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Autore: Beatrix Bonnie    03/09/2013    3 recensioni
-Seguito de Il torneo Trecolonie-
Edmund, ormai figlio adottivo del Presidente della Repubblica Magica d'Irlanda, si lascia alle spalle il suo passato, per diventare Edmund McPride, un giovane ambizioso, bello e pieno di talento. Ma presto dovrà fare i conti con la realtà: l'uomo in cui ha riposto la sua fiducia si rivelerà essere un meschino arrivista, mentre il suo passato verrà a bussargli alla porta nel giorno del suo diciassettesimo compleanno. Un misterioso orologio d'oro con le lancette ferme, una setta di folli scienziati, un codice impossibile da decifrare...
Ma quando, tra il clima di terrore e le sconvolgenti rivelazioni sul suo passato, Edmund non riuscirà più a vedere la luce, nel suo orizzonte si staglierà l'unica cosa certa: l'amicizia di Mairead e Laughlin.
Genere: Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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CAPITOLO 25
Nelle grotte di Petra






Silenzio. Si udiva solo il lontano ululato del vento, che attraversava la gola e soffiava contro le pareti di roccia. Per il resto, nient'altro che un buio silenzio.
Nemmeno i suoi passi riecheggiavano in quell'incavo scavato nella roccia, come attutiti dallo spesso strato di sabbia umida che ricopriva il terreno. A destra e a sinistra, solo muri neri nella notte, attraversati da sfumature rossastre. E là, in alto, timide stelle, trapuntate nel blu del cielo, si affacciavano sulla gola.
Edmund seguiva cauto un Patronus a forma di volpe, che procedeva tranquillo qualche metro avanti a lui. La fioca luce emanata dalla creatura argentea era l'unica fonte luminosa, dal momento che il ragazzo non aveva osato scagliare un Lumus, per non disturbare quella strana quiete mistica che aleggiava nell'aria.
Avanzando nel canalone, si chiese quale fosse la meta. Si sentì improvvisamente vulnerabile e sciocco. Aveva seguito senza esitazione il Patronus che pensava essere quello di McFarren: si era materializzato dove la volpe gli aveva detto e ora la pedinava senza farsi domande. I cattivi non sanno produrre Patronus, si disse, nel tentativo di sembrare ragionevole. Eppure, pensandoci a mente lucida, avrebbe potuto indagare, prima di buttarsi a capofitto nell'impresa. A volte era stupidamente impulsivo.
Ma ormai era fatta. Alzò la bacchetta davanti a sé, attento a qualsiasi rumore che non fosse l'ululato del vento, in modo da non farsi cogliere di sorpresa.
Seguì la volpe finché il canalone non si aprì in uno spiazzo. Davanti ai suoi occhi, illuminato dalla luce debole della luna, si stagliò uno spettacolo meraviglioso: la facciata monumentale di un palazzo, con un'architettura perfettamente simmetrica, era stata intagliata nella viva roccia rossiccia della gola. Edmund si sentì un minuscolo granellino di polvere, di fronte all'imponenza di quella grandiosa costruzione: non poteva essere opera di Babbani. C'era la magia di mezzo.
Tuttavia le sue riflessioni furono interrotte dalla volpe argentea, che sgattaiolò dentro l'edificio senza dargli il tempo di ammirarlo a lungo. Edmund fu costretto a seguirla nel buio. Avanzò cauto, a causa dell'oscurità, e non riuscì a capire quali stanze stessero attraversando, ma dopo qualche minuto, giunsero ad un arco che dava sull'esterno.
Un'immensa vallata si aprì sotto i suoi occhi: illuminate dalla luce della luna, si ergevano rovine antiche, testimonianza della grandezza di un tempo, ormai tramontata. Edmund seguì il Patronus a forma di volpe lungo un sentiero ghiaioso che attraversava la vallata, finché questa non entrò in un altro edificio dalla facciata monumentale scavata nella roccia. Il ragazzo entrò a sua volta e, guidato dalla luce argentea dell'animale, attraversò cunicoli bui e sempre più stretti, fino a che non giunsero in un vicolo cieco. La volpe finalmente si fermò per girarsi a guardare Edmund, ma dopo qualche secondo, attraversò il muro davanti a sé e scomparve.
«Ehi!» protestò il ragazzo. Si avvicinò alla parete di roccia per studiarla e capire se ci fosse un qualche passaggio segreto. Dopo alcuni minuti di attenta analisi, si arrese all'evidenza dei fatti: non era altro che nuda pietra. «Ehi, che scherzo è questo?» gridò, battendo i pugni contro la parete. Non fece a tempo a ripetere la domanda che sentì dei passi ovattati provenire dall'altra parte. Improvvisamente meno gagliardo, si appiattì contro il muro laterale, nella speranza di non essere notato grazie al buio. Prima di ipotizzare qualsiasi piano, era meglio capire chi stava venendo a prenderlo.
Attese solo qualche secondo, poi una voce femminile sussurrò qualcosa e la parete di roccia svanì. Al suo posto, apparve una ragazza con un lungo vestito azzurro e la bacchetta puntata in avanti, illuminata da una fiaccola appesa alla parete. Ma non fu quello ad attirare l'attenzione di Edmund, quanto il suo aspetto fisico: nonostante la situazione critica, il giovane ebbe l'impressione che un angelo gli fosse apparso davanti. I lunghi capelli neri, la pelle chiarissima e quei due enormi occhi di un azzurro tanto intenso da essere quasi inguardabili rendevano la fanciulla simile ad una antica divinità greca.
«Chi sei? Fatti vedere!» gridò la ragazza, pronta a scattare a qualsiasi movimento.
Edmund si perse a fissare quegli occhi così simili ai suoi e finalmente capì. «Melita McFarren» sussurrò, uscendo dal suo nascondiglio.
La ragazza si irrigidì e scrutò nell'ombra per vedere chi fosse l'uomo che l'aveva riconosciuta. «Chi sei?» ripeté sibilando.
«Sono Edmund Burke» si presentò lui, abbassando la bacchetta per dimostrare le sue buone intenzioni.
«Sei l'esperimento?» domandò, con una freddezza quasi innaturale.
Edmund si sentì ghiacciare, come se qualcuno gli avesse rovesciato addosso un secchio di acqua gelida. Il “sì” che gli uscì dalle labbra fu più debole di un sospiro di vento. Che fine aveva fatto la bambina amorevole che gli aveva salvato la vita?
Melita fece un secco segno con il capo, ma non accennò ad abbassare la bacchetta. «Vieni, mio padre ti stava aspettando» fu il suo asciutto commento. Dopodiché si incamminò lungo il cunicolo senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.
Edmund chinò il capo e la seguì silenzioso. Aveva immaginato in un modo tutto diverso il suo primo incontro con Melita: si era figurato una ragazza dai grandi occhi azzurri che gli correva incontro, lo stringeva in un abbraccio e lo chiamava “fratellino”, scoppiando in lacrime per averlo ritrovato dopo tanti anni. Invece, la donna ormai adulta che gli si era presentata davanti era stata gelida e inaspettata come una nevicata d'estate, i suoi occhi due schegge di ghiaccio. Che cosa le era successo?
Melita si fermò davanti ad una porta di legno gonfia di umidità. «Padre?» disse, bussando con energia. Dopo una manciata di secondi, visto che nessuno rispondeva dall'interno, Melita spalancò la porta senza troppi riguardi. La stanza che si aprì sotto i loro occhi era in realtà una piccola grotta puzzolente di cera e di umido, traboccante di libri e pergamene. Dietro una scrivania disordinata stava seduto un vecchietto raggrinzito, con il capo reclinato sulla poltrona, che al loro ingresso trasalì come se si fosse svegliato di colpo.
Edmund faticò parecchio a riconoscere in quella ragnatela di rughe i tratti di Sigmund McFarren: erano passati solo diciassette anni dal ricordo che aveva visto a Lerwick, eppure l'uomo che aveva davanti pareva un novantenne incapace di reggersi in piedi. Sarebbe stato in grado di dargli le risposte che cercava?
Edmund scosse la testa, ma decise comunque di avvicinarsi alla scrivania e presentarsi: «Sono Edmund Burke, signor McFarren. Sono...»
«...vivo» lo interruppe McFarren. I suoi occhi persero quella patina di vecchiaia che prima li rendeva offuscati, tornando vivi e pieni di luce.
«Sì, signore» replicò Edmund, perplesso e sorpreso. Certo che era vivo. Come avrebbe dovuto essere?
Morto. gli ricordò una vocina fastidiosa dentro la sua testa. Morto come Adam, il primo bambino modificato dagli Interventisti, che non aveva superato l'adolescenza.
«Incredibile, sei sopravvissuto fino ad adesso. Fatti guardare...» commentò proprio in quel momento McFarren, alzandosi dalla sedia dietro la scrivania e avvicinandosi a lui per esaminarlo come un medico con il suo paziente. «Sei sano, perfetto» constatò, spingendosi meglio gli occhialetti tondi sul naso e scrutandolo con attenzione. E solo quando gli fu di fronte, esclamò: «Guarda, Melita, ha i tuoi occhi!»
La ragazza si limitò ad uno sbuffo disinteressato, così Edmund decise che era ora di interrompere i convenevoli per fare la domanda che gli premeva di più: «Signore, cosa sono io? Sono un clone di Voldemort?»
Per un attimo, McFarren sembrava ringiovanito di fronte alla scoperta che il suo esperimento aveva funzionato, ma subito una ruga attraversò la sua fronte e un'ombra cupa scese su di lui. «Povero, povero ragazzo» borbottò sconsolato, scuotendo la testa. Si diresse verso la libreria alle sue spalle e cominciò a frugare tra i libri, alla ricerca di chissà cosa.
«Signore?» lo incalzò Edmund, incapace di attendere oltre.
McFarren si voltò verso di lui, il volto una maschera di rughe, ognuna delle quali rappresentava un attimo di sofferenza. «Ho commesso un peccato orribile, un abominio. Ho infranto le regole e ora devo trovare il modo di rimediare...» la sua voce si spense in un sussurro.
«Quali regole, signore?» domandò Edmund, senza capire le farneticazioni dell'uomo.
McFarren indicò una pergamena appesa al muro, che recitava tre norme in latino:

1. solus Deus creat, Interveniens intervenit;
2. vita non creatur, sed fingitur;
3. fingere intervenire cum coscientia in ente innaturo est, ut ingenium et mores amplificentur antequam funditus creatus sit.*

Edmund operò una veloce traduzione e capì cosa McFarren intendesse nel dire che aveva infranto le regole: lui non si era limitato ad intervenire sul feto, lui ne aveva creato uno dal nulla, modificando il patrimonio genetico di Voldemort.
«Non avrei mai dovuto accettare» mormorò sconsolato McFarren. «Ho creato ciò che voleva... non avrei mai dovuto accettare.»
«No!» gridò Edmund, colto da una foga improvvisa. «Non ha creato ciò che voleva Voldemort, perché io non sarò mai come lui! Io sono capace di amare! Non seguirò mai la sua strada e, se anche mi trovasse, morirei piuttosto che unirmi a lui!» sentenziò con decisione, ricordando il discorso che gli aveva rivolto il professor Silente.
McFarren lo guardò con compassione, come si guarda una bestiola in gabbia che cerca ostinatamente di liberarsi dalla sua prigionia. «Non è così semplice, ragazzo» mormorò sconsolato l'uomo.
Edmund rimase interdetto: certo che era semplice! Bastava non farsi trovare da Voldemort, bastava sfuggire ai suoi gregari; e, se anche l'avessero preso, sarebbe morto piuttosto che unirsi a lui. «Cosa c'è di complicato?» domandò, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
McFarren era il ritratto del più puro pentimento. Sospirò afflitto, poi cominciò a narrare: «Lui voleva un esercito che non solo fosse a sua immagine, ma anche obbedisse ai suoi comandi, come forse ricorderai. Per questo, nel creare i feti, ho imposto loro una maledizione terribile: quando udirai la sua voce pronunciare le parole: “surgat servus, periat homo”, la tua volontà si annullerà e non sarai altro che un burattino nelle sue mani, come tu fossi sotto un Imperio talmente potente dal quale non si può sfuggire.»
...un Imperio talmente potente dal quale non si può sfuggire.
Le ultime parole restarono sospese nell'aria, pesanti e oscure.
Edmund impiegò qualche secondo a realizzare quanto aveva udito e, nel farlo, rimase pietrificato. Le gambe cedettero, sentì il calore abbandonare il suo corpo, ormai scosso dai tremiti, minuscole gocce di sudore freddo gli imperlarono la fronte.
Una maledizione.
Una sola frase pronunciata da Voldemort. E sarebbe stato null'altro che un'arma nelle sue mani.
Che senso aveva avuto farsi convincere che lui non era come Tom Riddle? Che lui sapeva amare, che non sarebbe diventato malvagio...
Nulla poteva contro la maledizione impostagli quando non era altro che un ammasso di cellule in una provetta. Non poteva resistergli. Un crampo gli perforò la parete dello stomaco, come se una lancia arroventata l'avesse passato da parte a parte. Si accasciò a terra. Urlò, ma non se ne rese nemmeno conto. Voleva solo dissolversi e restare inglobato in quel pavimento di pietra grezza per il resto dell'eternità. Cessare di esistere, cessare di soffrire.
E salvare così la vita a tutti coloro che gli stavano attorno.
Qualcuno (forse Melita? Ma era forte per essere una ragazza) lo aiutò a sollevarsi e lo fece sedere sulla sedia che stava dietro la scrivania.
«Ragazzo.» La voce era lontana e soffocata.
«Ragazzo.» Insisteva. «Edmund.»
«Burke!»
Il grido di Melita lo scosse. Finalmente il suo respiro ritornò regolare, il tremito si attenuò e Edmund poté riaprire gli occhi, che nemmeno si era accordo di aver serrato. La testa girava, ma era abbastanza cosciente da riconoscere McFarren ad un soffio dal suo volto. «Non tutto è perduto» gli sussurrò il vecchio, con un sorriso semi sdentato che voleva essere incoraggiante.
Edmund scosse la testa, convinto che si trattasse solo di un banale tentativo di rinfrancarlo.
«Non disperare, c'è ancora una possibilità.» L'insistenza di McFarren era quasi commuovente, ma malgrado tutto Edmund si costrinse da ascoltarlo.
«Io mi sentivo terribilmente in colpa per quello che avevo fatto, così ho iniziato a fare delle ricerche cercare.» Mentre l'uomo spiegava, si era allontanato da lui e aveva cominciato a frugare tra i suoi libri e i gli appunti sparsi. «Non siamo qui a Petra per caso, sai? Hai mai sentito parlare dell'epopea di Gilgamesh? L'uomo mortale che ricerca l'immortalità...»
Gilgamesh? Chi diavolo era? Quel vecchio stava farneticando. Le sue parole non avevano senso.
«La ricerca dell'immortalità è un filone che attraversa la nostra storia fin dalle origini.» McFarren, preso da una frenetica eccitazione, gli metteva sotto il naso varie pergamene che avevano l'aria di essere parecchio antiche, scritte in alfabeti e linguaggi lontani nel tempo e nello spazio. «Gilgamesh però non riuscì a raggiungere il suo obiettivo e io so perché: cercava la Mela d'Oro nel posto sbagliato! Non era più qui: dall'Eden, era già stata trasportata nel giardino delle Esperidi... sempre che non si tratti dello stesso luogo. Quello non lo so, non sono ancora riuscito a capirlo.»
Edmund era decisamente frastornato: non riusciva a seguire il filo del discorso dell'uomo. Sempre che ce l'avesse, un filo. «Mela d'oro? Eden? Cosa significa?» domandò incerto.
McFarren sorrise soddisfatto, come se avesse appena fatto una scoperta sensazionale per il destino dell'umanità. «”Mela d'Oro” è il nome che io ho dato a questo manufatto mitico che riappare nelle varie epoche, proprio come la Bacchetta di Sambuco. E ha sempre lo stesso valore: dona l'immortalità e la vita.» La spiegazione di McFarren non accese nessuna luce nella mente nebulosa di Edmund, e lui dovette leggerglielo in faccia, perché esclamò con voce pregna di pathos: «Non capisci, ragazzo? La Mela d'Oro può spezzare la tua maledizione!»
Finalmente Edmund si illuminò: nonostante tutto c'era ancora una speranza! Avrebbe potuto rompere l'incantesimo e salvarsi da quell'incubo in cui era precipitato. Anche lui contagiato dall'eccitazione di McFarren, domandò pieno di aspettative: «Dove la posso trovare?»
Ogni possibile risposta del vecchio Interventista, fu bloccata da un rumore di esplosione che li colse tutti di sorpresa. Improvvisamente immobili, tesero le orecchie per captare qualche altro suono indesiderato.
E quello si fece sentire: voci soffocate, una qualche maledizione e un altro botto.
Fu Melita a riprendersi più alla svelta. «Ci hanno trovati!» fu la sua ovvia esclamazione, ma servì a riportare gli altri con i piedi per terra.
«I miei appunti! Aiutemi, sono troppo importanti!» supplicò McFarren, cominciando a buttare a caso pergamene e libri dentro una cassa. Da qualche parte nel corridoio i rumori si fecero più vicini. Edmund estrasse la bacchetta, il cuore che scoppiava nel petto: chiunque fosse che dava la caccia a McFarren e a sua figlia, non doveva essere gente amichevole.
«Padre, non c'è tempo!» esclamò infatti la ragazza, estraendo a sua volta la bacchetta e agguantando il vecchio per un braccio. Fece per uscire, ma poi parve accorgersi del disorientamento di Edmund; così, per quanto all'inizio non fosse sembrata minimamente interessata ad aiutarlo, gli piantò addosso quei suoi enormi occhi azzurri e gli intimò: «Seguimi.»
Il ragazzo non se lo fece ripetere una seconda volta: sempre con la bacchetta sguainata, rincorse Melita fuori dallo studio di McFarren, lungo un corridoio buio e umido.
Ma, per quanto cercassero di scappare, i rumori e le voci si facevano sempre più vicine, perché il loro procedere era troppo lento a causa della camminata inferma di McFarren. «Ci raggiungeranno» constatò Edmund, mentre avanzava alla cieca nel cuore della montagna.
«Troveranno pane per i loro denti» sibilò in risposta Melita, da qualche parte davanti a lui.
Ad un certo punto il corridoio che stavano percorrendo si aprì in un salone molto più ampio, illuminato da fiaccole che si accesero magicamente al loro passaggio. Una tomba, siamo in una tomba! constatò Edmund, notando che nelle due pareti più lunghe erano state ricavate una serie di nicchie che ospitavano ciascuna un sarcofago in pietra. Tuttavia, non riuscì a capire chi vi fosse sepolto perché, quando erano giunti a nemmeno metà del salone, i loro inseguitori li raggiunsero e cominciarono a scagliare maledizioni.
Edmund si voltò appena in tempo per schivarne una indirizzata alla sua schiena e fu così che poté vedere in faccia chi li aveva aggrediti. O meglio, poté vedere le maschere bianche di sei Mangiamorte incappucciati che li stavano attaccando.
Sei contro tre. Forse avrebbero potuto farcela, se solo McFarren fosse stato in grado di battersi. Ma in quelle condizioni...
Edmund non si arrese: cominciò a rispondere colpo su colpo, di nuovo padrone di sé e della propria bacchetta. Melita cercò di proteggere il padre dal fuoco incrociato di incantesimi, ma non era in grado di contrattaccare i Mangiamorte. Per poco una maledizione non la centrò in pieno petto. Fu così che scintille verdastre andarono ad infrangersi sulla parete di roccia viva sopra le loro teste e un boato rimbombò nella tomba, tanto potente da risvegliare i morti che lì riposavano; e poi una pioggia di pietre franò alle loro spalle, assordando tutti con il suo inaudito fragore.
Edmund, attaccato da entrambi i lati, fu costretto ad abbandonare il combattimento con i Mangiamorte per creare una barriera protettiva contro le macerie che rovinavano al suolo, ma McFarren non fu altrettanto scaltro: la bacchetta in mano, inutile come fosse un bastoncino di legno qualunque, osservò con occhi sgranati gli enormi massi che si staccavano dal soffitto.
E vi rimase schiacciato sotto.
«Padre!» gridò Melita, assistendo alla scena, impotente. «Padre!»
Non appena la frana cessò, un silenzio innaturale calò nella tomba. Piccoli sbuffi di polvere si alzavano dal suolo, creando un paesaggio di un altro mondo.
«Padre?» fu il sussurro disperato di Melita.
Infine la nebbia si diradò, lasciando intravedere tutto ciò che restava dell'ultimo Gran Maestro degli Interventisti: un braccio scheletrico che sbucava da sotto una roccia, la mano aperta e la bacchetta rotolata lontano.
Melita corse incontro a quel macabro spettacolo e si accasciò in ginocchio davanti alla frana, come se volesse raggiungere suo padre, ma i Mangiamorte non sembravano per nulla preoccupati di dover rispettare il suo dolore. Avanzarono minacciosi, forse con dei ghigni soddisfatti nascosti dalle loro maschere.
Edmund si preparò in posizione d'attacco, bacchetta levata e sguardo di ghiaccio, ma sentiva il cuore che gli scoppiava nel petto. La sua via di fuga era stata bloccata dalla frana ed era certo che non sarebbe mai riuscito a batterli tutti da solo.
Era spacciato. Le mani sudate, le gambe tremanti, attendeva il prossimo passo dei suoi avversari.
Ma d'improvviso, senza che nessuno si fosse mosso, Edmund venne circondato da un cerchio di luce che si levò da terra fino al cielo, accecandolo per parecchi istanti.
«Cosa diavolo...?» borbottò, coprendosi il viso con il braccio sinistro.
«Edmund!» esclamò la voce di... Mairead?
«Ganzo, ha funzionato!» esultò quello che pareva proprio essere Bearach.
«Ve l'avevo detto» confermò Dedalus.
Edmund cercò di riaprire gli occhi abbagliati dalla luce per capire cosa stesse succedendo, ma prima che potesse percepire qualsiasi cosa, udì gridare: «Siamo sotto attacco!» E quello era un inconfondibile squittio di Faonteroy.
Scoppiò il finimondo. I Mangiamorte sembrarono riprendersi più velocemente dallo shock e presero ad attaccare i nuovi arrivati i quali, a loro volta, non risparmiarono i colpi. Edmund, al contrario, rimase intontito per qualche minuto, non solo perché la luce l'aveva accecato, ma soprattutto perché si stava chiedendo come avessero fatto i suoi amici a comparire dal nulla proprio intorno a lui. C'erano ovviamente Mairead e Laughlin, poi Moira, Henry e Dedalus, Bearach con Lily, Dominique e persino Faonteroy; infine, cosa ancora più assurda, li accompagnava Rohiall. E tutti stavano duellando contro i Mangiamorte.
Perfino Melita alzò i suoi bellissimi occhi azzurri ricolmi di lacrime, per osservare quello spettacolo bizzarro. «Chi è tutta questa gente?» mormorò esterrefatta, rivolgendosi a Edmund.
Il ragazzo ci impiegò una manciata di secondi prima di rispondere. Ma alla fine ammise: «Sono i miei amici.»
«Già!» asserì con una certa ironia Laughlin che, essendo il più vicino, aveva assistito allo scambio di battute. «E siamo venuti a salvarti il culo. Ora, perché non la pianti di fare la donzella in pericolo e vieni a darci una mano?»
Furono le battute mordaci di Laughlin a risvegliarlo: il suo sarcasmo gli era mancato. I suoi pensieri corsero veloci come la luce: Laughlin, Mairead, i suoi amici, tutti gli erano mancati; e ora, non sapeva bene come, erano comparsi dal nulla per aiutarlo. Non poteva restarsene lì con le mani in mano!
Strinse la bacchetta con maggiore forza e si lanciò nella battaglia. Superò Faonteroy, Bearach e Lily che scagliavano maledizioni contro il medesimo Mangiamorte senza troppo successo: gli bastò un incantesimo silente per cogliere il mago alla sprovvista e spedirlo svenuto contro la parete alle sue spalle.
Da qualche parte dietro di lui, sentì Lily che mormorava sognante: «Quanto è forte!», ma preferì ignorarla e lanciarsi in duello con il Mangiamorte successivo. Un incantesimo, un passo in avanti e il nemico un passo indietro; poi un altro, e un altro e un altro ancora, finché l'uomo non si ritrovò con le spalle al muro. Un colpo di frusta, la bacchetta che si mosse velocissima e anche il secondo Mangiamorte si accasciò a terra ancor prima di potersene accorgere.
Voldemort avrebbe avuto una pessima sorpresa quando i suoi scagnozzi fossero tornati da lui: sei uomini per uccidere un vecchio e una ragazza erano fin troppi, ma era stato sciocco da parte sua non mettere in conto la possibilità di trovare qualcun altro pronto a dar battaglia. Non era una mossa molto lungimirante quella di sottovalutare il nemico: Edmund aveva intenzione di impartirgli una bella lezione di tattica.
Mairead, Laughlin e Dominique, duellando in tre contro uno, riuscivano a tenere testa al terzo Mangiamorte, così Edmund si scagliò contro quello che stava mettendo in difficoltà Moira e Henry. Ma si rese conto che non c'era tempo da perdere, perché il primo nemico che aveva colpito con un incantesimo stordente si stava già riprendendo: non sarebbero riusciti a metterli fuori gioco tutti e scappare senza che qualcuno di loro si facesse seriamente male. Doveva pensare ad un piano. E alla svelta.
Proprio quando una qualche maledizione gli passò ad un soffio dall'orecchio, gli venne in mente il modo per raggiungere l'uscita che stava alle spalle dei Magiamorte.
«Moira!» chiamò l'amica e le fece segno con la testa verso Melita, ancora accasciata a fianco di ciò che restava di suo padre. La ragazza annuì per dire che aveva capito di doversi occupare di lei, poi si disimpegnò dal combattimento e corse in suo aiuto.
Fu allora che Edmund gridò un semplice comando in irlandese: «Dunaigi suile!»
Chiudete gli occhi.
Sperò che i suoi amici avessero studiato abbastanza il corso del professor Saiminiu da poter eseguire i suoi ordini, ma non ebbe tempo di accertarsene perché subito dopo lanciò l'incantesimo: «Lux solis!»
Una luce abbacinante si sprigionò dalla sua bacchetta, invadendo l'intera sala. Edmund non riuscì a vedere cosa stesse accadendo, ma immaginò di aver centrato il suo obiettivo quando sentì le urla di dolore dei Mangiamorte accecati dalla sua magia. Solo quando interruppe il fascio di luce osò riaprire gli occhi: i nemici, momentaneamente abbagliati, barcollavano in mezzo alla sala.
«Ora! Via!» gridò allora Edmund, lanciandosi di corsa verso la porta.
I suoi amici, che evidentemente avevano seguito il suo primo ordine, si affrettarono ad eseguire anche il secondo. Qualche incantesimo volò alla cieca, ma i Mangiamorte non riuscirono a fermarli.
Edmund condusse gli altri a ritroso lungo il corridoio che aveva percorso con Melita, fino alla porta dello studio di McFarren, e poi al muro magico che celava l'ingresso del nascondiglio ed era stato distrutto dai Mangiamorte. Corse a perdifiato, seguito dagli amici, finché non gli giunse una boccata d'aria fresca. «Siamo fuori» sussurrò con il fiato mozzo, quando il cielo ormai azzurro ricoprì la sua visuale. A est, le nuvole tinte di rosa annunciavano l'imminente arrivo del sole mattutino.
«Dobbiamo filarcela alla svelta» constatò Dominique, quando tutti si furono radunati fuori. Le loro facce stanche e provate mostravano che non sarebbero stati in grado di affrontare di nuovo i Mangiamorte.
«Come siete arrivati qui?» domandò allora Edmund, non solo per curiosità ma anche perché sperava che potessero utilizzare lo stesso mezzo per tornare in Irlanda.
Tutti i ragazzi si voltarono in contemporanea verso Rohiall, come se lui avesse una soluzione nascosta dietro la schiena. E, in effetti, qualcosa dietro la schiena ce l'aveva, ma non era per nulla una soluzione: era un problema. «Si è rotto» rivelò sconsolato, mostrando le due estremità del suo Bordone Magico spezzato. «È stato colpito da un incantesimo di quei tipi mascherati.»
Tutti trattennero il fiato, sconvolti dalla notizia: niente Bordone, niente cerchio magico che li avrebbe materializzati in Irlanda. «Non vi posso riportare indietro» fu la conferma di Rohiall ai loro taciti sospetti. «E mamma mi ucciderà» aggiunse poco dopo, con un mugugno doloroso.
Edmund chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. «Ok, riflettiamo.»
Si udirono dei rumori provenire dal cunicolo dal quale erano appena usciti e Bearach fece notare: «Non c'è tutto questo tempo per riflettere.»
Edmund lo ignorò e continuò a borbottare i suoi pensieri: «La Materializzazione no, siamo in troppi. Una Passaporta non so come attivarla...»
«Che ne dite di un tappeto volante?» propose in quel momento Dedalus.
«Dedalus, non è proprio il mom...» cominciò Laughlin, ma si interruppe perché scorse anche lui ciò che aveva attirato l'attenzione del Llapac. «Un tappeto volante!» esclamò, indicando la sagoma che sfrecciava nel cielo.
Edmund parve illuminarsi non appena individuò l'aggeggio che sfrecciava nella loro direzione, guidato da un mago con il turbante degno delle iconografie più folcloristiche del luogo. Sorrise, alzò la bacchetta e gridò: «Accio tappeto!»
L'omino con il turbante non ebbe tempo di impedire l'Incantesimo di Appello, ma riuscì ad estrarre la bacchetta per contrattaccare. Senonché Mairead fu più rapida: «Pietrificus totalus!» gridò e lo sfortunato mago si ritrovò stecchito sul suo tappeto.
«Scusami, amico» commentò Laughlin, quando l'improvvisato mezzo di trasporto fu abbastanza vicino. «È per una buona causa» si giustificò nell'usare un Incantesimo di Levitazione per depositare il mago pietrificato a terra.
«Prego, tutti a bordo!» esclamò allegro Dedalus, come fosse una specie di allegra gita in barca.
Tutti si affrettarono ad eseguire l'ordine, proprio mentre i Mangiamorte sbucavano dall'uscita. Ci fu un rapido scambio di incantesimi, ma Mairead, improvvisatasi guidatrice del tappeto volante, riuscì a portare gli amici fuori gittata.
«È stato divertente!» fu l'ilare commento di Dedalus, non appena furono sufficientemente lontani da non essere più in pericolo.
«Abbiamo rischiato la vita» replicò straniato Faonteroy. «Scusa, ma io ho tutt'altro concetto di divertimento.»
E, strano ma vero, per una volta tutti si trovarono d'accordo con l'altezzoso Purosangue.





* Traduzione: 1. solo Dio crea, l'Interventista interviene; 2. la vita non si crea, si modella; 3. modellare è intervenire con coscienza su un ente in formazione per migliorare le caratteristiche prima che sia totalmente creato.



Carissimi amici,
sono tornata. Vi prego di perdonarmi per questo lunghissimo periodo di assenza, ma ho avuto un brutto momento. Problemi vari hanno acuito la mia già scarsa ispirazione e per quasi tutta l'estate non ho scritto una singola riga delle mie storie. Ora va un po' meglio, grazie allo slancio che mi ha dato Julia Weasley con il suo racconto.
Non posso garantirvi che non riaccadrà, ma di una cosa state certi: non abbandonerò MAI la saga e i miei personaggi, lasciandovi così a bocca asciutta. Di questo potete esserne sicuri!

Comunque, finito il momento serio, torniamo a noi (o meglio, a loro, gli eroi del FIE!).
Edmund è un po' un cretino, potete anche dirglielo, se volete. Ma se non si cacciasse un po' nei guai non sarebbe un buon Raloi (né un buon protagonista!). Per fortuna ci sono i suoi amici! ;)
Se vi state chiedendo che fine ha fatto la dolce bambina Melita e chi sia questo pezzettino di ghiaccio, lo saprete nel prossimo capitolo.
Comunque, le rivelazioni super-sconcertanti sul conto di Edmund sono finite: ora sapete tutto. Compatitelo un po', poverino, dai!
Domande sulla Mela d'Oro e sulle folli farneticazioni di McFarren, non fatemene, tanto non vi rispondo. Voglio dire, saranno oggetto di tutto il prossimo racconto! =)
Ah, e McFarren era destinato alla morte (alla tenera età di manco 70 anni, ma la fuga costante e il rimorso l'hanno invecchiato più del necessario), perché altrimenti avrebbe rivelato tutto a Edmund e io non avrei materiale per scrivere il sesto racconto!
Ora, come piccolo segno di scusa, vi lascio una marea di link e disegni!
QUI una foto del canyon di Petra;
QUI una foto del Tesoro, ovvero l'ingresso a Petra;
QUI una foto della facciata esterna della Tomba del Palazzo, dove sono rifugiati McFarrne e figlia;
QUI una foto di come mi sono immaginata l'interno della tomba dove finiscono a combattere contro i Mangiamorte;
QUI un vecchio disegno di Melita, così come appare a Edmund;
QUI un ancor più vecchio disegno di Edmund, nel vestito regalatogli da Daire Maleficium per i 17 anni, in atteggiamento aggressivo verso i Mangiamorte;
QUI, invece, la foto di Melita (ovvero, Eva Green ne "Le Crociate");
QUI, infine, una cosa che non c'entra un tubo, ma volevo farvi vedere: è l'interno della biblioteca Queriniana di Brescia (dove abito)... non vi sentireste un po' a Hogwarts, se poteste studiare qui dentro? *-*

Grazie a tutti voi per la pazienza che dimostrate nei miei confronti.
Il prossimo capitolo è quasi pronto, ma voglio prendermi comunque un po' di tempo per portarmi avanti (siamo ormai alla fine di questo quinto racconto). Per cui, ci rivediamo fra tre settimane, domenica 22 settembre.
A presto,
Beatrix

   
 
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