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Autore: FinnAndTera    31/08/2013    4 recensioni
“Da grande voglio fare il pasticcere”.
Mi andava così, a sei anni, quando vedevo mia cugina sorridere mentre tagliava la torta nuziale – era altissima, circa dieci strati! Portare la felicità dove quella mancava, riempire la bocca dei miei genitori di crema e cioccolato addolcendo le parole che ne venivano fuori, poter mangiare tutti i biscotti che volevo.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Da grande voglio fare quello che farò da grande.


“Da grande voglio fare la principessa”.

Mi andava così, a quattro anni, quando vedevo Biancaneve che ballava e poi aspettava di essere baciata. Una bella vita, senza impegni né problemi, fatta solo di bellezza e di speranza, di sogni che si avverano col profumo dei fiori a primavera. Mio padre, però, mi disse burbero che non potevo fare la principessa. Non perché in realtà quella vita esisteva solo nelle favole – come aveva tentato di spiegarmi dolcemente mia madre -, ma perché ero un maschio e i maschi non fanno le principesse. Sono guerrieri, i maschi, uccidono draghi e vanno a cavallo. Ma io restavo della mia idea, fare il guerriero era troppo stancante ed io volevo essere una leggiadra principessa.

“Da grande voglio fare il pasticcere”.

Mi andava così, a sei anni, quando vedevo mia cugina sorridere mentre tagliava la torta nuziale – era altissima, circa dieci strati! Portare la felicità dove quella mancava, riempire la bocca dei miei genitori di crema e cioccolato addolcendo le parole che ne venivano fuori, poter mangiare tutti i biscotti che volevo. La mia prima torta, però, venne bruciata e la mamma pianse stranamente troppo, così decisi che era il momento di andare a prendere un gelato e che i dolci, per ora, era meglio andare a comprarli. Mio padre non venne con noi.

“Da grande voglio fare il dottore”.

Mi andava così, a otto anni, quando vedevo George Clooney sorridere affabile ai bambini del reparto pediatrico. Curare i bracci rotti da una caduta dalle scale, far smettere di piangere le persone, guarire le ferite del cuore. Così impasticciavo le garze con l’acqua ossigenata e il sangue, gridavo il nome della mamma per farla svegliare, sentivo l’ambulanza arrivare sempre tardi. Per fortuna mia madre continuava ad aprire gli occhi, gonfi ma vivi, e allora io sorridevo affabile, proprio come un bravo dottore. Quando mi chiedevano di mio padre, la mamma rispondeva sempre in fretta al posto mio.

“Da grande voglio fare il poliziotto”.

Mi andava così, a undici anni, quando vedevo Horatio Caine ammanettare sempre gli uomini violenti. Inseguimenti che ti lasciano col fiato sospeso, una pistola per difendersi – e difendere gli altri – e frasi d’effetto piene di rancore o di comprensione, le vendette messe da parte per far fronte alla giustizia. Tuttavia mi chiedevo se avessi mai potuto farcela; guardavo mio padre che aveva le mani piene di schiaffi e gli scarponi pesanti eppure non riuscivo mai a convincerlo a lasciarla andare, nascondendomi sotto le coperte. Quando poi veniva da me, scusandosi, le manette sui suoi polsi non mi sembravano così giuste.

“Da grande voglio fare il pianista”.

Mi andava così, a quattordici anni, quando vedevo il mio professore di musica muovere le dita esprimendo cose impossibili da dire a parole. Melodie lente, veloci, irruente, calme, perfette. A casa mi esercitavo con la mia piccola pianola elettrica, scoprendo che suonare alleviava il peso della delusione sia al musicista che all’ascoltatore. Mamma mi sorrideva felice e chiudeva gli occhi, cosa immaginasse – o ricordasse – non ne avevo idea. Mio padre un giorno se n’era andato, fischiettando una ninna nanna e rompendo lo specchio all’ingresso.

“Da grande voglio fare il pompiere”.

Mi andava così, a diciassette anni, quando vedevo il mio vicino uscire di notte con la divisa o cantare l’inno nazionale dei vigili del fuoco con entusiasmo. Spegnere le fiamme infernali, essere rispettato da tutti, salvare i gattini delle vecchiette sdentate. Michele ci aveva aiutato tempestivo, sollevandoci da terra con le sue forti braccia e stringendo in segreto un po’ più forte la mamma, perché è questo che fanno i pompieri, cacciano il pericolo senza paura. Volevo allontanare il fumo dalla mia vita proprio come faceva Michele, anche se il ricordo degli occhi disperati di mio padre mi intossicava la mente e i polmoni.

“Da grande voglio fare il professore”.

Mi andava così – e mi sarebbe per forza dovuto andar bene per il resto della mia vita, ormai -, a ventidue anni, quando vedevo le lavagne dell’università piene di scarabocchi e mappe concettuali. Insegnare la vita e il rispetto fra un una pace e una guerra antica, sgridare i ragazzi per i comportamenti sbagliati, cercare di essere equo e non provare simpatie per qualcuno in particolare. Mi piaceva l’idea di avere a che fare con i ragazzi e giurai a me stesso che mai avrei fatto un torto ad uno di loro, avrei imparato qualcos’altro del mondo insegnando il passato. Mio padre una volta era tornato e mi aveva guardato da lontano, ma, come insegna la storia, il passato non va dimenticato.

“Da grande sono diventato padre”.

Mi va così, a trentaquattro anni, e vedo i miei figli giocare sul tappeto con i lego e le bambole di pezza. Cambiarli e nutrirli, sentirli piangere continuamente, capirli e amarli. È il lavoro più difficile a cui io abbia mai pensato e ora capisco perché molti di noi falliscono. Ma io no, non fallirò, e preparo le torte di compleanno insieme a mia moglie, gli do il bacino sulle ginocchia sbucciate per far passare la bua, caccio via i mostri sotto al letto e nell’armadio, suono “tanti auguri a te” al piano e gli faccio il bagnetto asciugandoli fra le mie braccia. Insegno ogni giorno, ai miei figli e ai miei ragazzi, in due modi diversi ma simili tra loro. E, quando io il mio piccolo Michele guardiamo incantati il film di Biancaneve, mi chiedo se mio padre, con una lapide in marmo ornata da tanti fiori di primavera, ora si senta una brava principessa.
   
 
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