nascondermi, ma lo feci, d’istinto, pregando che non mi vedesse. Mi metteva a disagio, non volevo incontrarlo, non volevo salutarlo, non volevo parlargli. La barista mi porse il caffè che avevo ordinato, accompagnato da un cioccolatino e un gran sorriso. Ero così preoccupata di non farmi scorgere da Steve che non la ringraziai, bevendolo amaro e bollente!
Pagai, farfugliando qualcosa per farle sapere che poteva tenere il resto, i secondi erano preziosi e io volevo uscire al più presto da quel luogo. Ricordo di aver udito a malapena la voce della barista ringraziarmi, mentre afferravo la borsa sullo sgabello e mi voltavo, sempre e rigorosamente a testa china. Andai a sbattere contro qualcuno e rimbalzai all’indietro.
Alzai il capo fino a vedere il volto candido di una giovane ragazza, avrà avuto venti anni o poco più. Ciò che mi colpì di lei, oltre alla fluente chioma bionda e agli occhi azzurri – di un azzurro intenso e carico – furono i suoi denti perfetti e splendenti. Pensai che potesse essere la promoter di un’azienda di dentifrici. Nonostante avessi le zeppe di dodici centimetri quel giorno, lei mi superava di una buona spanna … e indossava le ballerine!
Mi scusai in fretta e in tutta risposta ricevetti solo un’occhiata infastidita, come se avesse visto una mosca posarsi sulla sua profonda, molto profonda, scollatura, benché, devo ammetterlo, aveva poco da mostrare.
«Buongiorno vicina di casa col nome di un mese!» era la voce di Steve, ovviamente. Mi voltai piano nella sua direzione e abbozzai un sorriso di circostanza
«Tu conoscere?» la ragazza bionda puntò l’indice verso di lui, poi su di me, quindi di nuovo su di lui e su di me, dando conferma all’ipotesi che fosse una straniera e, dall’accento, intuii che doveva essere russa.
E, guarda caso, era in compagnia di Smith.
Da quel momento la mia mente non fece che intimarmi un’unica frase: te ne devi andare.
«Si» lo sentii dire «Siamo vicini di casa» poi si rivolse alla barista e ammiccandole chiese due caffè «Si chiama April» aggiunse tornando a guardarmi, con un sorriso di sfottò.
Lo detestai!
La ragazza russa sorrise e io pensai che con due gambe così – messe in risalto dagli short sfilacciati di jeans – hai voglia di sorridere. E lui con lei probabilmente. D’improvviso il mio metro e sessantacinque mi parve insignificante, la mia pelle abbronzata fuori moda,  i miei boccoli castani perennemente in disordine e i miei occhi color nocciola divennero i “classici occhi color nocciola”.
C’era una cosa di cui andavo fiera, però, per la sua originalità: il mio nome.
«Mi chiamo June!» precisai, enfatizzando il fastidio che provavo, ma fu come se non avessi detto una parola e Smith seguitò con le presentazioni:
«Lei è Yania»
«Yanina!» lo corresse la ragazza bionda con quell’accento tipico, guardandolo di sbieco, dall’alto, era più alta anche di lui.
«Yanina, giusto» Steve le aveva sorriso sapendo di aver fatto una gaffe, ma lei non ricambiò «E’ un’amica russa. E’ qui per lavor-»
«Amica?» Yanina parve cacciare fumo dalle orecchie e quel campanello nella mia testa prese a tintinnare con maggior foga.
Sarei dovuta andare via in quel preciso istante, invece non lo feci.
«Io solo amica?» Steve provò a rimangiarsi quello che aveva appena affermato, ma la ragazza dai lunghi capelli biondi non gli diede né il tempo, né il modo «Io solo amica?» aveva ripetuto, forse quelle tre parole erano fra le poche che riusciva a mettere insieme nella nostra lingua.
Impotente la vidi afferrare uno dei due bicchieri d’acqua che la barista aveva risposto accanto alle tazzine fumanti di caffè e minacciò di gettarglielo addosso:
«Ehi, ehi, Yania! Aspetta un att-»
«YANINA!» urlò lei e quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. In tutti i sensi.
Mirò il getto d’acqua sotto la cinta dei pantaloni, bagnandogli tutto il davanti dei bermuda di cotone blu «Così tu ricordare mio nome!» esclamò poi, mentre Steve si guardava la macchia d’acqua che si andava espandendo a vista d’occhio, proprio lì, in mezzo alle gambe.
Tutti i clienti erano ovviamente rivolti nella nostra direzione, ma non provai vergogna, anzi, mi sembrava che la vendetta di Yanina fosse anche un po’ la mia. Nascosi un risolino dietro la mano destra:
«Tu perché ridere?» guardai la ragazza russa senza sapere bene cosa rispondere e perché mai adesso se la prendeva con me. Scossi il capo, ma non fui abbastanza scaltra da schivare il caffè che mi gettò addosso, sporcandomi appena sotto il seno. Sbarrai gli occhi mentre vedevo il caffè inzupparmi la camicia bianca che tanto adoravo, scostai il tessuto setoso dalla pelle per evitare di scottarmi.
 
Ora tengo a precisare che di solito non sono una persona aggressiva, ma quella mattina avevo imparato che poteva succedere di tutto, come ad esempio incontrare una russa incavolata perché un emerito imbecille l’ha offesa in qualche modo che neanche conosci e che questa, adirata, se la prenda con te gettandoti del caffè sui vestiti. E tutto questo nel bar che frequenti quotidianamente. 
Puntai gli occhi dentro i suoi, mi parvero blu scuro e non più azzurri, inoltre torreggiava su di me:
«Stronza» bisbigliai fra i denti e solo quando avvertii la stretta di Steve intorno alle mie braccia capii che ero avanzata verso Yanina, con le mani protese in avanti, forse intenzionata a strangolarla, ero come in trance.
La osservai sputarmi in faccia qualche offesa nella sua lingua aliena, mentre cercavo di liberarmi dalla stretta di Smith, nonostante mi rendessi conto della sua forza non smisi di dibattermi, fin quando la bella russa non lasciò il locale e mi accorsi che gli occhi di tutti i presenti erano puntati su di noi. Avvampai e cercai di ricompormi, ravviando i capelli e lisciando il davanti della gonna. Steve mi porse la borsa che avevo lasciato cadere per la foga, gliela strappai di mano mentre mi sorrideva con un’espressione divertita, come se fosse appena uscito dal parco giochi. Lo fulminai con gli occhi e mi avviai alle porte del bar. Mi fu accanto in un attimo:
«Ti do' un passaggio» mi stava dicendo, quando un’anziana seduta ad un tavolino con un signore più vecchio di lei affermò:
«Sporchi adulteri!»
Come poco prima, quando Yanina mi aveva gettato il caffè addosso, sentii la rabbia offuscarmi la ragione:
«Ma chi è lei? Cosa vuole?» urlai contro la donna, troppo truccata per la sua età
«Dai April, lascia stare» Steve mi prese per le spalle, invitandomi a lasciare il bar
«Mi chiamo June!» esclamai, liberandomi dalle sue mani con uno strattone, lanciai un’altra occhiataccia alla signora e uscii in strada, dove la calura della mattina mi piombò addosso, ma perlomeno mi sentivo libera.
 
Rinvenni da quel ricordo quando avvertii una morsa intorno alla caviglia, dove il dolore sembrava essere tornato. Oltre al fruscio della pioggia e qualche sporadico rombo di tuono in lontananza, il fischiettio di Steve era onnipresente. Strinse ancora un po’ la fasciatura e d’istinto ritirai il ginocchio, tenendolo con le mani:
«Ahi!» lui smise di fischiettare e mi guardò, l’ombra della notte gli rendeva l’espressione del viso più seria di quanto non fosse «E’ stretta!»
«Deve essere stretta»
«E’ troppo stretta. Mi fa male così» obiettai e lui fece scivolare lo sguardo dal mio viso al piede, o meglio, credevo che stesse guardando il piede, perché abbozzando un sorrisino disse «In questa posizione ti si vedono le mutandine»
Distesi di scatto la gamba e, di nuovo, sentii le guance in fiamme. Lui riprese ad armeggiare con le bende, intonando il motivetto di quella canzone. Roteai gli occhi al soffitto:
«Smettila di fischiare! Non mi serve più. Grazie» tornò a guardarmi negli occhi
«Ma io non lo facevo per te» quanto avrei voluto spaccargli qualcosa in testa e farlo smettere di darsi tante arie, invece lo guardai perplessa quando si mise in piedi ed estrasse qualcosa dalla tasca dei jeans che poi mi porse. Era la boccetta degli analgesici, probabilmente l’aveva trovata nel kit di pronto soccorso, dove mia madre conservava le medicine «Prendine una» mi disse in tono quasi imperativo:
«Non mi fa tanto male, posso resistere» risposi, ma lui non accennava a muoversi. Gli afferrai la boccetta dalle mani sbuffando e l’aprii, lasciando che una pillola mi cadesse nel palmo:
«Ti prendo dell’acqua» mi disse, mentre ingoiavo la capsula
«Non ce ne bisogno» aggiunsi stizzita, puntellandomi al muro per rimettermi in piedi, mi aiutò senza che glielo chiedessi e in cuor mio gliene fui grata:
«Prendi le pillole senza acqua» cominciò con quel tono di scherno «Sei proprio una selvaggia».
Risi scuotendo il capo. Quella parola, selvaggia, creò nella mia mente l’immagine di me spersa su un'isola allo stato brado, dove sarei morta di fame e sete e paura dopo cinque minuti. Non riuscivo a stare al buio per cinque minuti!
Zoppicando mi incamminai lungo il corridoio, sorreggendomi al muro, sentii il click della porta d’ingresso che lui stesso chiuse, trasmettendomi sollievo e timore insieme; mi affiancò passandomi una mano intorno alla vita, in una sorta di abbraccio grossolano. Mi stupii di non provare vergogna o fastidio per quel contatto, piuttosto approfittai del supporto della sua spalla per evitare di poggiare il piede malconcio sul pavimento.
Davanti a noi la luce della torcia illuminava il nostro lento cammino, proiettando ombre lunghe e deformi sulle pareti. Oltre il sottile tessuto del mio abitino, avvertivo il suo palmo caldo, i polpastrelli delle dita che pigiavano contro le ossa del bacino e inavvertitamente mi ritrovai a chiedermi cosa avessi provato se solo avesse percorso l’intero corpo con quelle mani. Un brivido di freddo mi salì per la spina dorsale:
«Tutto ok?» mi  chiese con un filo di voce, voltandosi nella mia direzione e solleticandomi l’orecchio con il suo respiro.
Così non va bene, pensai.
«S-si si» balbettai e mi sentii stupida.
Dov’era finito l’odio che provavo per lui? E il fastidio che sentivo al suo solo pensiero? Cercai entrambi dentro di me e quando mi resi conto che non li avrei trovati ebbi paura, ma non di lui, bensì di me stessa.
 
Avevo percorso pochi metri a passi veloci quella mattina, lontana dal locale e dall’aria refrigerata al suo interno, cominciavo a sentire le prime goccioline di sudore imperlarmi la schiena e il viso, ma forse sudavo soprattutto per la vergogna degli sguardi dei passanti che mi fissavano quella macchia di caffè sotto il seno, come se fossi stata un'extraterrestre. Un bambino, mano nella mano con una donna dall’età improbabile, mi indicò:
«Guarda mamma, la signorina ha la maglia sporca» rise e io lo fissai male
«Si» dissi irritata «E’ sporca, e allora?» la donna mi fulminò con lo sguardo e nascose il bambino dietro il suo bacino corpulento «Dovrebbe insegnare l’educazione a suo figlio, sa signora?!» la mamma aprì la bocca, furiosa, pronta a controbattere:
«La scusi» era Steve, ancora lui, con un sorriso affabile dipinto sul volto «Si è versata del caffè sulla sua camicia preferita e ora è di pessimo umore» vidi la donna addolcire la sua espressione e mi infuriai maggiormente:
«La tua fidanzata dovrebbe imparare a contenere la sua rabbia, giovanotto» feci per replicare, ma lui mi precedette
«Ha ragione signora, ha ragione» continuava a sorriderle mentre mi cingeva le spalle con un braccio «Le nostre più sentite scuse. Le auguro una buona giornata» non attese la risposta della donna, ci allontanammo insieme e, quando mi voltai indietro, la vidi ferma sul marciapiede a fissarci.
Mi tolsi il suo braccio dalle spalle e contro voglia lo seguii fin dentro alla sua macchina. Avevo troppo caldo per litigare con lui, troppo caldo per aspettare il bus che mi avrebbe riportato a casa, troppo caldo per percorrere a piedi quella stessa strada. Soprattutto, avevo una macchia di caffè oramai raggrinzita sulla camicia di seta bianca. La mia preferita, con bottoni di strass e maniche a palloncino.
L’abitacolo era poco illuminato a causa dei vetri offuscati, ma fresco e profumava di pino. Avviò il motore e si immise nella carreggiata, mi sentivo piccola e a disagio, iniziai a pentirmi di non aver aspettato l’autobus. Rallentò e si fermò al primo semaforo rosso, mi stava guardando, scorsi la sua immagine riflessa nel finestrino, ma io non osai voltarmi, troppe emozioni contrastanti mi stavano confondendo la mente. Eppure, c’era qualcosa di rassicurante in quella macchina, forse i vetri scuri che estraniavano dal caos della città e dal caldo opprimente, forse l’odore che mi avvolgeva e che conoscevo bene, era lo stesso che oramai impregnava la tappezzeria della Mercedes di mio padre, forse era la sua presenza.
«Davvero un peccato» disse all’improvviso e fui costretta a guardarlo
«Cosa?» chiesi, preparandomi alla sua risposta
«Che ti sia sporcata» sfiorò la macchia marrone sotto il seno e mi irrigidii, poi acconciò la piega del colletto, nonostante non ne avesse bisogno, accarezzandomi con un tocco leggero il collo «Ti sta bene» aggiunse.
La pelle della braccia si accapponò, nascosi le mani, strette l’una all’altra, fra le gambe, sperando che il tessuto della gonna, lunga al ginocchio,  occultasse il mio nervosismo.
«A me è andata meglio» continuò e mi chiesi se si rendesse conto che, finora, era stato un monologo «Era solo acqua» si frizionò il cavallo dei bermuda per verificare se si fosse asciugato e sorrisi a quel gesto, ipotizzando che se la bella russa gli aveva gettato proprio lì l’acqua, doveva esserci un motivo.
«E’ la tua ragazza?» gli chiesi di slancio, mentre il semaforo tornava verde e lui inseriva la prima per riprendere il cammino
«Chi? La russa?» rise guardando la strada e io potei finalmente osservarlo «No, no. Ci siamo conosciuti ieri sera ad una festa e … boh!» esclamò facendo spallucce «Forse si aspettava qualcosa di più dopo la notte che abbiamo trascorso»
Tornai a guardare fuori, delusa. Era proprio come lo avevo immaginato, un ragazzo troppo diverso da me, lontano anni luce dal mio modo di vivere, dal mio modo di essere, dai miei principi e dai miei valori morali. Sentii di nuovo l’indignazione nei suoi confronti farsi largo fra le emozioni che mi stavano divorando. Nell’abitacolo dell’auto calò il silenzio.
Quando imboccò il vialetto di casa sua tirai un sospiro di sollievo, aprii lo sportello e feci per scendere, ero con un piede sul selciato e l’altro ancora nella macchina:
«April» mi chiamò e voltandomi mi ritrovai il suo viso vicinissimo al mio, la parte superiore del suo corpo era praticamente riversa sul sedile del passeggero «Nemmeno un grazie o un regalino …» lasciò la frase a mezz’aria e con la mano mi carezzò la coscia sinistra da sopra il tessuto della gonna. Ero completamente imbambolata, rapita dai suoi occhi che si ostinavano a non lasciare i miei. Mi sentivo inerme, senza forze, come legata, fino a quando la sua bocca sfiorò la mia, con delicatezza una volta, poi una seconda, la presa sulla coscia divenne più salda, mi morse il labbro inferiore e lo inumidì con la lingua. Dolore e piacere si fusero. Tutto si fondeva con lui: rabbia e gioia, timore e sollievo.
Lo allontanai, frastornata, oramai il caldo aveva invaso anche la macchina, o forse era semplicemente la mia temperatura corporea ad essere aumentata:
«Perché continui a chiamarmi April?»
«Forse un giorno te lo dirò» sorrise e tirò via la mano dalla gonna «Ma non oggi» ci guardammo negli occhi ancora un po’, poi raccolsi le ultime forze e mi diressi verso la mia parte di giardino.
Il giorno dopo la macchina nel suo vialetto non c’era più e per molto, molto tempo non la vidi rientrare.

continua ...
 
  
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