Driiiin.
Le sei e
mezza. La sveglia squillò
impietosamente sul comodino dello spoglio appartamento in King William Street.
Jarva si era addormentato
due ore prima. Con un grugnito stese il braccio e colpì la sveglia col dorso
della mano, spegnendola e facendola cadere a terra. Per alcuni istanti rimase
disteso con gli occhi chiusi, cercando di rimettersi in contatto col mondo.
Aveva la vaga consapevolezza
di essersi appena destato da un sogno particolarmente vivido, ma non riusciva a
ricondurre alla memoria che pochi dettagli… un parco lussureggiante, quasi un
bosco, e la luce verde del sole attraverso le foglie che brillava su tante
superfici di pietra. In mezzo, in un ampio prato, un edificio alto e massiccio,
dal tetto appuntito e slanciato… una chiesa, forse?
Jarva sbuffò. Non era
abituato ai sogni: di solito aveva il sonno troppo leggero, e al risveglio
comunque non conservava ricordo delle eventuali esperienze vissute durante il
sonno.
A tentoni nel buio cercò e raggiunse gli occhiali. La
penombra si fece più definita quando finalmente li
ebbe inforcati.
Le sei e trentacinque. Entro
otto minuti doveva essere pronto per uscire.
Agguantò il pacchetto di
sigarette, ne infilò una in bocca e l’accese. Con un
vago capogiro assaporò la prima boccata di fumo e la nicotina che entrava in
circolo. Quasi con sollievo esalò il fumo.
Jarva era un tipo
incredibilmente metodico e preciso. Maniacale, dicevano alcuni.
I vestiti erano piegati su
una sedia e disposti già nell’ordine in cui li avrebbe dovuti indossare. La
valigetta con il portatile e i documenti ricevuti dal professor Engle era
appoggiata davanti alla porta, di fianco alle scarpe.
Si lavò i denti e la faccia,
indossò con un brivido di fastidio le lenti a contatto, e dopo sette minuti e
quaranta secondi infilò le scarpe.
In perfetto orario, si disse compiaciuto.
Ormai era a Londra da quasi un
mese e la primavera iniziava a farsi insistente. Non c’era mai il sole: il
cielo non era mai limpido e terso come in Finlandia nelle belle giornate; la
luce giungeva piuttosto come una radiazione indefinita da tutto il cielo,
sempre velato di grigio.
A Jarva tutto sommato andava
bene così: gli feriva di meno gli occhi.
Cullato dal movimento del
treno che l’avrebbe condotto ad Oxford posò lo sguardo sul plico di fogli che
aveva un grembo: le istruzioni di Engle.
Certo, la faceva facile il
professore: ascoltare le testimonianze, confrontare gli esiti degli esami, gli
elettroencefalogrammi… peccato mancassero tutti quei corollari che rendevano
l’operazione un inferno.
Morgan Allen, per esempio.
L’antitesi perfetta di Jarva: rideva e parlava troppo, trascinato da uno zelo
che aveva un che di mistico. Era caotico come pochi altri e in perenne ritardo,
al punto che le giornate di lavoro iniziavano sempre con la stessa
conversazione, di solito intorno alle otto e quaranta. Il telefono di Jarva
–recentemente dotato di una nuova scheda- squillava quando
questi si trovava già da dieci minuti
davanti alla porta dello studio.
“Pronto?”
“Jarva oddio scusami sono in
ritardo lo so lo so lo so ma c’era traffico non ti
immagini quanto e io…”
Sospiro.
“Morgan, piantala con questa
balla. Abiti nel campus, lo so perfettamente. Non ti è suonata la sveglia?”
Imbarazzo.
“Ecco… sì, sì, proprio
così.”
“Dimmi la verità: tu avevi
puntato la sveglia, vero? O ieri sera sei rientrato a
un orario improbabile e…”
“Arrivo!”
La telefonata si concludeva
così, e dopo pochi minuti –che andavano comunque a sommarsi al già
inammissibile ritardo- Morgan appariva in fondo al corridoio, con i capelli
sciolti e spettinati, le occhiaie e un sorriso irritante.
Jarva non sopportava questo
modo di essere. Come se il ritardo e la scarsa attenzione non fossero pecche
gravissime, diamine!
Eppure in Morgan c’era
qualcosa che impediva di serbargli rancore a lungo. Forse era l’ardore che
metteva in ogni cosa che facesse, o la sincerità a volte imbarazzante che lo
caratterizzava… o quel sorriso disarmante…
Guardando fuori
dal finestrino del treno, Jarva si riscosse di colpo.
Piantala. Si può sapere cosa ti prende? Concentrati!
Già, per qualche misteriosa
ragione era impossibile non sentirsi attratti da Morgan. Nonostante i suoi
mille difetti era un buon compagno di lavoro: spesso capiva al volo le cose
prima ancora che Jarva gliele dicesse, e stava imparando come prendere l’algido
albino, defilandosi quando la situazione volgeva al peggio.
Il “peggio” in realtà
capitava piuttosto spesso. Mentre Jarva passava ore e ore nello studio del
professor Engle ad analizzare i racconti dei presunti visionari, Morgan correva
dall’ospedale ai laboratori per visualizzare le analisi, e i risultati, nella
stragrande maggioranza dei casi, erano desolanti.
Già psicanalizzare quelle
tristi persone monotone convinte di avere chissà che poteri era difficile e
deprimente: Jarva li vedeva scrutarlo spaventati, come se quel suo biancore
accecante fosse il marchio di Dio solo sa quale infamia. Ci voleva tempo,
pazienza e una cordialità che non possedeva per metterli a proprio agio e
riuscire a farli parlare liberamente.
A questo punto veniva il
peggio: racconti di fantasmi in soffitta, di spifferi gelidi che uscivano da
muri intonacati, di passi sulle travi del tetto…
Jarva era figlio del
relativismo e del pensiero scientifico: affascinato dal concetto di
parapsicologia al punto da imbastirvi un dottorato di ricerca ma scettico verso
tutto ciò che sfuggiva alle sue analisi.
Così, con pazienza,
ascoltava quei resoconti spesso vanagloriosi o terrorizzati; c’era qualcosa di
comune in quelle persone: nessuno sembrava accettare la possibile esistenza di un che di sovrannaturale come parte integrante della vita e
della realtà. Si credevano miracolati o maledetti, volevano che le visioni
cessassero come se fosse il demonio stesso a inviarle.
Sconsolato Jarva attendeva, alla
fine della giornata, il resoconto di Morgan. Anzi, col tempo si era accorto di
aspettarlo con una certa ansia.
Se l’appuntamento era alle
sei, Morgan si presentava in puntuale ritardo alle sei e mezza. Appena la porta
dello studio si socchiudeva e sull’ingresso si profilava il volto del giovane,
Jarva era in grado di stabilire quale fosse l’esito
degli esami.
Rassegnato, Morgan riportava
di encefalogrammi perfettamente normali, ben distanti dalle ipotesi del
professor Engle di un’attività cerebrale anomala; nei casi più deprimenti
invece delle differenze c’erano anche, ma erano dovute
ad abuso di sostanze (“Jarva, non ci crederai mai: questo tizio aveva più acidi
che sangue nelle vene, è impressionante! Non credevo se ne potessero assumere
tanti!”) o patologie (Morgan aveva biascicato un contrito “tumore al cervello”,
tendendo i risultati degli esami a Jarva, “e il paziente non lo sa ancora”).
Il treno sferragliò
attraverso la campagna e raggiunse finalmente la piccola stazione.
Jarva sbadigliò. Aveva
trascorso l’intero viaggio a fantasticare, perso tra i ricordi, e non aveva
nemmeno ricontrollato i propri appunti.
Quando uscì all’aperto fu
costretto a stringere bruscamente gli occhi contro la luce abbagliante del
giorno. Tra le nuvole si facevano strada stralci di azzurro e la temperatura
iniziava ad alzarsi, in barba agli abiti neri e dalle maniche costantemente
lunghe del finlandese. Una necessità, con una pelle tanto fragile.
Un passo dopo l’altro Jarva
raggiunse l’università. In pochi lo salutarono: non risultava simpatico quasi a nessuno, escluso Morgan e quella bizzarra segretaria, la
signorina Mills, zitella in là con gli anni ma con la vocazione della mamma,
sempre in pensiero per la magrezza e il pallore di Jarva.
Morgan lo raggiunse alle
nove meno dieci, persino più in ritardo del solito.
“Stai peggiorando”, lo
apostrofò poco cortesemente l’albino.
“No, dai, è solo che ti ho
preso il caffè”, disse, tendendogli un bicchierone di plastica con il coperchio
che effettivamente mandava un aroma piuttosto gravedole.
Jarva lo fissò stupito.
“Su, prendilo, mi sto
ustionando la mano” brontolò Morgan mentre la tracolla della vecchia borsa nera
coperta di spille e toppe gli scivolava dalla spalla verso l’incavo del gomito,
rischiando di rovesciare il caffè.
“Grazie”, mormorò Jarva
accettando l’offerta. Sinceramente colpito da un gesto tanto semplice e per lui
inusuale fissò il giovane per un istante un po’ troppo lungo.
Morgan arrossì
impercettibilmente.
“Mi… mi spiace di essere in
ritardo”, balbettò abbassando lo sguardo.
“Non fa nulla”, rispose
prontamente l’altro. “Grazie del caffè”, ripeté, sentendosi improvvisamente
piuttosto stupido per tanta enfasi.
Morgan sorrise.
“Dai, che ne dici di
iniziare? Tra poco arrivano gli sciroccati… i pazienti, volevo dire i
pazienti”, si corresse prontamente, nascondendo un ghigno.
Inaspettatamente anche Jarva
si sciolse in un vero sorriso.
Fu con il cuore decisamente
più leggero del solito che si avviò verso lo studio: persino i lagnosi racconti
degli “sciroccati” gli sembrarono quasi interessanti.
Verso il tardo pomeriggio
persino l’effetto della gentilezza inattesa di Morgan e il conseguente
buonumore si erano eclissati completamente.
Jarva era annoiato,
incattivito e rassegnato. Non sarebbero venuti a capo di niente: nessuno dei
soggetti indagati aveva un briciolo di capacità psichiche superiori alla media…
erano solo degli esaltati visionari, lo si capiva
anche solo guardandoli in faccia, e lui stava sprecando il suo tempo.
Poco prima delle sei Morgan
si affacciò allo studio.
“Dimmi che abbiamo finito”,
lo implorò Jarva.
“In realtà”, rispose il
giovane, “non ancora. C’è un’ultima paziente che chiede di vederti…”
“Un’altra? Ma non dovevano
essere solo quelli che abbiamo visto finora?”
“Anche io ero convinto che
fosse così; la signora non è in elenco, ma ha persino una lettera firmata dal
professor Engle…”
Jarva aggrottò le
sopracciglia.
“Chiedile di attendere
ancora cinque minuti, chiamo Engle; poi deciderò se riceverla”.
Morgan annuì e se ne andò.
Jarva prese il cellulare e
compose il numero del professore, confidando nel miracolo di trovarlo.
Dopo sei o sette squilli
finalmente una voce maschile rispose.
“Pronto?”
“Professore? Buonasera,
sono…”
“Jarva, lo so che è lei, mi
compare il nome sul display. Non sia retorico. Cosa vuole?”
Jarva strinse le labbra ed
alzò gli occhi al cielo. Quanto era acido, quando voleva…
“C’è una paziente fuori
elenco che sostiene di avere preso contatti con lei per…”
“Sì, è la signora Adele
Watson. La faccia entrare subito, è una persona interessante”.
“Come gli altri?” non riuscì
a frenarsi Jarva, sarcastico.
Engle, dall’altro capo del
telefono, sbuffò.
“Faccia il suo lavoro e la ascolti
subito. Fine del discorso”.
Così dicendo riattaccò,
lasciando Jarva offeso nel profondo a fissare con astio l’innocente cellulare.
Si rimangiò una serie di
insulti in suomi e respirò a fondo per placarsi. Si alzò e socchiuse la porta,
sporgendo la testa.
Morgan stava chiacchierando
con una vecchina minuscola e sorridente, così precisa in ogni minimo aspetto da
sembrare uscita da un libro. I vaporosi capelli
grigio-azzurrini erano coronati da un cappellino molto inglese, il
cardigan azzurro era in tinta con la borsa a fiori e con la camicetta dai pizzi
un po’sciupati. Aveva un piccolo viso solcato da una ragnatela di rughe, ma la
risata cristallina e i vispi occhi chiari erano quelli di una ragazzina senza
età.
“Signora Watson?” chiese
Jarva sporgendosi un po’di più.
L’anziana signora si voltò.
Gli occhi non erano solo vivaci, ma incredibilmente penetranti.
“Vai pure, Allen. Signora
Watson, prego, si accomodi…” disse, aprendo la porta e cedendo il passo alla
donna.
“Arrivederci, caro” salutò
rivolta a Morgan. Quest’ultimo rispose con un cenno del capo e un gran sorriso,
che rivolse anche a Jarva prima di allontanarsi.
Adele Watson sembrava
sparire nella poltrona di pelle scura davanti alla scrivania.
Jarva era stanco,
ma quella donna così composta sembrava emanare la stessa sensazione di
sollievo dell’acqua fresca.
“Buonasera, signora; mi
scusi se l’ho fatta attendere”.
“Oh, non si preoccupi: non
mi è dispiaciuto parlare con il suo aiutante, è tanto un caro ragazzo!”
Jarva sollevò le
sopracciglia con un mezzo sorriso. Si stupì della naturalezza con cui l’anziana
donna gli si rivolgeva, come se non fosse minimamente stupita dal suo aspetto
bizzarro o intimorita dall’aura di gelo che tendeva ad emanare.
“Bene, quand’è così… le
spiacerebbe raccontarmi perché è qui?”
“No no, affatto: io so che
esistono degli esseri sovraumani”.
Di nuovo,
quella calma sicurezza… l’albino
era sconcertato.
“Ah sì? E come fa a
saperlo?”
“Li ho visti”.
Jarva si preparò alla solita
tirata noiosa piena di avvenimenti eclatanti.
“Mi vorrebbe raccontare
com’è accaduto?” domandò prendendo appunti.
“Certo. Ero al cimitero di
Abney Park a mettere i fiori sulla tomba del mio povero Charles… sa, era mio
marito, è morto quasi vent’anni fa e io lo vado a trovare tutti i giorni. Ecco,
quella volta era tardo pomeriggio, forse le cinque e mezza. Tenga presente però
che era gennaio e a quell’ora era già buio. Ero
chinata a sistemare il vaso, quando ho sentito una presenza alle mie spalle”.
“Suo marito?” si lasciò
scappare Jarva più sarcasticamente di quanto volesse.
“Ma si figuri, Charles è
morto e sepolto, e ora è in pace: non verrebbe mai a farsi un giro qui sulla
terra!”affermò ridendo con scioltezza. “No, mi creda: era qualcosa di diverso.
Di vivo, ma non come me o lei. Non era umano.”
Aveva abbassato il tono, e
Jarva si scoprì interessato.
“Mi sono voltata e ho visto
una donna in piedi vicino a una lapide. Era perfettamente reale, niente di
evanescente o traslucido. Una bella ragazza, anche se poco appariscente: aveva
i capelli scuri e la carnagione… ecco, era come una persona di carnagione scura
che per qualche motivo abbia perso colore e sia
diventata più pallida. Era quasi dorata, molto bella… Questa donna mi ha guardata per un po’ senza dir nulla. Poi mi si è
avvicinata e si è messa a parlare di Charles come se lo conoscesse... e anche
di me. Mi ha chiamata per nome, ci crede? Poi mi ha sorriso e se n’è andata. Aveva
una strana andatura, come se… come se non toccasse davvero la terra su cui
camminava ”.
Jarva stava annotando
minuziosamente ogni dettaglio sul proprio laptop, ma a quel punto si fermò. Le
sue mani ebbero uno spasmo.
Con una violenza mai vista
gli tornò alla mente il viaggio verso Londra.
“Mi scusi, signor Jarva: torno subito”.
Un brivido gli corse lungo la spina dorsale, sottraendogli il fiato.
La signora Watson però
continuò imperterrita.
“Per un sacco di tempo non
ho ricordato molto di quell’episodio. Poi, col tempo, sono riuscita a
ricostruire i dettagli. Bastava una conversazione, un sogno, una coincidenza, e
nuovi ricordi mi affioravano alla mente. All’inizio ricordavo solo gli occhi di
quella donna, poi è arrivato tutto il resto”.
Jarva deglutì rumorosamente,
la fronte imperlata di sudore.
“E… sì, capisco. È piuttosto
diverso da ciò che ho sentito finora. Mi perdoni se le prossime domande le
sembreranno indiscrete, ma sono essenziali ai fini dello studio”.
“Non c’è problema,
giovanotto: mi dica pure”, rispose la donna con un sorriso dolce.
Jarva si ricompose e la
guardò negli occhi. Di nuovo quella calma serena
contribuì a fargli ritrovare il filo dei pensieri.
“Lei soffre di morbo di
Alzheimer, o qualcuno nella sua famiglia ne ha sofferto?”
“No”, rispose. “Niente
malattie di questo genere.”
Jarva lo segnò sul computer.
“Bene. Schizofrenia? Sindromi maniaco-depressive accertate o presunte?”
Laddove chiunque, fino a
quel momento, si era sentito offeso e s’era indignato, la signora Watson rise.
“Siamo tutti sani di mente,
dottor Jarva. Almeno nelle ultime tre generazioni non ci sono state persone
malate. La mia famiglia ha attraversato gli orrori di due guerre mondiali, ma
siamo di tempra abbastanza forte da superare ogni tipo di difficoltà senza
abbatterci”.
“Certo. Passiamo oltre… lei
soffre di qualche tipo di disturbo?”
“Sana come un pesce. Certo,
ho una lombaggine che quando cambia il tempo mi fa
disperare e la pressione bassa, ma il mio medico dice che se continuo così
camperò cent’anni!”
“Perfetto. Ora, potrebbe
dirmi com’è venuta in contatto con il professor Engle? Questa in realtà è una
mia curiosità personale…”
“Per passaparola. Io ho
raccontato a mia figlia di ciò che mi è accaduto, e… be’, le voci circolano
veloci. Qualche vicino mi guarda come se fossi matta,
altri come se fossi solo una vecchia rimbambita: ma io so cosa ho visto, e sono
certa di non aver avuto un’allucinazione. La notizia s’è sparsa fino ad
arrivare non so come al professor Engle. Lui… mi ha chiesto di venire a parlare
con lei, è stato molto gentile, anche se è un po’… ecco… inquietante…” concluse
vagamente imbarazzata, rigirandosi la tracolla della borsetta tra le dita
nodose.
Jarva si morse il labbro per
non sorridere.
“Già, è un tipo strano.
Bene, direi che può bastare. Le devo chiedere un’ultima cosa: dovrebbe dirmi un
giorno per lei adeguato in cui prenderle appuntamento per eseguire una serie di
esami per…”
“Oh, per quello non c’è
problema: il professor Engle mi aveva già indicato cosa fare e ho consegnato
gli esiti al suo assistente; Morgan è stato così gentile, è già andato ad
analizzare il tutto!”
Jarva annuì. Era stupito da
quel bizzarro incontro.
“Allora perfetto, non le
porto via altro tempo”.
Si alzò e la signora Watson
fece altrettanto.
“Signora Adele, la ringrazio
infinitamente, è stata molto disponibile”, disse tendendole la mano. L’anziana
signora la strinse con un vigore inaspettato.
“Sono ancora troppo vitale
per rimanermene in casa a fare la vedova affranta”, rispose con una punta di
divertita malizia. Jarva l’accompagnò alla porta e la salutò con sincera
giovialità.
Quando chiuse il portone
alle spalle della vecchina, però accadde qualcosa di inspiegabile.
Gli parve di essere
addormentato e di ripercorrere il sogno della notte precedente.
Il parco era un cimitero, le
pietre lapidi antiche e avvinghiate dai rampicanti. C’erano statue di angeli in
preghiera, croci della tradizione celtica, tutte di pietra grigia chiara intaccata
dal tempo.
Era notte, e nell’oscurità
c’era una sagoma. Jarva si appoggiò pesantemente al legno della porta, sudando
freddo, incapace di controllare la visione.
La figura sembrava umana, ma
si muoveva con troppa grazia per essere fatta di carne e sangue. Aveva dei lineamenti, ma Jarva riuscì ad imprimersi nella mente solo
un paio di occhi scintillanti ed antichi come le stelle.
Un urlo gli salì dalla gola,
ma prima che riuscisse ad uscirgli dalle labbra un suono incredibilmente
concreto penetrò la cortina del sogno, riportandolo alla solida realtà.
“Jarva? Va tutto bene?”
chiamò la voce di Morgan.
Jarva trasse un respiro
affannoso e si guardò intorno, stordito. Lo studio era tranquillo e silenzioso.
Come se non fosse successo
nulla.
“Jarva? Ehi?”
L’albino assaporò con
inatteso sollievo il suono della voce di Morgan.
“S-sì, scusa, ero
soprappensiero. Entra”, rispose, tornando verso la scrivania.
Non era mai stato così
felice di vedere qualcuno: Morgan gli si sedette davanti, ma quando alzò il
viso per guardarlo negli occhi trasalì.
“Ma cos’è successo? Sembri
sconvolto…”
“Io?” chiese scioccamente
Jarva. Si rassettò i capelli. “No, sono solo stanco. Hai gli esami?”
Aveva usato un tono
piuttosto brusco, e Morgan si accigliò.
“Sì, ed è tutto
perfettamente normale. Tutto, ogni maledettissimo parametro. Come ti è sembrata
la signora?”
“Sincera”, fu la serissima
risposta. “E non psicopatica. Un esemplare raro”.