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Autore: Valpur    15/03/2008    3 recensioni
Lui è il Grande Nord. È neve e ghiaccio, è terra sterile priva di luce e colori come la sua Finlandia quando cala il sole.
Ma il suo sangue è caldo, la sua mente troppo vivace...
Jarva si fa troppe domande: nei luoghi più bui di Londra non troverà le risposte che cerca, ma solo la seduzione della paura.
[Ultimo capitolo online.]
Genere: Thriller, Sovrannaturale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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Driiiin

Driiiin.

Le sei e mezza. La sveglia squillò impietosamente sul comodino dello spoglio appartamento in King William Street.

Jarva si era addormentato due ore prima. Con un grugnito stese il braccio e colpì la sveglia col dorso della mano, spegnendola e facendola cadere a terra. Per alcuni istanti rimase disteso con gli occhi chiusi, cercando di rimettersi in contatto col mondo.

Aveva la vaga consapevolezza di essersi appena destato da un sogno particolarmente vivido, ma non riusciva a ricondurre alla memoria che pochi dettagli… un parco lussureggiante, quasi un bosco, e la luce verde del sole attraverso le foglie che brillava su tante superfici di pietra. In mezzo, in un ampio prato, un edificio alto e massiccio, dal tetto appuntito e slanciato… una chiesa, forse?

Jarva sbuffò. Non era abituato ai sogni: di solito aveva il sonno troppo leggero, e al risveglio comunque non conservava ricordo delle eventuali esperienze vissute durante il sonno.

A tentoni nel buio cercò e raggiunse gli occhiali. La penombra si fece più definita quando finalmente li ebbe inforcati.

Le sei e trentacinque. Entro otto minuti doveva essere pronto per uscire.

Agguantò il pacchetto di sigarette, ne infilò una in bocca e l’accese. Con un vago capogiro assaporò la prima boccata di fumo e la nicotina che entrava in circolo. Quasi con sollievo esalò il fumo.

Jarva era un tipo incredibilmente metodico e preciso. Maniacale, dicevano alcuni.

I vestiti erano piegati su una sedia e disposti già nell’ordine in cui li avrebbe dovuti indossare. La valigetta con il portatile e i documenti ricevuti dal professor Engle era appoggiata davanti alla porta, di fianco alle scarpe.

Si lavò i denti e la faccia, indossò con un brivido di fastidio le lenti a contatto, e dopo sette minuti e quaranta secondi infilò le scarpe.

In perfetto orario, si disse compiaciuto.

Ormai era a Londra da quasi un mese e la primavera iniziava a farsi insistente. Non c’era mai il sole: il cielo non era mai limpido e terso come in Finlandia nelle belle giornate; la luce giungeva piuttosto come una radiazione indefinita da tutto il cielo, sempre velato di grigio.

A Jarva tutto sommato andava bene così: gli feriva di meno gli occhi.

Cullato dal movimento del treno che l’avrebbe condotto ad Oxford posò lo sguardo sul plico di fogli che aveva un grembo: le istruzioni di Engle.

Certo, la faceva facile il professore: ascoltare le testimonianze, confrontare gli esiti degli esami, gli elettroencefalogrammi… peccato mancassero tutti quei corollari che rendevano l’operazione un inferno.

Morgan Allen, per esempio. L’antitesi perfetta di Jarva: rideva e parlava troppo, trascinato da uno zelo che aveva un che di mistico. Era caotico come pochi altri e in perenne ritardo, al punto che le giornate di lavoro iniziavano sempre con la stessa conversazione, di solito intorno alle otto e quaranta. Il telefono di Jarva –recentemente dotato di una nuova scheda- squillava quando questi si trovava già da  dieci minuti davanti alla porta dello studio.

“Pronto?”

“Jarva oddio scusami sono in ritardo lo so lo so lo so ma c’era traffico non ti immagini quanto e io…”

Sospiro.

“Morgan, piantala con questa balla. Abiti nel campus, lo so perfettamente. Non ti è suonata la sveglia?”

Imbarazzo.

“Ecco… sì, sì, proprio così.”

“Dimmi la verità: tu avevi puntato la sveglia, vero? O ieri sera sei rientrato a un orario improbabile e…”

“Arrivo!”

La telefonata si concludeva così, e dopo pochi minuti –che andavano comunque a sommarsi al già inammissibile ritardo- Morgan appariva in fondo al corridoio, con i capelli sciolti e spettinati, le occhiaie e un sorriso irritante.

Jarva non sopportava questo modo di essere. Come se il ritardo e la scarsa attenzione non fossero pecche gravissime, diamine!

Eppure in Morgan c’era qualcosa che impediva di serbargli rancore a lungo. Forse era l’ardore che metteva in ogni cosa che facesse, o la sincerità a volte imbarazzante che lo caratterizzava… o quel sorriso disarmante…

Guardando fuori dal finestrino del treno, Jarva si riscosse di colpo.

Piantala. Si può sapere cosa ti prende? Concentrati!

Già, per qualche misteriosa ragione era impossibile non sentirsi attratti da Morgan. Nonostante i suoi mille difetti era un buon compagno di lavoro: spesso capiva al volo le cose prima ancora che Jarva gliele dicesse, e stava imparando come prendere l’algido albino, defilandosi quando la situazione volgeva al peggio.

Il “peggio” in realtà capitava piuttosto spesso. Mentre Jarva passava ore e ore nello studio del professor Engle ad analizzare i racconti dei presunti visionari, Morgan correva dall’ospedale ai laboratori per visualizzare le analisi, e i risultati, nella stragrande maggioranza dei casi, erano desolanti.

Già psicanalizzare quelle tristi persone monotone convinte di avere chissà che poteri era difficile e deprimente: Jarva li vedeva scrutarlo spaventati, come se quel suo biancore accecante fosse il marchio di Dio solo sa quale infamia. Ci voleva tempo, pazienza e una cordialità che non possedeva per metterli a proprio agio e riuscire a farli parlare liberamente.

A questo punto veniva il peggio: racconti di fantasmi in soffitta, di spifferi gelidi che uscivano da muri intonacati, di passi sulle travi del tetto…

Jarva era figlio del relativismo e del pensiero scientifico: affascinato dal concetto di parapsicologia al punto da imbastirvi un dottorato di ricerca ma scettico verso tutto ciò che sfuggiva alle sue analisi.

Così, con pazienza, ascoltava quei resoconti spesso vanagloriosi o terrorizzati; c’era qualcosa di comune in quelle persone: nessuno sembrava accettare la possibile esistenza di un che di sovrannaturale come parte integrante della vita e della realtà. Si credevano miracolati o maledetti, volevano che le visioni cessassero come se fosse il demonio stesso a inviarle.

Sconsolato Jarva attendeva, alla fine della giornata, il resoconto di Morgan. Anzi, col tempo si era accorto di aspettarlo con una certa ansia.

Se l’appuntamento era alle sei, Morgan si presentava in puntuale ritardo alle sei e mezza. Appena la porta dello studio si socchiudeva e sull’ingresso si profilava il volto del giovane, Jarva era in grado di stabilire quale fosse l’esito degli esami.

Rassegnato, Morgan riportava di encefalogrammi perfettamente normali, ben distanti dalle ipotesi del professor Engle di un’attività cerebrale anomala; nei casi più deprimenti invece delle differenze c’erano anche, ma erano dovute ad abuso di sostanze (“Jarva, non ci crederai mai: questo tizio aveva più acidi che sangue nelle vene, è impressionante! Non credevo se ne potessero assumere tanti!”) o patologie (Morgan aveva biascicato un contrito “tumore al cervello”, tendendo i risultati degli esami a Jarva, “e il paziente non lo sa ancora”).

Il treno sferragliò attraverso la campagna e raggiunse finalmente la piccola stazione.

Jarva sbadigliò. Aveva trascorso l’intero viaggio a fantasticare, perso tra i ricordi, e non aveva nemmeno ricontrollato i propri appunti.

Quando uscì all’aperto fu costretto a stringere bruscamente gli occhi contro la luce abbagliante del giorno. Tra le nuvole si facevano strada stralci di azzurro e la temperatura iniziava ad alzarsi, in barba agli abiti neri e dalle maniche costantemente lunghe del finlandese. Una necessità, con una pelle tanto fragile.

Un passo dopo l’altro Jarva raggiunse l’università. In pochi lo salutarono: non risultava simpatico quasi a nessuno, escluso Morgan e quella bizzarra segretaria, la signorina Mills, zitella in là con gli anni ma con la vocazione della mamma, sempre in pensiero per la magrezza e il pallore di Jarva.

Morgan lo raggiunse alle nove meno dieci, persino più in ritardo del solito.

“Stai peggiorando”, lo apostrofò poco cortesemente l’albino.

“No, dai, è solo che ti ho preso il caffè”, disse, tendendogli un bicchierone di plastica con il coperchio che effettivamente mandava un aroma piuttosto gravedole.

Jarva lo fissò stupito.

“Su, prendilo, mi sto ustionando la mano” brontolò Morgan mentre la tracolla della vecchia borsa nera coperta di spille e toppe gli scivolava dalla spalla verso l’incavo del gomito, rischiando di rovesciare il caffè.

“Grazie”, mormorò Jarva accettando l’offerta. Sinceramente colpito da un gesto tanto semplice e per lui inusuale fissò il giovane per un istante un po’ troppo lungo.

Morgan arrossì impercettibilmente.

“Mi… mi spiace di essere in ritardo”, balbettò abbassando lo sguardo.

“Non fa nulla”, rispose prontamente l’altro. “Grazie del caffè”, ripeté, sentendosi improvvisamente piuttosto stupido per tanta enfasi.

Morgan sorrise.

“Dai, che ne dici di iniziare? Tra poco arrivano gli sciroccati… i pazienti, volevo dire i pazienti”, si corresse prontamente, nascondendo un ghigno.

Inaspettatamente anche Jarva si sciolse in un vero sorriso.

Fu con il cuore decisamente più leggero del solito che si avviò verso lo studio: persino i lagnosi racconti degli “sciroccati” gli sembrarono quasi interessanti.

 

Verso il tardo pomeriggio persino l’effetto della gentilezza inattesa di Morgan e il conseguente buonumore si erano eclissati completamente.

Jarva era annoiato, incattivito e rassegnato. Non sarebbero venuti a capo di niente: nessuno dei soggetti indagati aveva un briciolo di capacità psichiche superiori alla media… erano solo degli esaltati visionari, lo si capiva anche solo guardandoli in faccia, e lui stava sprecando il suo tempo.

Poco prima delle sei Morgan si affacciò allo studio.

“Dimmi che abbiamo finito”, lo implorò Jarva.

“In realtà”, rispose il giovane, “non ancora. C’è un’ultima paziente che chiede di vederti…”

“Un’altra? Ma non dovevano essere solo quelli che abbiamo visto finora?”

“Anche io ero convinto che fosse così; la signora non è in elenco, ma ha persino una lettera firmata dal professor Engle…”

Jarva aggrottò le sopracciglia.

“Chiedile di attendere ancora cinque minuti, chiamo Engle; poi deciderò se riceverla”.

Morgan annuì e se ne andò.

Jarva prese il cellulare e compose il numero del professore, confidando nel miracolo di trovarlo.

Dopo sei o sette squilli finalmente una voce maschile rispose.

“Pronto?”

“Professore? Buonasera, sono…”

“Jarva, lo so che è lei, mi compare il nome sul display. Non sia retorico. Cosa vuole?”

Jarva strinse le labbra ed alzò gli occhi al cielo. Quanto era acido, quando voleva…

“C’è una paziente fuori elenco che sostiene di avere preso contatti con lei per…”

“Sì, è la signora Adele Watson. La faccia entrare subito, è una persona interessante”.

“Come gli altri?” non riuscì a frenarsi Jarva, sarcastico.

Engle, dall’altro capo del telefono, sbuffò.

“Faccia il suo lavoro e la ascolti subito. Fine del discorso”.

Così dicendo riattaccò, lasciando Jarva offeso nel profondo a fissare con astio l’innocente cellulare.

Si rimangiò una serie di insulti in suomi e respirò a fondo per placarsi. Si alzò e socchiuse la porta, sporgendo la testa.

Morgan stava chiacchierando con una vecchina minuscola e sorridente, così precisa in ogni minimo aspetto da sembrare uscita da un libro. I vaporosi capelli grigio-azzurrini erano coronati da un cappellino molto inglese, il cardigan azzurro era in tinta con la borsa a fiori e con la camicetta dai pizzi un po’sciupati. Aveva un piccolo viso solcato da una ragnatela di rughe, ma la risata cristallina e i vispi occhi chiari erano quelli di una ragazzina senza età.

“Signora Watson?” chiese Jarva sporgendosi un po’di più.

L’anziana signora si voltò. Gli occhi non erano solo vivaci, ma incredibilmente penetranti.

“Vai pure, Allen. Signora Watson, prego, si accomodi…” disse, aprendo la porta e cedendo il passo alla donna.

“Arrivederci, caro” salutò rivolta a Morgan. Quest’ultimo rispose con un cenno del capo e un gran sorriso, che rivolse anche a Jarva prima di allontanarsi.

Adele Watson sembrava sparire nella poltrona di pelle scura davanti alla scrivania.

Jarva era stanco, ma quella donna così composta sembrava emanare la stessa sensazione di sollievo dell’acqua fresca.

“Buonasera, signora; mi scusi se l’ho fatta attendere”.

“Oh, non si preoccupi: non mi è dispiaciuto parlare con il suo aiutante, è tanto un caro ragazzo!”

Jarva sollevò le sopracciglia con un mezzo sorriso. Si stupì della naturalezza con cui l’anziana donna gli si rivolgeva, come se non fosse minimamente stupita dal suo aspetto bizzarro o intimorita dall’aura di gelo che tendeva ad emanare.

“Bene, quand’è così… le spiacerebbe raccontarmi perché è qui?”

“No no, affatto: io so che esistono degli esseri sovraumani”.

Di nuovo, quella calma sicurezza… l’albino era sconcertato.

“Ah sì? E come fa a saperlo?”

“Li ho visti”.

Jarva si preparò alla solita tirata noiosa piena di avvenimenti eclatanti.

“Mi vorrebbe raccontare com’è accaduto?” domandò prendendo appunti.

“Certo. Ero al cimitero di Abney Park a mettere i fiori sulla tomba del mio povero Charles… sa, era mio marito, è morto quasi vent’anni fa e io lo vado a trovare tutti i giorni. Ecco, quella volta era tardo pomeriggio, forse le cinque e mezza. Tenga presente però che era gennaio e a quell’ora era già buio. Ero chinata a sistemare il vaso, quando ho sentito una presenza alle mie spalle”.

“Suo marito?” si lasciò scappare Jarva più sarcasticamente di quanto volesse.

“Ma si figuri, Charles è morto e sepolto, e ora è in pace: non verrebbe mai a farsi un giro qui sulla terra!”affermò ridendo con scioltezza. “No, mi creda: era qualcosa di diverso. Di vivo, ma non come me o lei. Non era umano.

Aveva abbassato il tono, e Jarva si scoprì interessato.

“Mi sono voltata e ho visto una donna in piedi vicino a una lapide. Era perfettamente reale, niente di evanescente o traslucido. Una bella ragazza, anche se poco appariscente: aveva i capelli scuri e la carnagione… ecco, era come una persona di carnagione scura che per qualche motivo abbia perso colore e sia diventata più pallida. Era quasi dorata, molto bella… Questa donna mi ha guardata per un po’ senza dir nulla. Poi mi si è avvicinata e si è messa a parlare di Charles come se lo conoscesse... e anche di me. Mi ha chiamata per nome, ci crede? Poi mi ha sorriso e se n’è andata. Aveva una strana andatura, come se… come se non toccasse davvero la terra su cui camminava ”.

Jarva stava annotando minuziosamente ogni dettaglio sul proprio laptop, ma a quel punto si fermò. Le sue mani ebbero uno spasmo.

Con una violenza mai vista gli tornò alla mente il viaggio verso Londra.

“Mi scusi, signor Jarva: torno subito”.

Un brivido gli corse lungo la spina dorsale, sottraendogli il fiato.

La signora Watson però continuò imperterrita.

“Per un sacco di tempo non ho ricordato molto di quell’episodio. Poi, col tempo, sono riuscita a ricostruire i dettagli. Bastava una conversazione, un sogno, una coincidenza, e nuovi ricordi mi affioravano alla mente. All’inizio ricordavo solo gli occhi di quella donna, poi è arrivato tutto il resto”.

Jarva deglutì rumorosamente, la fronte imperlata di sudore.

“E… sì, capisco. È piuttosto diverso da ciò che ho sentito finora. Mi perdoni se le prossime domande le sembreranno indiscrete, ma sono essenziali ai fini dello studio”.

“Non c’è problema, giovanotto: mi dica pure”, rispose la donna con un sorriso dolce.

Jarva si ricompose e la guardò negli occhi. Di nuovo quella calma serena contribuì a fargli ritrovare il filo dei pensieri.

“Lei soffre di morbo di Alzheimer, o qualcuno nella sua famiglia ne ha sofferto?”

“No”, rispose. “Niente malattie di questo genere.

Jarva lo segnò sul computer.

“Bene. Schizofrenia? Sindromi maniaco-depressive accertate o presunte?”

Laddove chiunque, fino a quel momento, si era sentito offeso e s’era indignato, la signora Watson rise.

“Siamo tutti sani di mente, dottor Jarva. Almeno nelle ultime tre generazioni non ci sono state persone malate. La mia famiglia ha attraversato gli orrori di due guerre mondiali, ma siamo di tempra abbastanza forte da superare ogni tipo di difficoltà senza abbatterci”.

“Certo. Passiamo oltre… lei soffre di qualche tipo di disturbo?”

“Sana come un pesce. Certo, ho una lombaggine che quando cambia il tempo mi fa disperare e la pressione bassa, ma il mio medico dice che se continuo così camperò cent’anni!”

“Perfetto. Ora, potrebbe dirmi com’è venuta in contatto con il professor Engle? Questa in realtà è una mia curiosità personale…”

“Per passaparola. Io ho raccontato a mia figlia di ciò che mi è accaduto, e… be’, le voci circolano veloci. Qualche vicino mi guarda come se fossi matta, altri come se fossi solo una vecchia rimbambita: ma io so cosa ho visto, e sono certa di non aver avuto un’allucinazione. La notizia s’è sparsa fino ad arrivare non so come al professor Engle. Lui… mi ha chiesto di venire a parlare con lei, è stato molto gentile, anche se è un po’… ecco… inquietante…” concluse vagamente imbarazzata, rigirandosi la tracolla della borsetta tra le dita nodose.

Jarva si morse il labbro per non sorridere.

“Già, è un tipo strano. Bene, direi che può bastare. Le devo chiedere un’ultima cosa: dovrebbe dirmi un giorno per lei adeguato in cui prenderle appuntamento per eseguire una serie di esami per…”

“Oh, per quello non c’è problema: il professor Engle mi aveva già indicato cosa fare e ho consegnato gli esiti al suo assistente; Morgan è stato così gentile, è già andato ad analizzare il tutto!”

Jarva annuì. Era stupito da quel bizzarro incontro.

“Allora perfetto, non le porto via altro tempo”.

Si alzò e la signora Watson fece altrettanto.

“Signora Adele, la ringrazio infinitamente, è stata molto disponibile”, disse tendendole la mano. L’anziana signora la strinse con un vigore inaspettato.

“Sono ancora troppo vitale per rimanermene in casa a fare la vedova affranta”, rispose con una punta di divertita malizia. Jarva l’accompagnò alla porta e la salutò con sincera giovialità.

Quando chiuse il portone alle spalle della vecchina, però accadde qualcosa di inspiegabile.

Gli parve di essere addormentato e di ripercorrere il sogno della notte precedente.

Il parco era un cimitero, le pietre lapidi antiche e avvinghiate dai rampicanti. C’erano statue di angeli in preghiera, croci della tradizione celtica, tutte di pietra grigia chiara intaccata dal tempo.

Era notte, e nell’oscurità c’era una sagoma. Jarva si appoggiò pesantemente al legno della porta, sudando freddo, incapace di controllare la visione.

La figura sembrava umana, ma si muoveva con troppa grazia per essere fatta di carne e sangue. Aveva dei lineamenti, ma Jarva riuscì ad imprimersi nella mente solo un paio di occhi scintillanti ed antichi come le stelle.

Un urlo gli salì dalla gola, ma prima che riuscisse ad uscirgli dalle labbra un suono incredibilmente concreto penetrò la cortina del sogno, riportandolo alla solida realtà.

“Jarva? Va tutto bene?” chiamò la voce di Morgan.

Jarva trasse un respiro affannoso e si guardò intorno, stordito. Lo studio era tranquillo e silenzioso.

Come se non fosse successo nulla.

“Jarva? Ehi?”

L’albino assaporò con inatteso sollievo il suono della voce di Morgan.

“S-sì, scusa, ero soprappensiero. Entra”, rispose, tornando verso la scrivania.

Non era mai stato così felice di vedere qualcuno: Morgan gli si sedette davanti, ma quando alzò il viso per guardarlo negli occhi trasalì.

“Ma cos’è successo? Sembri sconvolto…”

“Io?” chiese scioccamente Jarva. Si rassettò i capelli. “No, sono solo stanco. Hai gli esami?”

Aveva usato un tono piuttosto brusco, e Morgan si accigliò.

“Sì, ed è tutto perfettamente normale. Tutto, ogni maledettissimo parametro. Come ti è sembrata la signora?”

“Sincera”, fu la serissima risposta. “E non psicopatica. Un esemplare raro”.

 

 

   
 
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