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Autore: 0wels    01/09/2013    0 recensioni
Io sono Even e se leggete il mio nome al contrario capirete il vero significato. Sono nata per sbaglio, per gioco, non per amore. Sono piena di niente, e faccio tanta paura a tutti. Sono complicata esattamente come la neve, bianca. Lui è rosso e sa riempire il mio bianco formando un colore strano, ingenuo. Ho sempre pensato che lui fosse l'amore.. e poi scoprì che non era altro che la mia distruzione.
Genere: Fluff, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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                                                                                             CAPITOLO 1 

                                                                                          

                                                                                 Ordinary Day di Dolores O'Riordan (3:46)


 

La mattinata successiva, cioè il 26 di dicembre lo passai sentendo musica, facevo spesso un gioco con il mio ipod che mi insegnò il mio miglior amico. Un flashback mi ritornò alla mente. 
— Io faccio una specie di gioco: quando sono insicura su una cosa schiaccio play e ascolto la prima canzone che capita. E l’ipod decide per me. 
— Tipo un oracolo? 
— Tipo. Provalo.


E così, quel 26 dicembre mi trovavo a far quel nostro oracolo, andai nella sezione musica e scelsi ’casuale’. 
This is just an ordinary day .. — ed ecco le prime parole della canzone di oggi, Ordinary Day di Dolores O’Riordan. 
Da qualche tempo ho preso l’abitudine di cambiare l’ordine delle mie azioni: colazione,zainetto oppure vestiti, colazione, zainetto.. Lo faccio un po’ per gioco, un po’ per avere la sensazione che ogni giorno è diverso. 
In bagno mi guardo allo specchio, passo velocemente una mano tra i capelli cortissimi e mi compiaccio con me stessa. In fin dei conti, anche se non era previsto, quel taglio dona ai miei grandi occhi verdi. Posso la spazzola e vedo un pezzo della lettera nel lavandino, aveva ancora scritto sopra il mio nome:
’’Per Even’’ . Avrei voluto che al posto di Even ci fosse scritto Flavia, o Martina o qualsiasi altro nome che non fosse mio. 
Ho fatto rumore, penso rientrando in camera, perché la porta si apre piano per lasciar passare il musetto bianco di Tucson, il cucciolo che papà mi ha regalato per il compleanno.
Tucson ha cinque mesi e, a parte una spiccata tendenza a rubare e a nascondere i vestiti, o calzini, o cibo negli angoli della casa, meglio se sotto i mobili, è un cagnolino delizioso. 
— Ciao Tucson! Buongiorno, mordicchione! — lo saluto mentre mi incammino verso l’armadio. 
— Cosa ne pensi di questo? — gli mostro un maglione rosso e pesante. 
Tucson mi fissa con gli occhi interrogativi. 
— Sì, questo può andare.
In pochi minuti mi vesto, faccio colazione e, Eastpack a fiori nero sulle spalle, corro giù in garage a tutto velocità. 
Il cappotto!
Di nuovo su, di nuovo giù, al ritmo della frase della nonna ’’Chi non ha testa, mette gambe’’.
Ora posso partire verso la scuola. 
È una mattinata fredda ma assonnata procedo piano lungo le arterie trafficate delle otto. File di automobili serpeggiano ovunque, riempiendo frenetiche anche le vie secondarie. C’è chi parla al cellulare, chi fuma con il finestrino semi abbassato, chi legge il giornale seduto alle panchine minuscole aspettando la metro, chi attraversa la strada di corsa per salire sull’autobus, chi, non più giovane, siede su una panchina, incapace comunque di svegliarsi più tardi, e osserva quel viavai caotico. 
Mentre cerco di guardarmi intorno e memorizzando i piccoli dettagli — il Parco di Villa Borghese, il Lungotevere,il ponte Matteotti — una bicicletta mi taglia la strada. 
— Che cosa succede? — pochi minuti dopo mi ritrovo per terra, e di certo questo asfalto duro e umido non mi aiuta per niente. 
Vedo che la bicicletta ferma poco più avanti, la butta a terra e corre verso di me.
— Tutto bene? — domanda preoccupato. Questo profumo. Il ragazzo. Il estraneo turista. Alzo la testa di scatto e mi ritrovo davanti quel turista che ho incontrato ieri sera davanti al Colosseo. È un tipo alto e magro,con viso più o meno ovale e i capelli castani lisci e un giaccone, niente jeans, niente Woolrich.
— Tutto bene? Capisci quello che dico? — chiede,sempre più in ansia.
— Certo, mica sono scema. E comunque dovresti andarci piano con quella bici, sei un pericolo pubblico. 
— Ieri sera mi sei venuta tu addosso, mica potevo lasciare i conti isospesi. 
— Ti ricordi di me?
— Certo, mica sono scemo. Ti chiedo scusa, se posso far qualcosa per i danni..
— Sto bene, non c’è bisogno.
— Permettimi almeno di offrirti un cornetto — ero sul punto di accettare, ma poi ci ripensai. — Grazie, ma è tardi. Devo andare a scuola.
— Dove vai a scuola?
— Per uno che mi ha quasi investito ne fai di domande!
— Scusa..
— Ehi, scherzavo! Te la sei presa? — lui non ribatte.
— Io sono Even — gli tendo la mano — E vado al liceo classico Socrate. — il ragazzo mi osserva la mano, me la prende,poi mi fissa con gli occhi, come se cercasse qualcosa. — Strano. Non credo di averti mai vista. 
— Perché? Conosci qualcuno alla mia scuola?
— Sì, me stesso. 
Sono stupita. È un ragazzo carino, un po’ strano, ma carino. Forse apparteneva alla categoria di quelli che non amano farsi notare. 
— Davvero? A che anno sei? Nemmeno io ti ho mai visto.
— Ultimo. E tu?
— Primo. Sezione C.
— Io sono in E — mi lascia la mano di scatto, un po’ imbarazzato, come se si fosse accorto solo in quel momento che mela stava ancor stringendo. Sorrido. E proprio un tipo strano.
— Credo di esserti dimenticato di dirmi come ti chiami.
— Alec.
Pochi secondi di silenzio tra di noi, nel turbinio del traffico romano. 
Alec si fissa la punta delle scarpe da ginnastica nere. 
— Se ti va possiamo andare insieme — propone alla fine. 

— Cosi sono sicura che non mi investi di nuovo — abbozza un sorriso, ma sembra lontano anni luce. 
Arrivati a scuola mi sorride nuovamente — E scusa .. per l’incidente .. non volevo.
Gli dico di non preoccuparsi, poi, quando stavamo per salutaci definitivamente mi chiede: — Ti andrebbe se questa sera usciamo? Così mi faccio perdonare. Ci penso un po’ sopra e poi accetto. 
Lo lascio davanti al cancello e mi dirigo verso la mia classe, prima C.
La mia scuola non è male, le persone vedono il Classico come una scuola per chi vuole uccidersi e abbandonare la propria vita per due materie: Latino e Greco. La gente qui è invece tutto il contrario di tutto questo, il fine settimana sanno come divertirsi. Non voglio dire che è una scuola leggere perché mentirei ma ha anche i suoi lati positivi. Ecco la mia professoressa di latino: bassa, capelli ricci, vecchia. Abbasso la testa cercando di non farmi vedere, tra tutti i professori lei è quella che più mi stressa: molti compiti e tanta severità.
Certe volte la vedo ridere in classe ed è come se vedessi una persona sconfitta, che non ha saputo fare altro che trovarsi un marito, fare figli e studiare per essere quello che è.
 — Buongiorno, è già suonata la campanella cosa ci fai ancora qui?
Feci qualche passo verso di lei, testa bassa e mani nascoste. Dio..questa giornata non ha nulla di buono.
­— Stavo giusto entrando, grazie per avermelo fatto notare prof.
E se ne va, si gira e se ne va. Sospiro, mi mancava solo che mi chiedesse se avessi studiato la terza declinazione e farmela dire proprio in quel istante per controllare se non la mentivo.
 Salgo le scale, giro l’angolo e vedo Federico davanti alla sua aula. Ingoio la saliva e abbasso la testa. Ignoralo. Puoi farcela. Stupida lettera e vaffanculo Federico.
Alzo di poco la testa e i nostri occhi si incontrano. Oh dio se era bello.  
Entro nella mia classe facendo proprio come mi ero detta: ignorandolo.

                                                                               


Apri gli occhi. Ti alzi. Guardi fuori e ti accorgi che era solo un sogno. Ci rimani male, ma in fondo a chi importa? Quindi ti vesti, ti trucchi, abbastanza per non apparire realmente quello che sei. Esci di casa. Cammini a testa bassa tra la gente. Non vuoi farti notare. Perchè le persone giudicano, feriscono, parlano abbastanza da farti male. E fanno davvero male. A volte così tanto da voler piangere, ma non ce la fai. Anche piangere fa male. Così continui ignorando le voci che risuonano dentro e fuori di te. Guardi gli altri. A volte sogni soltanto di essere loro, pensando a quale stupenda vita potrebbe regalargli il destino, a quanto siano belli e così fottutamente perfetti. Ma poi torni a casa. Vai in bagno, chiudi la porta e per un secondo lasci il mondo fuori, lontano. E allora ti guardi allo specchio. E finalmente piangi. 
Quella lettera non sta più dentro la tasca. Un giorno ti alzi e incontri uno sconosciuto. Ci sono tante persone in questo mondo che desiderano essere trovate ed amate. Perché è sempre la stessa storia, no? La mia vita non è un film o un libro. Non è che adesso io e.. come si chiamava? Alec? Ci conosciamo, ci innamoriamo ed ecco che nascerà un amore modello, unico e altri aggettivi che ora non mi passano per la mente. 
Uscire. Con lui. Uscire. Io e il ragazzo estraneo. Perché dovrei uscire e soprattutto perché mi importa? Sempre lo stesso spettacolo monotono. I ragazzi che fumano, che si salutano, che si dicono le ultime parole prima di andare a casa e tutto questo succede davanti alla scuola dove c’è gente che corre, che ride, che si spinge perché magari vuole raggiungere un gruppo lontano. Un tipo urla mentre parla, mi guarda ma so che non mi ha notato, il suo sguardo era passeggiante come quando giri la testa a sinistra e a destra giusto per far fare al collo un po’ di esercizio. Sono sempre stata così, una nuvola rosa tra le altre nuvole rose. Di speciale in me c’erano solo quei sogni che nessuno sapeva, che si costruiscono con la polvere di fata sul foglio all’asilo. Il problema della morte di quei sogni è che i bambini crescendo vogliano avere sogni realizzabili e allora dimenticano quelli come “voglio diventare una fata” oppure “voglio diventare un supereroe”. Il suo nome lo conoscevo, era stampato nella mia mente e malgrado mi mentivo di averlo dimenticato, (e non sapevo darmi una spiegazione a quella stupida azione), non riuscivo a togliermelo dalla mia testa. 
Il straniero ti ha catturata nel proprio territorio. Even dove hai la testa? Dovevi stare un po’ più attenta e ora l’amore non ti starebbe nello stomaco a giocar a nascondiglio.
Devo raggiungere il mio motorino e sarò salva, sarò protetta e finalmente potrò andarmene da questo inferno. Devo buttare quello che rimane della lettera, ho ancora tutte le parole dentro.
A me piacciono le cose che la gente le trova indifferenti, come le maniche lunghe dei maglioni, oppure l’odore delle pagine dei libri, o gli occhi della gente che guizzano ovunque in cerca di qualcosa, i lampioni accesi la notte, le stelle che ti illuminano la strada, la luna piena, la coperta che ti scalda quando fa freddo, l’odore del caffè e del tè, i biscotti nel latte e gli abbracci. E quella lettera si stava troppo impadronendo di me. Devo riuscire a buttare via il passato. 
Come quando hai macchiato la tua maglietta preferita e la devi per forza lavare oppure rischi che per tutta la giornata tu nasconda, cerca, pulisca, accarezza quella macchia visibile. Devo lavare la mia vita perché così non posso più andare avanti. Come? 
E mentre ci penso esco da scuola. Guido sulle strade affollate di Roma. E mentre guido penso alla nostra storia di merda. 
Forse la cosa che ci fa più paura quando ci leghiamo a una persona è il “senza di te non sono niente”. Perché perdere la persona amata equivale a perdere tutto: perdere la parola, perdere il sorriso, perdere il respiro. A momenti si ha più paura di perdersi che di essere felici per stare insieme. Forse ho avuto troppa paura di perderlo ed ho dimenticato di essere felice. Ho dimenticato di vivere per amore, senza pensieri. Sono diventato peggio di una mamma con il suo figlio. Ero abituata all'idea che lui mi sarebbe appartenuto per sempre senza tener conto che il per sempre non esiste. Mi arrabbiavo quando non mi rispondeva ai messaggi. Misuravo il suo amore con i secondi che passavano tra leggere, scrivere e mandarmi la risposta ad un mio messaggio. Calcolavo la lunghezza delle sue frasi senza importarmi del contenuto. Aveva ragione quando diceva che sono troppo.. troppo e basta. 
Forse dovrei smetterla di leggere libri e cominciare a vedere  un po’ di film. Dovrei buttare un po’ di tutta questa immaginazione che ho dentro altrimenti continuerò ad immaginarmi un Leo che doni addirittura del sangue per me, un Ron che mi difenda e che urli al mondo “Ehi, idioti, quella è la mia ragazza!” o un Aragorn che mi pensi a chilometri di distanza; oppure un Freddie che mi salvi, un Jack che si sacrifichi per me e un Will che mi ami anche se mi vede ogni dieci anni. Dovrei smetterla di costruire quei sogni sul foglio con la polvere magica ed affrontare la realtà delle cose. Alec. La lettera, devo buttare via quello che è rimasto. E in quel momento mi rendo conto che non voglio mandar via il passato. Perché dovrei sforzarmi a dimenticare quello che ho avuto? Che poi non importa come l’ho avuto ma come io sono riuscita a vivere il passato. 
Arrivo a casa e mi chiudo nella stanza. La lettera è ancora lì, o almeno quello che rimane di lei. Prendo il pezzo rimasto, dove l’acqua ha salvato qualcosa e la infilo nella tasca. Sta sera uscita con Alec. Con il sconosciuto turista. Con quello che ti ha investita questa mattina e quel 25 dicembre davanti al Colosseo. Devo uscire con il suo profumo, con i suoi occhi verdi, con quella giacca bianca, con quei movimenti suoi e basta, con quei “scusa, non volevo! Ti ho fatto male?”. Essì, devo uscire con il turista, con la mia vita nuova. 
Il pomeriggio lo passai tra libri, cibo e musica. 
Restavo in silenzio mentre tutto dentro di me esplodeva.





 
27 dicembre. 
Ore 21:24. 
Tucson mi guarda, mi fa una specie di sorriso alzando i baffi verso le orecchia. Muove i muso come in una smorfia e miagola; salta sul letto ed entra nelle lenzuola. Lo guardo e penso che non m’importa quello che ha in mente. Mi lecca le dita sotto le coperte. 
“Hei, sto bene. Smettila.”
Mi alzo dal letto e prendo il mio iPod, metto casuale. 
’’ Ever wonder ’bout what he’s doing How it all turned to lies
Sometimes I think that it’s better '' —  ed ecco le prime parole della canzone Try di P!nk. 
Metto l’ipod sul comodino e comincio a vestirmi. 
“Qualcosa di sexy? Casuale? Cosa mi metto?”  — guardo Tucson aspettando una risposta. Miagola. 
“Sì, hai ragione, devo presentarmi come “me stessa” non come una Barbie. Quindi.. io mi vestirei con qualcosa di leggero, normale, niente che mi possa mettere in mostra. Jeans? Sì, buona idea Tucson. E un magione nero? Mhh, credo che siamo al completo. 

Improvvisamente mi fermo ed ascolto la canzone che era arrivata quasi a metà. Comincio a cantare o meglio dire urlare il ritornello della canzone: ’’You got to get up and Try, Try,Try’’ . Aveva proprio ragione quel ritornello, dovevo alzarmi e provare, provare, provare. Non abbattermi. La mia felicità dipende da me e non da una stupida lettera. Il mio passato non posso cambiarlo ma il mio presente sì. Se lui non vuole stare nella mia vita allora troverò qualcun altro che lo voglia, che lo desideri. Voglio una persona che mi apprezzi e mi ami per quello che sono, così come sono. Che mi voglia nella sua vita, che mi consideri aria per i suoi polmoni perché io penso di meritarmi un po’ d’amore. 
Sento il campanello. Stoppo la musica e scendo portandomi la borsa dietro. 
Apro la porta ed è un movimento rapido, troppo per i miei gusti. Il mio corpo ha il controllo su di me. Sono in una gabbia senza porte. Lo guardo. Ha una camicia bianca e dei jeans un po’ rovinati e vecchi. 
Gli sorrido. Ci son molti tipi di sorrisi, quelli amabili che si fanno alle persone che incontri per strada o alle feste. Quelli che nasocondono le lacrime, che nascondono la sofferenza. Quelli malvagi, che sono perfidi, che ingannano, che gli guardi e non ti trasmettono nulla, quelli che son di una dolcezza mai vista, quelli sinceri e poi son quelli fatti al telefono ma mai visti, quelli silenziosi. Ma il mio sorriso era diverso, non era gentile. Fu quasi un sollievo vederlo vestito casuale a modo suo. 
“Salve, sto cercando Even.”  — mi sorride anche lui. 
“Even e come? Ci sono tante Even a Roma.”
“Oh, il suo cognome non lo so.. temo che non la troverò mai allora.”
“Me la può descrivere.”
Mi guarda. Fa una pausa lunghissima e io mi chiedo se sta riflettendo su come cominciare la frase oppure fa parte del gioco. 
“Allora? Me la può descrivere?”
Si avvicina e mette le mani sulla mia schiena. Mi gira piano e vedo il mio riflesso allo specchio. Sorrido e questa volta è un sorriso strano. Mi guardo allo specchio come se fosse la prima volta che lo faccio in tutta la mia vita. Pensandoci è la prima volta che mi guardo allo specchio e vedo anche la sua riflessione. Le spalle piccole, il corpo magro ma non attraente. I jeans sfigati, casuali, vecchi che scivolano e si adattano alla mia pelle, al mio corpo, alle forme delle mie gambe, il collo coperto dalla sciarpa. I miei occhi si fermano sulle sue mani poggiate sulle mie spalle. 
“Ecco la mia Even.”
“ La tua?”
“Questa sera è mia.”
Sento una esplosione nello stomaco che brucia. Sta succedendo un casino – penso. Mi sto innamorando e forse non va bene. È troppo prematuro per ricominciare una storia e non vorrei illudermi di nuovo. Annuisco e sorrido. 
Devo solo restare concentrata, pensare con la testa e non con il cuore se non voglio innamorarmi. È facile no?
Lo guardo negli occhi tramite lo specchio che riflette noi. Non so spiegarmi quanti minuti siamo stati a fissarci e sorridere. Forse aspettava una risposta, forse dovrei parlare, dire qualcosa, chiedergli qualcosa, stare ancora al gioco? Cosa fare? 
Ma senza l’amore mi sento vuota. Son una persona di quelle che son fatte male. Male nel senso che quando le guardi sembrano vecchie e polverose. Le cose vecchie son sempre da buttare perché ormai c’è quella nuova che ha qualcosa che io non ho. 
Aspetto solo il mio principe che mi chieda del mio libro preferito e non della taglia del reggiseno. Sto solo aspettando un ragazzo che si vesti di usato, che profumi di vecchio. Ma senza l’amore io mi sento vuota. Puoi togliermi tutto. Puoi togliermi la musica, il cibo, i film, i divertimento, la luce. Puoi urlarmi contro, puoi menarmi, puoi darmi della stupida, della cretina. Puoi dire tutto, per me una cosa è certa: dall’amore si parte sempre. Io senza l’amore sono come il natale senza Babbo Natale oppure come un cantante senza la voce. Insignificante e profondamente vota. 
Vuota.
Ce l’hai presente una stazione vuota?
Con tutti quei treni merci che passano ed è buio, in quelle ore in cui i treni per i passeggeri non ci sono, sono fermi, e allora nessuno si mette sulle panchine ad aspettare, nessuno riempie le sale d’attesa.
Vuota.
Ce l’hai presente una casa vuota?
Quando anche l’ultimo mobile e l’ultimo scatolone sono stati portati via, quando tutte le camere sono rimaste senza un legittimo proprietario, quando poi sono passati dei mesi e la polvere si insinua ovunque e fa freddo anche se fuori è caldo, e c’è un odore strano, l’odore del niente mischiato a quello che era.
Vuota.
Ce l’hai presente una scatola vuota?
Una scatola che un tempo nascondeva lettere e segreti e poi a un certo punto quelle lettere e quei segreti sono diventati troppo “da giovani”, troppo scomodi, e allora sono stati buttati via senza nemmeno tanti rimpianti per lasciare il posto a qualcosa di più utile.
Solo che niente sembra essere utile abbastanza per prendere il posto di certi ricordi, e si capisce dopo, e allora la scatola resta
vuota.
Ce l’hai presente una persona vuota?
Ci sono giorni in cui mi sento talmente vuota che dico “ti voglio bene” a tutti i miei amici, dico “ti amo” all’uomo che amo, faccio l’amore, accarezzo un po’ di più, abbraccio più forte, rido di più.
E gli altri mi guardano e pensano “com’è dolce” e io invece penso che non serve a niente, che volevo riempirmi di un corpo solido, che volevo riempirmi di qualcosa di bello e invece resto sempre vuota.
Ce l’hai presente una giornata vuota?
Uno di quei giorni in cui potrebbe succedere di tutto e invece non succede niente e comunque non quel niente che rende una giornata “tranquilla”, ma quel niente che fa arrivare al momento di andare a letto e fa pensare di aver perso un giorno e ti chiedi se ti verrà mai restituito, perché insomma…non volevi, non credevi, non pensavi che passasse così velocemente e ti senti in colpa e ti sembra quasi di non esserti mai svegliato quei giorni lì.
Vuota.
Ce l’hai presente due occhi vuoti?
Quando li guardi e non sfuggono, non si nascondono ma non parlano, non sanno parlare o forse non vogliono farlo. E allora stanno fissi su un punto che sembra avere un senso e invece non ne ha e guardano sempre lì, lì continuamente, per non riempirsi più, mai più, perché da quando sono vuoti stanno meglio, da quando sono vuoti niente più lacrime, niente più domande indiscrete e qualche “uh, come ti trovo bene! Sei in splendida forma” e ti credo, con gli occhi vuoti puoi far credere di essere chiunque, anche una persona felice.
Ma forse solo adesso guardando questo ragazzo, il straniero ho capito che non voglio fingere. 

“Allora dove mi porti?” Ho una voce molto bassa, quasi ho sussurrato la domanda. 
“Pensavo a qualcosa di romantico, mi aspettavo che tu sia in chissà che vestito costoso.”
“E il tuo di vestito costoso dov’è?”
Ride. Scendiamo le scale, a volte lui supera due o addirittura tra gradini alla volta mentre io mi limito a fargli tutti quanti. 
“Ho pensato di mettermelo, sapevo che ti sarebbe piaciuto uscire con un pinguino però..”
“Però?”
“Però preferisco essere me stesso.”
“E non hai ancora risposto alla mia domanda, dove mi porti?”
“In una casa, voglio conoscerti meglio. Per esempio vorrei sapere se ti piace la montagna.”
 “L’adoro, perché?”
“Perché stiamo andando proprio in montagna, la casa sta in montagna.” 
Mi passa il casco e io salgo sul motorino stringendomi a lui.



 










 
  
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