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Autore: Nina Ninetta    03/09/2013    1 recensioni
June è una ragazza ventenne rimasta a casa per ripassare l'esame universitario di Diritto Romano che l'attende di lì a qualche giorno. Quando tuttavia scende la notte, l’energia elettrica salta a causa di un improvviso e violento temporale estivo che lascerà l’intera cittadina al buio. June soffre di acluofobia, la sua paura più grande quindi è la totale mancanza di luce, un terrore viscerale che le attanaglierà lo stomaco come un serpente. Pur di non restare da sola scenderà a compromessi con sé stessa: accettare la compagnia del suo odiato vicino di casa.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#5

Parole parole parole
 

 
In quinta liceo la professoressa di letteratura straniera ci diede il compito di sviluppare un tema su uno dei capoversi che lei preferiva in assoluto di un noto autore italiano del primo Novecento. Quando tornai a casa rimasi per ore a fissare i righi bianchi che si stendevano sotto la parola “svolgo”.
Il paragrafo che avrei dovuto analizzare citava così: «Si vive per anni accanto a un essere umano, senza vederlo. Un giorno ecco che uno alza gli occhi e lo vede. In un attimo, non si sa perché, non si sa come, qualcosa si rompe: una diga fra due acque. E due sorti si mescolano, si confondono e precipitano.»
Non riuscivo a comprendere il significato di quelle parole. Non riuscivo a capire come due persone che si conoscono da tempo, possano mutare l’idea che hanno l’uno dell’altro. Non riuscivo a capire come potevano “confondersi e mescolarsi”. Scrissi che gli italiani sono un popolo di romantici e che questo D’Annunzio, evidentemente, aveva riportato semplicemente una parte autobiografica nel suo romanzo. La professoressa sorrise e da sopra gli occhiali mi lanciò uno sguardo ironico, sospirando il mio nome un paio di volte.
Dopo anni che avevo accantonato quelle parole, in quella notte piovosa e buia emersero dai meandri della memoria, impolverate e spaventose. E, soprattutto, vere.
 
Non mi ero resa conto di quanto fosse scomodo il pavimento fin quando non mi sedetti sul mio letto. Steve tirò via il braccio dalla mia schiena e sbirciò le mura che lo circondavano, illuminando l’armadio e la scrivania con i libri aperti e abbandonati a sé stessi, il portatile spento lì accanto, la finestra spalancata con le tende chiuse - proprio dove mi ero sporta a gridare di abbassare il volume della musica dandogli dell’imbecille - il comò accanto al letto con il libro di Stephen King e l'abatjour che tenevo accesa durante la notte. Distesi le gambe, attenta a non urtare la caviglia fasciata, e mi lasciai andare contro lo schienale, solo allora socchiusi le palpebre e sospirai, sentendomi improvvisamente stanca. Desiderai addormentarmi e svegliarmi dopo qualche ora, con la consueta e rassicurante luce ad illuminare la stanza e magari sorridere al sogno assurdo che avevo appena fatto, invece la voce di Smith mi trascinò prepotentemente nella realtà:
«Molto bene» disse e lo guardai di sottecchi «Adesso che ti sei sistemata posso …» fece per uscire dalla camera e lo fermai bruscamente, afferrandogli il polso
«Dove vai?» sorrise fissandomi dall’alto
«Secondo te?» mi accigliai, non ricordavo una sola volta che avesse risposto ad una mia domanda con una risposta semplice e diretta, eppure non erano domande difficili le mie. Mollai la presa al suo polso e smisi di guardarlo. Non potevo costringerlo a restare con me, era stato già abbastanza gentile per essersi preoccupato di “bussare” alla mia porta quando era andata via la corrente, intanto che il temporale imperversava la sua ira su noi mortali. E, di sicuro, non intendevo pregarlo di rimanere, nonostante l’idea di me da sola, al buio, mi spaventava fino a togliermi il respiro.
Ma il respiro si fermò ugualmente quando Steve si sporse in avanti e posò una mano sulla mia guancia, accarezzandomi la nuca con le dita, sotto i capelli, con gentilezza mi voltò nella sua direzione, sorrideva, con le labbra certo, ma anche con quegli occhietti scuri e spavaldi che sembravano sempre pronti a prenderti in giro. Si piegò sulle ginocchia e i nostri volti furono alla medesima altezza:
«Tranquilla, April» fece una pausa, come di routine, per darmi il tempo di metabolizzare la parola April, ma non così a lungo per controbattere «Non vado da nessuna parte» la torcia rifletteva cerchi sul pavimento, uno dentro l’altro, creando quel gioco di ombre e luce che rendeva l’atmosfera più poetica, idilliaca. Non riuscivo a staccare lo sguardo dal suo, forte e magnetico, lo fissavo percorrermi il volto e sfiorarmi la guancia con il pollice:
«Perché sei venuto qui, stasera?» gli chiesi, senza neanche rendermi conto di farlo realmente, la voce che sentivo non era la mia, le labbra che si muovevano fino a formulare quelle parole non potevano essere le mie. No davvero. Allargò quel sorriso, come se si aspettasse una domanda del genere, come se non aspettasse altro in verità. Avvicinò le labbra al mio orecchio e sussurrò:
«Per te» si rimise in piedi e uscì dalla camera, lasciandomi al buio, eppure non ebbi paura. Le sensazioni contrastanti che provavo in quel momento erano troppo forti anche per la mia fobia, avrei preferito di gran lunga rannicchiarmi sul letto e tremare per il buio che mi circondava, o per i tuoni che ancora avvertivo ovattati e lungi da me, invece di rabbrividire per i pochi centimetri che avevano diviso le nostre bocche; avrei preferito provare quella sensazione di vertigine e intorpidimento per l’assenza di luce, non per quella sua carezza, per le sue dita che mi avevano sfiorato la guancia e la base del collo, non per il suo respiro caldo contro la mia pelle. Non per le parole che aveva sussurrato, «per te», due sole paroline che avevano avuto su di me e dentro di me l’effetto di uno tsunami.
 
Fu la luce proiettata lungo il corridoio dalla torcia ad annunciarmi il suo ritorno, se mi concentravo riuscivo a sentire i passi sul pavimento. Quando fece capolino oltre l’uscio della porta rimanemmo entrambi in silenzio per qualche secondo, io con lo sguardo fisso sulle mani che tenevo strette in grembo, lui probabilmente mi stava osservando e so che sarebbe potuto restare così per sempre, se non avessi fatto o detto qualcosa, così mi decisi a  guardarlo di sghembo:
«Che c’è?» l’ansia che provavo si tramutò in irritazione nella mia voce, lo vidi fare spallucce e muoversi in direzione del letto, ove si accomodò perpendicolare a me e spalle al muro, d’istinto ritirai le gambe, sempre attenta a non urtare la caviglia con l’altro piede, e tornai a fissarmi e torturarmi le dita.
Mi porse una bottiglietta d’acqua e la guardai imbambolata per po’, prima di prenderla e alzare gli occhi su di lui. Aveva abbandonato la torcia sul copriletto verde acquamarina e in mano teneva una birra che indirizzò a me:
«Hai preso le medicine, non puoi berla»
«Lo so» risposi in modo antipatico, non volevo essere scortese con lui, ma proprio non riuscivo a comportarmi diversamente. Sollevò un sopracciglio continuando a guardarmi e io sospirai, cacciando fuori l’ansia che mi attorcigliava le viscere, prima di aggiungere: «Grazie» altro sospiro da parte mia «Per tutto» svitai il tappo della bottiglia e ne bevvi un lungo sorso «Soprattutto per questa» ci sorridemmo, senza ambiguità, senza sguardi di sottecchi.
Poggiò la testa contro il muro e socchiuse gli occhi e io mi ritrovai ad osservarlo. Le parole di quell’autore italiano tornarono prepotentemente ad affollarmi la mente, dopo anni riemersero coperte di polvere, eppure mi bastò soffiarvi interiormente sopra per ritrovarle chiare e limpide. Mentre con gli occhi percorrevo le curve marcate del suo volto, le parole prendevano forma nella mia mente "Si vive per anni accanto a un essere umano, senza vederlo", e solo allora stavo vedendo la carnagione resa più scura dalla penombra, quell’accenno di barbetta ispida che mi figurai a carezzargli, sentendomi solleticare i polpastrelli, le labbra appena appena schiuse. "Un giorno ecco che uno alza gli occhi e lo vede", il sopracciglio destro tagliato alla punta, forse una cicatrice, i capelli castani (quasi neri a causa dell’oscurità) erano folti ma acconciati, il respiro regolare gli donava un’aria pacata.
Si, lo stavo vedendo davvero.
Continuando a tenere gli occhi chiusi tracannò direttamente dal collo della bottiglia un altro po’ di birra e io non smisi di osservarlo, non distolsi lo sguardo neanche quando si voltò a guardami, gli occhi un po’ lucidi e l’espressione dura che la luce della torcia gli conferiva. Ci fissammo per un po’, non saprei dire di preciso quanto tempo trascorse prima che io parlassi, forse secondi, forse minuti, forse ore. D’improvviso non mi incuteva più timore, d’improvviso mi parve di conoscere ogni segreto della sua misteriosa vita, ogni singolo difetto del suo corpo, ogni virtù del suo essere uomo.
«Perché hai le chiavi di casa mia?» prese tempo nel rispondermi, non credo si aspettasse quella domanda o che comunque riprendessi l’argomento. Lo vidi estrarre le due chiavi legate ad un vecchio portachiavi di mia madre che le avevo regalato da bambina, vincendolo ad una stupida pesca durante una gita scolastica, ad uno di quei giochi dove il saltimbanco urla in continuazione «si vince sempre, signore e signori, si vince sempre!»
Steve le rimirò nella mano libera, quindi le lanciò in aria e le chiavi ricaddero proprio al centro del suo palmo che chiuse con vigore:
«Le ho rubate. Una notte mi sono intrufolato in casa tua mentre dormivi e le ho rubate dal posto segreto dove tieni le chiavi di riserva e …» mi guardò sorridendo, ma io non ricambiai il sorriso e vidi scemare anche il suo, prima di sospirare e riprendere «Quando è saltata la corrente i tuoi hanno telefonato a casa mia. Hanno detto che la tivù aveva trasmesso la notizia di un black out che avrebbe lasciato al buio diversi quartieri e che non avrebbero potuto porre rimedio al guasto prima dell’indomani» lo ascoltavo in silenzio, ma la mia mente era un turbinio di pensieri «Tua mamma mi è sembrata abbastanza preoccupata al pensiero che tu fossi in casa da sola e mi ha chiesto di chiedere alla mia se, gentilmente, avrebbe potuto fare un salto a vedere come stavi. Gli ho detto che si, sicuramente lo avrebbe fatto ed è stato allora che mi ha confessato che nella cassetta della posta vi erano nascoste queste chiavi, sarebbe bastato infilarci la mano per prenderle. Mi ha ringraziato all’infinito  e si è scusata fino alla nausea per il disturbo. Tua mamma è molto più gentile e cortese di te, sai?» sorvolai sulla sua battuta sarcastica, non avevo più le forze per controbattere alle sue frecciatine, al contrario di lui che, invece, sembrava sempre pieno di energie da consumare facendomi imbestialire. Ed ero delusa: non era venuto per me, di sua spontanea volontà, ma solo perché gli era stato chiesto dai miei genitori e, chissà, forse si era sentito in obbligo di venire a vedere come me la passavo:
«Quindi mia mamma e mio padre sono convinti che sia venuta tua madre da me e non tu»
«Esatto. I tuoi sono dei genitori molto apprensivi»
Mi soffermai su quelle parole. No, i miei non erano molto apprensivi, semplicemente sapevano quanto io fossi terrorizzata dall’oscurità e mi sentii sollevata nell’appurare che non ne avevano fatto parola con Steve. O, perlomeno, sperai che lui mi avesse raccontato tutta la verità, senza omettere nulla.
«Rimettile al loro posto» mi lanciò il mazzo di chiavi e lo presi al volo, era caldo dopo che lo aveva tenuto stretto nel suo pugno e mi sorpresi a desiderare di gettarlo via, come fosse carbone ardente. Sforzandomi di non mostrare una certa urgenza lo adagiai sul comò alla mia sinistra, accanto alla bottiglia d’acqua, e tornai a distendere le gambe, non c’era più motivo di creare distanza fra noi, la notte era ancora lunga, ma sentivo che sarebbe passata e che non sarei stata da sola a combattere la mia più grande paura.
Bevve tutto d’un sorso l’ultima birra che era rimasta e si pulì le labbra con il dorso della mano, poi si allungò per poggiarla accanto al portachiavi e, come quando mi era passato accanto a casa sua, o quando mi aveva abbracciata sull’uscio della porta, consolando le mie lacrime infantili, sentii distintamente il profumo di cui  era cosparso il suo corpo. Mi irrigidii come una pietra e scostai il viso di lato, sperando che lui non notasse quel leggero spostamento, né tantomeno il rossore sulle gote che si andava espandendo.
Tornò al suo posto sbuffando rumorosamente, come se quel movimento fosse stato il più difficile e pesante del mondo e non riuscii a trattenere un risolino, era buffo e in quel momento aveva l’aria di un bambino annoiato durante l’ora di storia. Quando avvertii un peso e un calore diffondersi intorno alla caviglia fasciata però tornai improvvisamente seria e fissai incerta la sua mano adagiata sulle bende. Il palmo era caldo e fu come se le ossa addormentate dal ghiaccio poco prima si risvegliassero e prendessero vita.
«Ti fa male?» mi chiese senza alzare gli occhi dalla caviglia. Risposi di no «Ti pizzica?» di nuovo risposi in modo negativo «Ti da fastidio in qualche modo …» mi lanciò un’occhiata senza muovere il capo e sentii il respiro strozzarsi in gola « … April?» ritirai di nuovo le cosce, stizzita:
«Sei tu ad infastidirmi, non la mia caviglia! E poi io non mi chiamo April. Mi chiamo …»
«Lo so come ti chiami» mi interruppe e io non potei fare a meno di rimanere a bocca aperta, era diventato improvvisamente serio, cominciando a vagare con lo guardo per la stanza
«Perché continui a chiamarmi April allora?»
«Perché avevo un pony che si chiamava April» rimasi di stucco, provai irritazione per quella risposta, ma anche dolcezza. Era sempre così con lui, mai una sensazione chiara e distinta, mai un’emozione schietta, solo farfalle nello stomaco, che sembravano risalirmi lungo la trachea e bloccarmi il respiro, e rabbia. Strinsi i pugni mentre lui aggiungeva «Ero piccolo ed era tutto per me. Lo avevo trovato un giorno vicino ai campetti dove andavo a giocare con un pallone di pezza. Alcuni ragazzini della mia età lo stavano maltrattando. Mi nascosi e aspettai che fossero andati via per avvicinarmi. Che vigliacco, vero?» tornò a guardarmi senza darmi il tempo di rispondere «L’animale era sdraiato sulla terra secca e aveva una miriade di mosche che gli ronzavano intorno. Ho creduto che fosse morto e non me lo sarei mai perdonato» si guardò le mani e proseguì «Invece si alzò quando mi vide e io allungai una mano tremante verso di lui. Non avevo mai visto un pony, credevo fosse un semplice cavallo. Si lasciò accarezzare e lo portai a casa. Mi sembrava un animale che avesse bisogno di cure e di affetto, quasi quanto me» quelle ultime parole mi provocarono un tuffo al cuore e le lacrime mi bruciarono agli angoli degli occhi «Mia madre disse che lo potevamo tenere, ovviamente sarei stato l’unico responsabile di quella bestia che, ci confermò il nostro vicino, era una femmina. Così la chiamai April, come il mese in cui l’avevo incontrata. Come tutte le mattine uscii di casa per salutarla e darle da mangiare, prima della scuola, ma April non c’era più»
«Era scappata?» chiesi di slancio, interessata a quell’aneddoto
«Non c’era più non nel senso letterale. Non c’era più nel senso che l’avevano ammazzata. Morta, in una pozza di sangue»
Gridai come una matta, come se avessi visto la scena più orrenda della mia vita. In verità non vedevo proprio un bel niente, il buio era tornato, senza preavvisi, senza avvertire, era calato e mi aveva inghiottita di nuovo nella sua morsa. Ero di nuovo sola, nell’abisso profondo e oscuro della mia fobia. Scattai a sedere sul letto, avvertendo un lieve fastidio alla caviglia, tuttavia non me ne curai, afferrai la torcia e cominciai ad agitarla come un barista farebbe con il suo shaker per cocktail:
«Come si accende questo affare!» pigiavo il bottone dell’accensione fino a farmi dolere il pollice «Accenditi! Accenditi! Accenditi, accidenti!»

continua ...
 
  
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