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Autore: Carlos Olivera    08/09/2013    1 recensioni
Kyrador.
La più bella cosa che esiste al mondo.
Kyrador è il sogno di ogni uomo.
E' una pudica fanciulla che accende i desideri.
E' una veemente pantera che fa di te la sua preda.
E' una ricca vedova che promette molto ed esige il doppio.
Kyrador ti possiede.
Kyrador ha tutto ciò che puoi desiderare.
Può darti la felicità o condurti alla miseria.
Farti provare la gioia più sconfinata e il più assoluto dolore.
E' il piacere e l'agonia.
Il bianco e il nero.
La vita e la morte.
Semplicemente, Kyrador
Genere: Science-fiction, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Tales Of Celestis'
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Al calare del sole, il quartiere di Finsword si tramutava in una distesa ininterrotta di luci, una immensa pista da ballo all’aperto che attirava giovani da tutta la città.

Quattro strade pedonali pullulanti di locali notturni, discoteche, sale giochi e altri luoghi di ritrovo.

Vi si arrivava facilmente grazie alla monorotaia che girava tutto intorno al centro, e ogni sera era festa scatenata fino alle prime luci dell’alba.

Oltre ai divertimenti e agli svaghi Finsword era anche una rinomata via dello shopping, specializzata in elettronica e tecnologia del divertimento. Quasi tutte le sale giochi che vi si trovavano erano anche dei negozi specializzati, e molte famose squadre di chandra avevano i propri uffici di rappresentanza in qualcuno dei numerosi palazzi che svettavano ai bordi delle strade.

Sia Jason che Pam erano degli habitué di quel quartiere, anche se per ragioni differenti. Pur se schiacciato dalla routine quotidiana e dall’incapacità di riuscire ad imporsi, Jason non aveva perso la sua passione per il chandra e per i videogiochi in generale, e di quando in quando gli capitava anche di fare qualche puntata in una delle molte case da gioco sparse per tutta la zona. Quanto a Pam, secondo lei non c’era miglior posto dove andare a caccia di ragazzi, anche se i suoi interessi vertevano più su sale da ballo e discoteche.

Teoricamente non le sarebbe stato permesso di entrare in uno qualsiasi di quei locali data l’età, ma con la sua posizione e i suoi soldi non era difficile passare sopra le normali regole, e ormai quasi tutti i buttafuori di Finsword la conoscevano e la lasciavano entrare senza fare domande.

Per qualche motivo Jason e Pam si sentivano affini.

La ragazza in particolare, superato il momento di normale superficialità, aveva iniziato a trovarsi bene con quel giovane proletario. Prima d’ora aveva sempre frequentato ricchi figli di papà boriosi e insopportabili, oppure talmente imbranati da risultare quasi fastidiosi, ma quella era la prima volta che si trovava ad accompagnarsi con un ragazzo di così umili origini.

Eppure, nonostante tutto, Jason si stava rivelando una persona tutta d’un pezzo, forte ed orgoglioso, fiero oltremodo della sua condizione e non disposto a farsi mettere i piedi in testa da nessuno.

Proprio come lei.

Forse era per questo che lo aveva scelto. Forse, dopotutto, poteva addirittura essere quello giusto.

«Quindi, sei la figlia di un ambasciatore!?» disse Jason scoprendo l’identità della sua misteriosa spasimante

«Ti prego, non parlarmi di mio padre. Siamo come due estranei. Per piacergli dovrei essere come mio fratello. Insomma, dovrei essere uguale a lui.

Se non sei una cima in tutto sei un incapace, e se sei un incapace non vali due minuti del suo tempo. Non ricordo una sola volta in cui mi abbia detto una cosa gentile o mi abbia sorriso.»

«Ti capisco. Anche con il mio vecchio le cose non vanno troppo bene.»

«Davvero? Per il mio stesso motivo?».

Jason esitò, stringendo le labbra, e una strana luce gli si accese negli occhi.

Era incredibile. Non aveva mai parlato di questa cosa con nessuno, eppure per poco non ne parlava con una ragazza che conosceva da meno di mezza giornata.

Comprendendo di aver chiesto più di quanto fosse lecito Pam, a differenza del solito, scelse di non fare la parte della curiosona inopportuna e rinunciò ad ulteriori indagini.

«Allora?» disse di botto Jason come a voler stemperare la tensione «Andiamo a divertirci?»

«Perché no? Cosa proponi?»

«Lo vedrai».

 

Nel caso di Jason il divertimento si chiamava Ultimate Arena, la più grande sala di videogiochi della città, oltre che la più all’avanguardia.

C’era tutto quello che un appassionato come lui potesse chiedere, perfino delle riproduzioni di vecchi cabinati in uso sulla Terra realizzati estrapolando i dati raccolti nelle banche informazioni delle navi coloniali.

In un mondo in cui la realtà virtuale aveva raggiunto livelli quasi inimmaginabili, con interi mondi ricreati al computer dove era possibile fare qualsiasi cosa ed essere chiunque, quel genere di sale giochi erano una sorta di ponte tra il passato e il futuro, dove assaporare l’atmosfera ed il brivido dei vecchi videogiochi e nel contempo tenersi informati sulle ultime novità.

Fiore all’occhiello dell’Ultimate Arena era la più avveniristica piattaforma da Cube, la moda del momento tra i giovani e i giovanissimi, una sofisticata realtà aumentata dove era possibile misurarsi l’uno contro l’altro in combattimenti all’ultimo sangue pilotando un proprio avatar mosso con la forza del pensiero e dei muscoli assieme.

Non era il chandra, ma era di sicuro la cosa che più gli assomigliava, e a differenza di quello sport per super-ricchi o iscritti alle palestre era disponibile a tutti con un semplice gettone di gioco da due kylis.

Pam si sentì un po’ spaesata nel trovarsi di fronte a tutta quella strana gente, assatanati maniaci dei videogiochi che sbavavano dietro a tutte le novità, ma l’avere vicino Jason la tranquillizzata. Non che non fosse abituata a trovarsi a che fare con dei tipi strani, anzi ne conosceva molti, e anche peggiori di quelli che le stavano attorno in quel momento. Era più che altro l’ambiente a trasmetterle un che di estraneo, di fuori dagli schemi.

Jason la portò alla piattaforma di Cube nella zona centrale, dove era in corso l’incontro tra un giocatore occasionale e quello che aveva tutta l’aria di essere un esperto, un biondino pressappoco della stessa età di Jason parecchio spaccone che faceva il bello mettendosi in mostra e sfoggiando il suo vasto repertorio di esperienza.

Era talmente bravo che fece dello sfidante poco più di un sacco da allenamento, massacrandolo senza dargli il tempo di reagire, e quando, ebbro di vittoria, prese a tessere le proprie lodi compatendo i poveri incapaci che osavano sfidarlo Jason, che per queste cose non era un agnellino, ci vide rosso.

«E và bene, spaccone!» sbottò salendo sulla pedana. «Ora ti raddrizzo io».

Il biondino cercò di dissuaderlo, se non altro per evitare quella che secondo lui era una sfida persa in partenza, ma Jason nel mentre aveva già indossato i guanti e i parastinchi necessari a muovere il suo avatar.

«Come vuoi. Io ti ho avvisato».

Per un attimo Jason intravide un che di famigliare nel volto del biondino, ma questi pensieri si dissolsero nel nulla appena si vide comparire in forma virtuale al centro dell’arena, in guardia e pronto a combattere.

Giocare a Cube richiedeva tecnica ed abilità, ma anche una buona coordinazione tra la mente il corpo, poiché i movimenti erano comandati con il pensiero, mentre gli attacchi bisognava eseguirli manualmente.

Lo sfidante dimostrò una volta di più di essere un tipo pericoloso, portando attacchi precisi e aggressivi, di quelli che ci si aspetterebbe da qualcuno abituato a menare le mani.

Tutto attorno gli spettatori urlavano sovreccitati, e per un istante anche Pam si ritrovò a fare il tifo, se non altro per rendere credibile il fatto di voler apparire come la sua fidanzata.

Jason incassò a lungo, quasi stesse cercando di prendere le misure all’avversario, quindi, da un momento all’altro, passò al contrattacco cogliendo tutti di sorpresa. Il biondo, preso alla sprovvista, si chiuse in difesa, ma Jason lo scardinò come una vecchia serratura, e apertosi un varco prese a piazzare un colpo dietro l’altro.

Tra gli spettatori le urla di incitamento lasciarono spazio allo stupore, atterriti com’erano dalla rapidità e dalla potenza di Jason.

Dopo poco lo scontro si riequilibrò, ma ormai Jason aveva intuito il modo di combattere del suo avversario e, seppur debilitato dai molti colpi subiti, riuscì infine ad assestare l’affondo conclusivo con una combinazione doppio diretto, calcio laterale e diretto allo zigomo che spedì il biondino al tappeto azzerando i suoi punti vita.

Nella sala giochi fu il delirio, e Jason, sceso dalla pedana, venne quasi portato in trionfo.

Non solo aveva vinto, ma, come avrebbe saputo solo in seguito, aveva interrotto un predominio, quello del biondino, che durava da tre settimane, dall’ultima volta cioè che era stato in quella sala giochi.

Svincolatosi dalle strette di mano e pacche sulle spalle tornò da Pam, che lo attendeva con uno strano sorriso stampato sul volto.

«Piaciuto lo spettacolo?»

«Sai picchiare. Ti sei allenato per strada?»

«Più o meno. Mio zio Timothy gestisce una palestra, e io entravo gratis.»

«Ad essere sincera, non ti facevo così pericoloso.»

«È un complimento?» domandò divertito Jason.

Pam ridacchiò, poi nei suoi occhi si accese una luce che tuttavia inquietò Jason, un bagliore stranamente famigliare.

«Adesso però, ti ci porto io in un bel posto.

Vedrai che ti piacerà».

 

Anche in un mondo in cui le navi spaziale erano una prassi il commercio navale, e più in generale le rotte marine, avevano ancora un ruolo di enorme importanza nell’economia di tutte le nazioni di Celestis.

Una nave ed il relativo carburante, che nel suo caso era la pura e semplice energia solare, costava assai meno di un’aeronave che consumava il doppio o un’astronave coi suoi propulsori al krylium, soldi che compensavano le tre settimane che di media occorrevano per raggiungere le due estremità del globo seguendo le correnti.

La nave coloniale Aurora, nel suo arrivare sul pianeta, aveva toccato terra in una zona pianeggiante a ridosso di un ampio golfo, e attorno al golfo si era sviluppata Kyrador, inglobandolo al suo interno ed al tempo stesso usandolo come scudo contro le violente mareggiate dell’oceano occidentale.

Al centro di quell’enorme specchio d’acqua stava Harris Island, un tempo cuore delle attività portuali mercantili, collegata alla terraferma dal Rainbow Bridge.

L’isola aveva una forma vagamente circolare, con una leggera sporgenza verso est in direzione della città, ed era su questa punta che svettava la cosiddetta Statua dell’Esploratore.

Il soggetto reale raffigurato in quel blocco di marmo alto poco più di sei metri era ignoto, anche se qualcuno diceva fosse colui che per primo suggerì di edificare una città in quel luogo; forse per questo era edificato con un sestante ed un compasso assicurati alla cintura, mentre stringeva con una mano l’estremità della roccia accanto alla quale sostava e teneva l’altra alzata verso il cielo, quasi a voler salutare Kyrador, o tutti coloro che, per forza di cose, dovevano passargli davanti per circumnavigare l’isola e raggiungere il mare aperto.

Secondo una leggenda diffusa tra i pescatori e gli operai del porto il molo sei che stava ai piedi della statua era stato per lungo tempo teatro di eventi tristi e luttuosi, ed aveva pertanto assunto la nomea di luogo maledetto.

Vuoi per dare credito alla diceria, vuoi per la posizione scomoda, erano parecchi anni che nessuno si serviva più di quel molo, come di tutta l’isola del resto, che fatta eccezione per la statua era lasciata nella più totale incuria assieme ai suoi capannoni di supporto, diventati ritrovo di sbandati, tossicomani e altra gente poco raccomandabile.

Per Vick era un luogo carico di ricordi, ironici e vergognosi al tempo stesso.

Lì, proprio lì, qualche anno prima era stato sul punto di concludere l’affare più lucrativo della sua carriera, e lì un maledetto poliziotto ostinato era riuscito a beccarlo, dando una svolta imprevedibile e definitiva alla sua vita.

In un certo senso era da lì che tutto era partito. Se quel giorno non fosse stato arrestato sarebbe rimasto un faccendiere e un truffatore, invece che redimersi in piccola parte e diventare un informatore.

Ora tutto quello che voleva era levarsi quel peso dal cuore il prima possibile, e presentatosi al luogo dell’appuntamento con largo anticipo si era messo in febbrile attesa, seduto sul bordo della statua con un occhio rivolto ad ogni più piccolo segnale di pericolo e l’altro alla scheda di memoria che continuava a rigirarsi nervosamente tra le dita.

Ancora poco e tutto sarebbe finalmente finito.

All’una in punto, una macchina sopraggiunse da dietro un capannone. Vick ebbe un sussulto, ma si tranquillizzò subito riconoscendo il modello e la targa, ed alzatosi andò incontro al nuovo venuto.

«Hai spaccato il secondo.» disse cercando nella luce dei fari il volto del suo migliore amico

«Scusa, traffico.» rispose ironico Sean nello spegnere il motore.

Si avvicinarono, restando viso a viso, e per qualche attimo nessuno dei due fu in grado di dire niente, presi com’erano dal rimembrare i ricordi che quel posto risvegliava.

«È stato qui, vero?» si disse Sean

«Esatto. Per te sarò stato solo un martedì, ma per me è stato il giorno che ha sconvolto la mia vita. In tutti i sensi.»

«A volte sei troppo imprudente. È questo il tuo difetto. Del resto non saresti finito in questo casino se non fossi stato così affamato di soldi.»

«Ehi, è il mio lavoro».

A quel punto, passati i convenevoli, fu il momento di andare al sodo.

«Ce l’hai?».

Vick rispose con un cenno del capo, e sollevato il braccio mostrò la scheda di memoria stretta nel palmo della mano.

«Prenditi questa roba. Io non ne voglio più sapere».

L’ispettore esitò un momento, come preoccupato, poi recuperò la scheda, inserendola nel suo comunicatore. L’espressione che comparve nei suoi occhi nel leggere quei nomi e quelle informazioni fu indice evidente del suo sconcerto.

«Te l’avevo detto.» disse Vick quasi con ironia

«Allora non stavi esagerando.»

«È roba pericolosa. Molto pericolosa. Dammi retta, liberatene quanto prima. Più presto questa storia sarà finita, meno persone rischieranno di rimetterci la pelle».

Un tuono riecheggiò in lontananza, e alcuni fulmini presero ad illuminare il cielo notturno giungendo dal mare.

«Sta per piovere.» disse Vick guardando verso l’alto

«Così pare.» rispose Sean come soprapensiero. «Ma toglimi una curiosità. Dove avevi nascosto i documenti originali?»

«Nella riproduzione dell’Aurora. C’erano dei lavori di manutenzione in corso, e ho pensato che fosse il posto ideale. Avevo anche trovato un ottimo nascondiglio. Ma evidentemente qualche inserviente deve averlo trovato».

Dal cielo, Vick portò i suoi occhi verso l’oceano.

«Beh, poco importa. Per quanto mi riguarda, ora è tutto finito».

La mano di Sean che stringeva ancora la scheda di memoria scivolò all’interno della giacca.

«Hai ragione».

Uno schioppo, poco più di un sussurro, risuonò nell’aria, parzialmente oscurato dal fragore lontano di un secondo tuono.

Vick sgranò gli occhi, la bocca piegata in un’espressione incredula, e portatosi una mano all’altezza del ventre, guardandola la vide imbrattata di rosso.

Le gambe gli si fecero di colpo pesanti, incapaci di sostenerlo, e lui cadde esanime sull’asfalto umido e sporco. Avrebbe voluto parlare, ma il sangue gli era già arrivato in bocca, e ne uscì solo un rantolo senza senso.

Pistola di suo padre alla mano, Sean fece qualche passo avanti, e di nuovo i due si guardarono negl’occhi.

«Mi dispiace, amico mio. Non volevo che finisse così».

Di nuovo Vick cercò di parlare, e di nuovo gli riuscì solo di tossire sangue, mentre sentiva la propria fiamma esaurirsi sempre di più.

«Del resto, te l’ho appena detto. Sei troppo avido».

Seguirono altri due colpi, un secondo al petto ed uno alla testa, e Vick il truffatore lasciò il mondo mortale.

Aveva troppo da perdere.

Questo pensava Sean gettando in mare la pistola e la scheda, dopo aver dato ad entrambe un ultimo sguardo.

Nel farlo gli cadde l’occhio verso il centro della città, quel lontano paradiso scintillante di splendore, e come ogni volta montò in lui la rabbia.

Quella massa di ipocriti e di illusi credeva di vivere in un sogno, un’utopia, ma la verità era che nulla era davvero cambiato in quei quattro secoli, e probabilmente non sarebbe cambiato mai.

Da che mondo era mondo, alla ricchezza e al benessere era destino facessero da contraltare malaffare e miseria.

E l’unico modo per impedire a quel sogno, quel miraggio di perfezione al quale tutti bene o male disperatamente si aggrappavano, di infrangersi come un cristallo, era tenere il male sotto controllo, anche talvolta a costo di sporcarsi le mani.

E cosa dire poi delle leggi?

Davvero quegli ubriachi di splendore erano convinti che le leggi dei primi distretti valessero anche negli ultimi?

La legge, e questo Sean l’aveva imparato ormai da tempo, era di quanto più imperfetto vi fosse al mondo, forse anche più di quel sogno senza sostanza chiamato Kyrador. L’unico modo per farla rispettare, o per far credere a tutti che lo fosse, era adattarla all’evenienza, cercando compromessi e chiudendo occhi, perché altrimenti il rischio era di estendere il cancro che già da tempo aveva fatto marcire gli arti inferiori anche alle parti ancora sane, o che sane volevano fingere di essere.

Ma infondo cosa importava a quelli del centro di quello che succedeva al di fuori del loro piccolo mondo splendente?

Non avevano la minima idea di cosa fosse il mondo, il mondo vero, e se volevano continuare a vivere nel castello delle favole affari loro. Ma che poi non venissero a fare della facile retorica ostentando un moralismo borghese che era la summa dell’ipocrisia.

O almeno, questo era ciò che Sean si sforzava di pensare.

Non voleva credere di essere entrato nel vaso di pandora per mera speculazione, per trovare i soldi necessari a pagare spese legali mai saldate e il mantenimento dei propri figli. Voleva pensare di essere solo una pedina, un insignificante elemento di quel gigantesco organismo che per non sporcare parte della propria purezza lasciava pure marcire tutto ciò che era di secondaria importanza, purché continuasse a funzionare.

Afferrato il corpo di Vick per le gambe lo trascinò fin sul bordo del molo, quindi, rivolto ai palazzi in lontananza un nuovo sguardo carico d’odio, lo spinse di sotto, restando ad osservarlo mentre rapidamente si allontanava scomparendo nel buio.

Ci avrebbero pensato le correnti notturne a spingerlo al largo, o più probabilmente sarebbe finito polverizzato negli idrogetti di qualche nave cisterna, come non fosse mai esistito.

Come il corpo fu avvolto completamente nell’oscurità Sean tornò sui propri passi, risalì in macchina e se ne andò.

 

Jason era convinto che Pam volesse portarlo in qualche discoteca o club di lusso del primo distretto, quel genere di posti che a meno di non avere gli stemmi nobiliari cuciti addosso non li si poteva neanche guardare, per questo rimase comprensibilmente basito quando invece la ragazza, seduta sul sellino posteriore della sua moto da corsa di seconda mano, gli chiese invece di imboccare l’uscita della circonvallazione che andava verso la zona del porto, neanche troppo lontano da dove il ragazzo viveva.

La relativa vicinanza ai distretti principali non impediva a quella zona, che pure era dalla parte opposta della città rispetto alla periferia propriamente detta, di tramutarsi la notte in un vero letamaio, patria incontrastata di ogni possibile attività illegale.

«Ecco, ci siamo» disse Pam indicando un localaccio di terz’ordine lungo Teresian Street.

Le facce che popolavano il marciapiede attorno all’ingresso erano di per sé minacciose e poco raccomandabili, eppure Pam vi si avvicinò come niente fosse, salutandone addirittura alcuni che ricambiarono con battutacce e commenti spinti sul suo essere così affascinante e sensuale.

Jason non era tipo da farsi spaventare, ma provò un senso di forte disagio nel passare accanto a quegli energumeni che odoravano di malaffare lontano un miglio, e il disagio aumentò ancora di più appena Pam lo condusse all’interno.

L’odore di fumo toglieva il respiro, e non era certo fumo di tabacco, quel viziaccio che dopo quattro secoli di stentata evoluzione in molti su Celestis non erano ancora riusciti a togliersi. Jason rimase senza parole dalla naturalità con la quale Pam si muoveva lì dentro; aveva intuito che fosse una ragazza “difficile”, abituata a frequentare luoghi che non si immaginerebbero per gente del suo status, ma non pensava potesse esserlo a tal punto.

Dapprincipio cercò di non pensarci, accettando il superalcolico che lei insistette per offrirgli, e assordato dalla musica lanciata a tutto volume provò a gettarsi nella mischia.

Tutto era così strano, così fuori dal mondo.

Da un istante all’altro il giovane si ritrovò da solo in mezzo a tutti quegli estranei, assatanati urlanti con gli occhi fuori dalle orbite da quanto parevano storditi, e anche lui ad un certo punto sentì di stare perdendo i contatti con la realtà.

Tra la musica, quel fumo nauseabondo e tutto il resto, Jason si sentì come risucchiare, mentre la testa prendeva a girargli ed a fargli un gran male. I volti delle persone tutto intorno, ai suoi occhi, diventavano sempre più sfocati, maschere spaventose dai contorni indistinguibili, e così anche l’ambiente, con tutte quelle luci intermittenti, quegli psichedelici giochi con il laser e quel pavimento reso così scivoloso dai litri di alcolici finitici sopra.

La gola e il naso gli bruciavano da impazzire, faticava a respirare, ed il suo tentativo di ballare al ritmo di quella sottospecie di musica si tramutò sempre più in un ondeggiare senza senso, come di un ubriaco.

Jason non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Avrebbe voluto andarsene, ma una parte di lui sembrava come inebriata da quella sensazione tenendolo inchiodato lì, incapace di pensare lucidamente.

Pam nel frattempo era sparita, scomparsa in quel dedalo di facce come un fantasma, nello stesso modo in cui il pensiero stesso di lei lentamente iniziava come a scomparire dalla mente di Jason.

Di colpo, un’immagine si accese come un lampo nella mente del ragazzo, accompagnata da una serie indistinguibile di suoni, rumori e voci.

Un bicchiere infranto, un corpo a terra, una sirena spiegata, due volti urlanti, e il grido straziante di un pianto disperato.

Fu come essere colpiti da una scarica di teaser.

In un istante Jason riacquistò la lucidità, e tutto gli parve chiaro.

Ora riconosceva quel fumo. Quell’olezzo maledetto. Si era sforzato a tal punto di dimenticare ogni cosa che aveva finito per scordarsi anche quell’odore.

Furiosamente prese a cercare Pam. Forse, o probabilmente era quello che voleva credere, quella ragazza non aveva idea del posto in cui era finita, e doveva allontanarla assolutamente prima che succedesse qualcosa di irreparabile.

«Levatevi!» urlò aprendosi la strada tra gli altri clienti. «Pam, dove sei? Dobbiamo andarcene di qui alla svelta!».

A forza di spintoni, e dopo aver esplorato ogni centimetro di quel localaccio sovraffollato, finalmente la trovò, seduta ad uno dei tavoli più appartati della sala assieme ad un tipaccio che definire minaccioso era riduttivo, con al collo un pendente con l’effige del culto di Ela, e ad altri ragazzi più o meno della sua età.

Ciò che vide lo lasciò sconvolto, anche se una parte di lui probabilmente si aspettava di trovare una scena del genere.

Di tutti i giovani raggruppati attorno a quel tavolo solo Pam pareva conservare un briciolo di lucidità, per quanto anche lei avesse ormai lo sguardo parzialmente offuscato dalla robaccia che stava sniffando.

Fra i vari modi in cui la lilith poteva essere assunta, la forma in polvere da sniffare o fumare mescolata al tabacco era notoriamente considerata la più innocua, ma questo non le impediva di essere una dispensatrice di morte prima che di sballo.

Quando Pam, accortosi di lui, si voltò a guardalo, Jason rimase atterrito nel vedere cosa erano diventati i suoi occhi.

«Jason.» disse togliendosi dalla punta del naso alcune tracce di polvere blu. «Sei arrivato giusto in tempo. Vuoi favorire?»

«Che stai facendo?» ringhiò il ragazzo a denti stretti

«Non lo vedi tu stesso? Avanti, ho pagato anche per te. Non fare complimenti. Il mio amico Thojir ha la roba migliore della città».

Pam fece per tirare su la sua quarta riga di polvere, e a quel punto Jason si sentì esplodere dentro.

«Adesso basta!» urlò avventandosi su di lei e strappandole la canna di mano

«Che fai, idiota!?» replicò lei con gli occhi sbarrati.

Lo spacciatore, vedendo Jason gettare via con un colpo di mano tutta la polvere accumulata sul tavolo, andò su di giri ringhiando come una tigre, ma Pam riuscì fortunatamente a calmarlo prima che ne nascesse una situazione dai risvolti potenzialmente tragici.

«Lascia stare, pago io» disse, per poi tornare a guardare Jason. «Si può sapere che ti prende?»

«A me!? A te cosa prende! Stai lontana da quella merda. Hai deciso di morire?»

«E fai tante storie per un po’ di polvere? È roba innocua, tagliata milioni di volte. Ce ne vorrebbe un autotreno per riuscire anche solo a sentirne l’odore.»

«Ah davvero? Forse allora sono io quello sballato, perché secondo me questo posto puzza da far vomitare, e tu stai già uscendo di testa. Vieni subito via prima che ti si frigga il cervello».

Jason fece per prenderla per un polso, ma lei si divincolò serrando i denti.

«Tu pensa agli affari tuoi! Ma chi ti credi di essere? Io faccio quello che mi pare!»

«E ciò implica finire al cimitero? O in un centro per tossici? Ci sono stato in uno di quei posti, e puoi credermi. Non sono esattamente come la tua bella villa di Fhirland

«Sei solo un ragazzino senza palle. Basta un po’ di polvere per metterti tutta questa paura? Allora ti avevo decisamente sopravvalutato».

Per un istante Jason sentì di stare perdendo il controllo, poi un’immagine gli passò nuovamente davanti agli occhi, sovrapponendo al volto di Pam quello di una persona a lui famigliare.

«Lo sai perché io e mio padre non ci parliamo più?» disse guardandola con un misto di rabbia e comprensione. «Perché ogni volta che ci incontriamo non facciamo altro che accusarci a vicenda della morte di mio fratello. Aveva sedici anni quando è stato chiuso nel centro di recupero, e neanche diciassette quando gli hanno dovuto sparare dopo che aveva quasi sbranato una dottoressa.

La lilith e molte altre porcherie gli avevano consumato il cervello, e l’ultima volta che l’ho visto non sembrava neanche più un essere umano.

Vuoi diventare così? Vuoi finire come lui?».

Di fronte ad un racconto così macabro Pam esitò, restando lunghi secondi con la bocca spalancata e gli occhi socchiusi, ma poi, nell’istante in cui Jason cercò di prenderle nuovamente la mano, la pazzia si impadronì nuovamente di lei.

«Non osare toccarmi! Chi ti credi di essere per farmi la predica? Io faccio della mia vita quello che mi pare! Perché voi non volete capirlo? È la mia vita! La mia! E non permetto a nessuno di decidere per me! Nessuno deve decidere per me! Né mio padre! Né mia madre! Né tu!».

Pam parve calmarsi, ma era solo apparenza. Quando guardò nuovamente Jason, nei suoi occhi vi erano una pazzia ed un astio quasi inconcepibili.

«Tu» ribadì. «Che non sei altro che uno schifoso lavavetri. Un disgraziato che pulisce bagni e lava pavimenti inseguendo un sogno che sa che non si avvererà mai».

Suo padre, per quanto avessero spinto al limite le loro litigate molte volte, non aveva alzato le mani su di lei neanche una volta, per questo prima di quel momento Pam non aveva mai conosciuto il dolore di uno schiaffo.

Fu una cosa innocua, per quanto potesse essere innocuo il manrovescio di un ragazzo che non si era mai trattenuto nel distribuire pugni alla prima occasione, eppure persino Jason rimase un momento stupido per la fermezza delicata che era riuscito ad infondere in quel colpo.

Pam restò di sasso, ma ancora una volta la droga ebbe il sopravvento quasi subito, e lei giratasi sputò in faccia al ragazzo guardandolo adirata. Eppure, i suoi occhi parevano lacrimare mentre lo faceva.

«Vattene. Non voglio più vederti. Tu sei come lui».

In altri tempi Jason non avrebbe mai perdonato una simile offesa, ma stavolta la belva orgogliosa che era lui non riuscì a destarsi.

«Fa quel che vuoi» mugugnò pulendosi con la maglietta. «Ma non contare su di me. Col cavolo che io ci passo un’altra volta per tutto questo. Hai ragione, la vita è tua. E se vuoi gettarla alle ortiche non sarò io a fermarti».

Detto questo Jason se ne andò, risoluto e senza fermarsi, ma con una strana sensazione nel petto che non smise di tormentarlo mentre si incamminava lungo il marciapiede allontanandosi nella notte.

  
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