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Autore: Melitot Proud Eye    07/03/2008    2 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[edit dell'8-11-2011]
Nota: sto rivedendo l'intera fanfiction perché, a distanza di anni, trovo che il mio stile qui fosse ancora immaturo e non mi lascia più soddisfatta. Ma non preoccupatevi, i cambiamenti saranno comunque minimi, stilistici o relativi a scene/particolari secondari. Spero vi piaccia anche la seconda versione =)
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Capitolo I
Anni d’oro



"Alla porta di chi ride, fortuna giunge."
Proverbio giapponese



La giornata era serena e il vapore del tè saliva in volute arricciate dalle tazze, lucide e verdi come ninfee.
Kenji sonnecchiava su un cuscino, accanto alla tavola. Kaoru assaggiò uno dei dolci e sorrise quando riconobbe l’inconfondibile tocco di Kenshin (glassa rosa, sempre fragrante) mentre, davanti a lei, Megumi beveva con eleganza, ringraziando dell'ospitalità.
Dal cortile provenne un fracasso allucinante e Kenji si alzò di scatto.
«Yahiko ha fatto cadere di nuovo le shinai» commentò Kaoru, roteando gli occhi e prendendo il figlio in braccio. «Troppo entusiasmo.»
«Cresce ma non cambia?» chiese Megumi, divertita.
Spallucce e un po' d'imbarazzo. «Credo sia anche colpa mia… ma non dirglielo, o non me lo farà più dimenticare.» Diede un dolce a Kenji per tranquillizzarlo, poi sospirò. «Mi spiace che tu non possa incontrare Kenshin. Ti direi di prendere l'ultimo treno, ma stavolta è una cosa seria; potrebbe tornare molto tardi.»
«Anche lui è sempre lo stesso.»
Sorrisero e mandarono giù un lungo sorso, rinfrancate dall’amarezza e dal calore del tè. Kaoru avrebbe chiesto a Megumi di restare per la notte, ma sapeva che aveva degli obblighi (una clinica e venti pazienti non aspettano).
Sembrava assorta. La lasciò ai suoi pensieri; distratta dal movimento pigro delle foglie che cadevano in giardino, visibili oltre il rettangolo dello shoji, posò un gomito sul tavolo e il mento sulla mano.
«Chissà se Sano è cambiato» mormorò, lisciando i capelli di Kenji.
«Ha visto il mondo» rispose Megumi.
«E’ vero, ma lo conosci...»
«Il poco che c'è da conoscere in quella zucca vuota.»
Kaoru non riuscì a trattenere un ghignetto. «Sono passati cinque mesi da quando ha scritto; credo che presto vedremo coi nostri occhi se è cresciuto.»
«Oh, magari non torna più. Il Giappone gli è sempre stato stretto.»
THUMP.
Passando dall'allegro all'irritato, Kaoru si voltò verso l'engawa. «Yahiko! Si può sapere che combini? Guarda che se rompi qualcosa–»
THUMP THUMP!
Lei e Megumi si guardarono; Kenji cercò di sbirciare fuori, agitandosi fra le sue braccia.
«Sembrerebbe il portone. Lo avete chiuso?»
Kaoru schioccò le dita. «Sì, quando muoviamo la roba dal deposito preferiamo non avere gente in giro. Yahiko! Vai a vedere chi è!» strillò.
«Hey, non sono il tuo schiavo!»
Veloce, Kenji sgusciò via e balzò giù dalla veranda con l'agilità di un gatto. Rimbombarono altri colpi e, dopo un attimo di dubbio, Kaoru raggiunse il cassone delle provviste, infilò un braccio dietro e recuperò un legno: la bokken di emergenza. (Ce n'era una in quasi tutte le stanze; l'esperienza insegna.)
«Chiunque sia, sta per sfondare il portone» disse a Megumi, che aveva preso la teiera e la brandiva come un peso da lancio. «Kenji, fermati
In quel momento accaddero tre cose: Yahiko intercettò Kenji, una voce ruggì di aprire, Yahiko e Kaoru quasi mollarono le armi.
«Allora, signorinella, quanto ancora mi vuoi tenere fuori?! Ho fame
Rimasero tutti a bocca aperta. Poi una forza inarrestabile fece saltare il catenaccio. Sull'uscio polveroso si stagliò una figura malvestita, grezza, con una criniera selvaggia al vento.
Lentamente, incredulo, Yahiko sogghignò. «Mi venisse un colpo... guarda chi c’è, Kaoru!»

Le ultime vestigia di sonno si alzarono con la lentezza di un sipario, propagando il suo nome. Kaoru sorrise, senza aprire gli occhi. Ricordava cosa veniva dopo: lei che scambiava Sano per un delinquente, una bokken volante, Sano che si levava di dosso sacche e bagagli, Megumi che lo raggiungeva e l'attaccabrighe che la faceva piroettare davanti all’espressione beota di Yahiko; per beccarsi poi un ceffone.
E iniziare la prima discussione in quasi quattro anni.
(Solo dopo si era saputo come stavano le cose – quel che Sanosuke aveva detto alla Volpe prima di partire.)
Kaoru si stropicciò gli occhi, infastidita. C'erano schiamazzi di bambini nell'aria.
Troppo presto.
Si alzò, sistemò la cintura dello yukata da notte e aprì lo shoji per controllare le scorrerie di Kenji, Inoi e Souzo, armati di bokken in miniatura. Yahiko faceva da bersaglio e scappava, voltandosi di tanto in tanto per opporre resistenza. Il moccioso aveva diciannove anni e si divertiva più degli altri messi insieme.
Sorrise, scosse la testa e rientrò. Dalla culla di Shinta, il terzo figlio datole da Kenshin, salivano dei vagiti; prese il piccolo, lo cambiò, lo allattò e si preparò per uscire, soddisfatta.
Quante cose erano cambiate da quand'era ragazza. Il matrimonio, la nascita di Kenji, il ritorno del galletto giramondo; il trasferimento di Megumi a Tokyo e le nozze con Sano; la nascita di Souzo Sagara, poi di Inoi (la sua bella bambina dagli occhi azzurri). E adesso Tsubame era incinta…
Otto anni colmi di felicità. Poteva andare anche più indietro, a dire il vero, perché dopo l’arrivo di Kenshin le notti solitarie erano finite; non si pentiva d’aver vissuto momenti difficili, per tutto quello.
Completò i giri dell’obi e lo annodò con qualche difficoltà sulla schiena, cercando di non stringere troppo per evitare di doversi svestite al momento d’allattare.
Un’occhiata all’orologio le rivelò la verità: era in ritardo. Presto sarebbero arrivati gli allievi della palestra e, benché non insegnasse ancora (Shinta era nato solo da quattro mesi), non era il caso di farsi trovare a tavola col mento sporco di riso. Con la rapida efficienza di tutte le madri, recuperò Shinta, uno scialle ed uscì a razziare la cucina.
Nel percorrere l'engawa fu superata dal branco strillante della nuova generazione. In testa c'era il suo Kenji, seguito da Souzo di quattro anni e da alcuni pargoli del vicinato; Inoi era sparita.
«Kyaa!»
Ugh.
Strinse i denti, entrò in cucina e vide Kenshin. Gli cinse il collo con un braccio, nascondendo il viso sulla sua spalla.
«Queste grida mi danno alla testa.»
Kenshin rise e le diede un bacio, prendendo Shinta. «Ti ho scaldato la colazione. Intanto vediamo un po’ come ha dormito questo pupetto.»
Sedette a gambe incrociate e, tenendo il figlio sulle ginocchia, cominciò a far facce buffe.
Alla menzione del sonno Kaoru roteò gli occhi, s'inginocchiò e buttò giù un sorso di tè. Sinceramente, sperava che Shinta avesse dormito più di lei e Kenshin messi insieme, altrimenti non aveva dormito affatto. Stava per avventarsi sulla colazione quando, all’improvviso, sulla casa scese il silenzio.
Kenshin guardò fuori.
«E’ entrato qualcuno.»
«Chi sei?» sentirono chiedere a Yahiko.
Uscirono sulla veranda. Lo sconosciuto, un ragazzo sui quindici anni, indugiava sull'ingresso; portava una sacca voluminosa in spalla, aveva le mani fasciate da bende grigie e, nel complesso, non fosse stato per il suo visetto pulito, l’avrebbero bollato come piccolo attaccabrighe di strada. Aveva anche un’aria vagamente familiare.
Si sfregò il naso e, rivolta l’ennesima occhiata alla porta, accennò un gesto verso l’insegna.
«E’ la palestra Kamiya Kasshin?»
«Com’è scritto» disse Yahiko.
Kaoru parve ricordarsi delle proprie maniere e scese in cortile, salutando con un sobrio inchino.
«Ti dò il benvenuto. Io sono la maestra del dojo, Kaoru Himura. Volevi iscriverti ai nostri corsi?»
Il ragazzino rispose con impaccio. «Signora no, non sono qui per iscrivermi. Sto cercando una persona.»
Yahiko, che aveva inclinato il viso per incontrare lo sguardo di Kenshin, vi colse una scintillio divertio.
«Lo conosci?» gli chiese, curioso.
«No, ma…»
«Sono Ota Higashidani, signore. Mio fratello dovrebbe essere qui.»
«Uh?»
«Uh?»
Higashidani?
«Ci dispiace» disse Kaoru, lentamente «non sappiamo chi―»
«Mi venisse un colpo
Nel vano del portone era comparso Sanosuke, una borsa gonfia sottobraccio (le consegne da fare per conto della clinica) e gli occhi fissi sulla schiena del nuovo venuto.
«Ota!»
«Lo conosci?!» esclamò Yahiko.
«Lo conosce?» echeggiò Kaoru, guardando Kenshin.
«Fratellone!»
Il ragazzo girò su se stesso. Sul retro della sua giacca beige era dipinto in nero il carattere aku. Oh. Oh!
«Porca vacca, quanto sei cresciuto» esclamò Sanosuke, posandogli una mano sulla testa. «E ce ne hai messo di tempo per venire, io alla tua età ero in giro da cinque anni. Piuttosto… come fai a sapere che sono tuo fratello?» Masticò il filo d’erba che aveva tra i denti, sguardo lontano. «Ahh, capisco, il vecchio ha vuotato il sacco. Beh, non importa. Anzi, meglio. Fatti vedere un po’: sì, sì, sei sulla buona strada. Bene. Benone.»
Il ragazzo brillò di luce propria, mettendo i pugni sui fianchi. «Grazie!»
«Scusate, ma… vi spiacerebbe spiegare?» s'intromise Kaoru. Non poteva esserci in giro un altro Sano.
«Anni fa son tornato alle radici e ho ritrovato i miei. Abitano a Shinshu. Mi ha riconosciuto solo mio padre – non abbiamo detto niente a mia sorella, tanto meno a Ota, che era nato dopo la mia fuga – poi Tokyo mi ha richiamato indietro. Comunque ho lasciato il tuo indirizzo, signorinella. Sai, per ogni evenienza.»
Kaoru corrugò la fronte, battagliera. «Spero sia l'unica occasione in cui l'hai fatto, testa di gallo.»
«Non saprei.»
«Prego
Yahiko si grattò la nuca, poi sorrise a Ota. I bambini abbandonarono il loro silenzio e cominciarono a ronzare intorno al nuovo venuto.
Ota li salutò. «Senti, fratellone, tu vivi qui ora, vero?»
«Mnno» mugugnò Sano, distratto. «Cinque anni fa mi sono sposato e sto alla clinica del quartiere. A proposito, quel marmocchio laggiù è tuo nipote Souzo.» Sventolò la mano in direzione dei pargoli e il “marmocchio” incrociò le braccia.
Ota s'illuminò e gli s'inginocchiò accanto, cercando di stringergli la mano.
«Però sei qui a Tokyo» continuò.
«Sì, certo. Che ho detto?»
Il ragazzo si alzò in piedi e rivolse a Kaoru un altro inchino, sempre impacciato.
«Allora, maestra, se non ti dispiace vorrei iscrivermi. Resterò finché non sarò forte come mio fratello.»
«Un Sagara e lo stile Kamiya Kasshin?» balbettò Kaoru, battendo le palpebre come un gufo.
«Non Sagara, Higashidani.»
Ma buon sangue non mente e Yahiko decise che doveva prepararsi psicologicamente all’avventura. Ci sarebbe stato da divertirsi.
Kenshin si appoggiò Shinta contro il fianco. «Oro.»
«Allora… allora benvenuto» disse Kaoru, superando la sorpresa e passando alla tradizionale, interiore auto-stretta di mano. Un nuovo allievo! Presto avrebbero potuto permettersi di ristrutturare il furo.
«Benvenuto!» echeggiarono i bambini.
Fu così che Ota entrò nelle loro vite, inatteso come lo erano state tutte le loro persone importanti.
   
 
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