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Autore: artemix_    07/09/2013    2 recensioni
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"Ci metto qualche secondo ad accusare quel colpo. – E’ questo quello che volevi? Che TI dimenticassi?! Ma ti rendi conto di cosa mi stessi chiedendo? – dico, spingendolo via con un colpo solo – Chiedere, poi? Te ne sei andato con uno stupido biglietto telefonico lasciandomi lì per strada, morto con te su quel marciapiedi. Non ti ho visto più, Sherlock. "
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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PART 2 – one chance to keep me from falling.

E’ questo ciò che è successo. I giorni passano come una folata di vento, non mi accorgo della stagione che cambia, della temperatura che varia, è tutto freddo qui.
Di tanto in tanto guardo il nostro blog, fingo che a te sia interessato di ciò che scrivevo, fingo che tu sia ancora qui a criticarmi per quella tua foto che ho postato.
Giro per casa osservando i dettagli che hai lasciato: la vestaglia appesa alla porta, i tuoi disegni su quei fogli stropicciati che poi lasciavi in giro, il tuo cappello poggiato sempre sul tavolino del salotto come un trofeo che dopo un po’ hai imparato ad apprezzare.
Mi passo una mano sulle guancia destra e la faccio scorrere sulla mascella, sentendo sotto il palmo la puntura e il fastidio di una barba cresciuta. Sento la ruvidezza dei miei baffi che mi pesano leggermente sul labbro superiore. Oggi ho di nuovo e per l’ultima volta la visita dalla psicologa. Mi sento sprofondare giù in quella poltrona, che ha preso la mia forma. Tiro su col naso mentre mi dirigo in bagno e mi preparo.

***

Londra è sempre gremita di persone, nessuna come me si chiede se io ce la faccia ancora a vivere senza Sherlock. E se lui sia ancora vivo. O se lui sia morto.
Guardo passare i mesi, l'orologio controllato ogni ora, senza mai badare alle stagioni.
Sento dentro qualcosa che non ritornerà, sta fermo, assopito nel profondo, lo sento sospirare, ma non si muove.
Questo mese ho rischiato la vita altre tre volte. Non guardo le strade, dimentico i volti delle persone, mi è cresciuta la barba e non mi riconosco neanche io. Le macchine corrono troppo velocemente, non ne riconosco i contorni e finisco in ospedale prima di rendermi conto di essere uscito di casa per fare la spesa. Compro quelle cose che a lui piaceva tenere in casa, quella colazione che lui sbriciolava e che a Mrs. Hudson toccava pulire. Quelle mele sul tavolino del salotto che ora marciscono sotto i miei occhi, solo qualcuna si salva sotto i morsi dei miei denti, gli stessi denti che mi lacerano dentro.
Sopporto a stento il dolore che a volte mi scopro ad urlare con la faccia schiacciata contro il muro.
Urlo dentro, sono cose che mi trattengo e mi faccio scoppiare dentro come piccole cariche esplosive che fanno strage.
E poi le bustine di thè. Ho lavato le tazze, le ho riposte sul tavolino, a volte bevo dalla sua tazza, le ho posizionate in modo che me ne ricordi. Mi brucio la lingua senza aspettare che il thè freddi sotto effetto del latte. Guardo davanti a me, la finestra che fa entrare nella stanza un piccolo spiraglio di luce che mi ricorda che lì fuori c'è ancora un mondo da vivere, nuovi casi da risolvere, persone che potrebbero vivere invece che morire, persone che piangono e persone che perdono. Persone che se non avessero sprecato la vita per qualcuno, ora sarebbero qui.
Stupidi gli altruisti, vero John?, penso, sapendo bene che il primo sarei io, che avrei fatto come lui, che quel bordo di quel palazzo sarebbe stato l'ultima cosa che avrei visto. Stupido, John, che tu ti dica questo.
Chiudo gli occhi e mi passano per la testa le immagini delle recenti morti che mi aspettavano.
Tutto calcolato. Ci sono troppi numeri simili.
Fisso la lenza di luce sul pavimento, costringendomi a pensare, poso la tazza sul vassoio e mi metto con le mani giunte, i polpastrelli destri e sinistri che si scontrano, come faceva sempre lui, come se ciò oltre a provocarmi altra sofferenza, aiutasse le mie riflessioni. Proprio come succedeva a lui.
Cerco di ricordare i dettagli, cercando di auto-convincermi che anche la mia morte potesse essere giustificata. Ricordo le targhe, come mi ha insegnato lui, riesco a scorgere qualcosa e a tenerla a mente. Sono le ultime cose che ho visto prima di salvarmi, sbattendo sempre a terra senza farmi mai male.
LW 73 IVE, LT 63 VE, LT 457 ALI.
Uno dei guidatori si è fermato per aiutarmi ad alzarmi. - Mi chiamo Valentine Ernandes - ha detto - sono un medico.
E la mia risposta. - Anche io, tranquillo.
Un'altra si chiamava Alice.
Ricordo di quel camion quella mattina. "ALI". Stringo le palpebre. Le sopracciglia si corrugano. Sei uno sciocco, John.

***

La cosa bella è che vado a dormire con un peso più grande del mio corpo. Mi sveglio con l'aria tronfia di chi ha avuto un'idea. Scendo per strada e proprio di fronte casa aspetto accada qualcosa. Ho le braccia conserte, tiro su col naso. Il sole sta ancora sorgendo, io con il mio solito giubbotto marrone, proprio sopra la canottiera.
   Se devi morire, morirai, John. Passa un'auto e in quel momento metto un piede sull' asfalto scuro. L'auto sfreccia e mi colpisce in pieno, sbatto la testa contro il vetro. Macchie viola mi riempiono la vista.
   È fatta, John. Ma giuro che l'urto mi ha dato un'ultima allucinazione. Un sovraffollato urlo lontano.

***

I colori dell'ospedale sono un miscuglio di camici azzurri, mura verdi e visi di carne. Gli occhi mi fanno male mentre tento di aprirlo. Una macchina al mio fianco conta i miei battiti, accelera un poco mentre mi agito cercando di ricordarmi il perché sia lì. Un'infermiera bassina si avvicina al mio capezzale, mi guarda negli occhi e sorride dolcemente, pur sembrando tesa. Mi posa un biglietto in grembo. Un normale pezzo di carta.

"Non era quella l'auto, John"

Leggo lentamente sentendomi crescere un uragano dentro. Non c'è firma, non come sempre. Ma spero di sbagliarmi, perché tutto questo non ha senso. Giro il biglietto con le mie dita deboli, mettendomi a sedere. Bevo dal bicchiere d'acqua sul comodino prima di dedicarmi a quelle ultime righe.

 “457, 7 p.m.”

***

Mangio al tavolo di quel ristorante francese sulla strada dove è morto, la stessa. Numero 457. I miei baffi si scontrano contro il bicchiere e di bagnano un po' di vino. Sgranocchio la fetta di pane mentre guardo davanti a me. Ho paura di guardarmi intorno, ho paura di sbagliarmi e allo stesso tempo di avere ragione. Il chiacchiericcio confuso delle persone nel ristorante mi fa distrarre. 
    - Ciao John – sento alle mie spalle. Un sussurro lento che mi fa rinsavire. Mi volto lentamente, ingoio l’ultima mollica di pane. Mi do tutto il tempo possibile.
Mi volto e lo guardo, guardo quest’uomo che mi è mancato, guardo quest’uomo che ho sentito ci fosse ancora, che sapevo non mi avesse abbandonato eppure lo ha fatto.
Rimango con le labbra tese, il respiro bloccato in gola mentre cerco di dare fiato alle parole che purtroppo non riesco a dire.
E’ come fosse resuscitato, quest’uomo. E’ lo stesso, non ha la barba come me, i capelli ricci leggermente cresciuti. Sul volto un’espressione concentrata, adesso al suo volto serio si sostituisce un piccolo sorriso tirato al lato destro delle labbra. Gli occhi azzurri riflettono i miei mentre ancora mi sovrasta con la sua altezza.
    - Sherl… - provo a dire, ma ho un nodo alla gola, mi sembra di avere uno di quei raffreddori che ti sottraggono tutta la forza. Sherlock è la mia influenza.
    - Shhh – prova col contatto fisico. Mi poggia una mano sulla clavicola, le dita fredde sul mio collo. Gira intorno al tavolo e si siede di fronte a me.
    - Io … io ho preso un tavolo a caso, io non sapevo, io credevo soltanto … - cerco di dire, guardando le cose sulla tovaglia ed evitando di guardare lui.
Il suo volto pulito si riempie del sorriso che tratteneva e lo sento ridacchiare.  - Basta John – dice.
Alzo lo sguardo e lo fisso. Ha preso il tovagliolo di stoffa e lo ha legato al colletto della camicia. Il suo sorriso si spegne quando si accorge che adesso ha tutta la mia attenzione.
   John, datti una controllata, mi dico, ritentando a respirare.
Parlo piano. – Sherlock, come?
Si china sul tavolo, appoggiandoci i gomiti e congiungendo le mani davanti a me. – Molly.
    - Molly? – scuoto la testa.
    - Ma non importa tanto il come – dice ritraendosi e poggiando la schiena allo schienale della sedia. – Importa il perché.
    - Perché mi hai lasciato da solo? – alzo un po’ la voce avvicinandomi. – E’ questo che pretendi che io voglia sapere? Non volevo che tu mi lasciassi Sherlock. Ho passato dei mesi d’inferno. Mi sono sentito morire e rinascere soltanto quando sembrava che tu volessi darmi un segno.
    - E l’ho fatto! – urla, fregandosene degli altri. Quando le persone ritornano agli affari loro, riprende a parlare. – E inoltre ti ho salvato.
    - Mi hai salvato? – chiedo con la voce stridula di pianto. Si china di nuovo sul tavolo,nella posizione di prima e tiene il viso a pochi centimetri dal mio. Mi osserva negli occhi come non ha mai fatto, perché stavolta invece di guardare fuori, mi sta guardando dentro.
Deglutisce e lo stesso faccio io, questa vicinanza ci distrugge.
    - Non va bene essere qui, dobbiamo andarcene.
    - Ma Sherlock … - sussurro mentre lo guardo alzarsi.
    - Seguimi – si limita a dire.
Esce dal ristorante con me al seguito, lancio uno sguardo di scuse al sommelier.
Si infila nel vicolo dietro il ristorante.
    - Cazzo, John – strilla, liberandosi di quel peso. – ALI.
Scuoto la testa. – Cosa?
    - …VE  - continua, mentre fa avanti e indietro davanti ai miei occhi.
    - ALIVE – sussurro, mentre mi passano davanti agli occhi le immagini di tutti quei segnali.
    - Ci sono sempre stato! – strilla, voltandosi e puntandomi un dito addosso. Si avvicina a grandi falcate finché non mi ritrovo a guardarlo dal basso in alto. Ho l’impressione che se rispondessi, ricomincerei a balbettare.
    - La stessa bici, John, maledizione – alza ancora un po’ la voce - la stessa bici che ti ha gettato a terra quando sono caduto. Ho detto io a quel ragazzo di passare. Ho detto io che doveva andare così. Dovevi dimenticare, dovevi lasciarmi sparire, non dovevi avere sospetti.
Ci metto qualche secondo ad accusare quel colpo. – E’ questo quello che volevi? Che TI dimenticassi?! Ma ti rendi conto di cosa mi stessi chiedendo? – dico, spingendolo via con un colpo solo – Chiedere, poi? Te ne sei andato con uno stupido biglietto telefonico lasciandomi lì per strada, morto con te su quel marciapiedi. Non ti ho visto più, Sherlock. Non mi hai detto più nulla, Sherlock. Potevi avvertirmi delle tue intenzioni.
    - La mia intenzione era quella di perderci, perché non vederti sapendo che tu mi aspettassi ancora mi faceva del male, John.
Adesso sussurra, guarda a terra, alla sua destra. Sospiro piano, adesso che mi sono calmato. Lo guardo a lungo, chiamandolo con gli occhi, finché lui non alza la testa.
    - Ho cominciato coi segnali quando mi sono reso conto che non stavi vivendo – dice avvicinandosi piano.
    - Sei tu che mi hai tirato fuori da quell’oblio, Sher, come pretendevi che mi ritirassi fuori dal buio senza di te? – chiedo – Non sono così forte come credi.
    - Se è per questo – adesso ridacchia – credevo fossi anche un po’ più intelligente nel capire quello che cercavo di dirti.
Sorrido e mi pizzico il naso con le dita, per poi tornare a guardarlo. E’ di nuovo vicino a me.
    - Avevi intenzione di tornare?
    - Sì, ma è cominciato tutto prima per colpa tua.
    - Non sei così sociopatico, hai salvato delle persone.
    - No, non lo sono – ridacchia di nuovo. Ha il sorriso stampato in faccia.
    - Mi sei mancato, Sherlock – Sta zitto mentre riempie quella poca distanza tra di noi e mi prende il viso tra le mani premendo le labbra sulle mie. Le mie mani gli stringono i polsi, lo trattengono. Qui.
Si stacca per guardare la mia reazione. Lo guardo serio e lui alza le sopracciglia e si libera di una squillante risata, avvolgendomi la testa tra le braccia. Premo la mia faccia contro il suo completo gessato, il solito, prego. Riconosco il suo profumo adesso che siamo così vicini.
    - Cos’è che dovevi dirmi da così tanto tempo? – lo sento sorridere sulla mia testa. La notte e il buio di quel vicolo ci coprono,  siamo gatti.
Rido anche io. – No, Sherlock. Non rifarlo.
Mi chiedo se tutto ciò sia solo frutto della mia immaginazione o se tutta la mia vera vita mi stia tornando tra le mani. Se mi stia recuperando. Perché adesso tutti questi mesi ad aspettare di morire sotto le sue auto, solo per degli stupidi segnali, solo per degli stupidi orari che si ripetevano ogni giorno, per degli schifosi ricordi di morte, mi sembrano già nulla. Adesso ho paura di avere paura di perdere. Più sei convinto di qualcosa, più accade. E io, ora come ora, non voglio pensarci.
    - E’ presto? Non farai nulla? – chiedo ancora contro il suo petto.
    - Arriverò, lo prometto John, tornerò.

FIN - to be continued to 3x01.


A/N:
ehi gente, con questa seconda parte concludo la fanfiction. Spiego anche qui come stanno le cose: ho cercato di vedere una spiegazione al come Sher se ne sia andato, come abbia fatto e io, sia chiaro, faccio parte di quelli che credono lui abbia chiesto un cadavere a Molly per fingere di essere lui e che John sia caduto a terra soltanto perché doveva farlo, in modo da non rendersi conto di quello che stava succedendo, perché John è pur sempre un uomo inteligente. Il ritorno di Sher è piazzato in un "nel frattempo" tra la fine della seconda e l'inizio della terza stagione. Lo scenario del ristorante è chiaro: è quello che vediamo nel teaser della 3 e quindi ho cercato di vederla, sempre arreaverso un POV di John, a modo mio. Questo non è un addio di Sherlock, perché lui ritornerà, prima o poi, per tutti. La cosa di "ALIVE"  è inventata, per modo di dire, poiché sono tutti segnali che Sher fa in modo arrivino a John (persone con le stesse iniziali, targhe dell'auto con lo stesso messaggio, cartelloni pubblicitari etc.), tutte cose che Sherlock cerca di far capitare sott'occhio all'uomo.
Spero vi piaccia, baci.
  
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