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Autore: _Krzyz    09/09/2013    1 recensioni
No, questa non sarà un bella storia. Non ci saranno fate, elfi, principesse, draghi o cavalieri.
Questa storia è impregnata di odio, di rabbia, di sangue.
Non c'è un eroe in questa storia.
In questa storia c'è freddo, c'è solitudine, c'è apatia.
E questa è la storia di un corvo, di un piccolo corvo che lanciava coltelli.
Questa è la storia di Clove Ravenhill, distretto 2.
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cato, Clove, Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Di Piume di Corvo e Lanterne di Carta
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Capitolo 1

Sogni e Sangue


 

Un coltello lacerò l’aria, andandosi a conficcare nel cuore del manichino posto ad una ventina di metri di distanza. Centro perfetto. Un sorrisetto sadico si aprì sulla faccia della ragazzina.
-“Niente male, Clove!”- La voce di Spartacus, l’allenatore, rimbombò nella sala. –“Continua così e tra un paio d’anni farai una strage agli Hunger Games!”-
Idiota, emerito idiota. Lei non avrebbe aspettato i due anni. Lei era già pronta. Tutti lo sapevano, sarebbe stata in grado di fare fuori chiunque avesse di fronte senza la minima esitazione. Piccola, veloce, spietata, letale. Avrebbe partecipato quest’anno, uccidendo gli altri volontari se necessario.

Il Corvo, la chiamavano in Accademia. Forse per via dei suoi capelli neri, forse per il suo cognome, forse perché quando c’era lei intorno succedeva sempre qualcosa di brutto, non si sa. E questo lei si sentiva, un corvo,  nero come il petrolio, nero come la morte, pronto a infierire brutalmente sulle sue stesse vittime, così da assicurare una dipartita estremamente dolorosa. Era incredibile la sete di sangue che quella pallida, minuta ragazzina poteva avere in corpo. Era entrata in quel posto per imparare ad ammazzare, e lo stava imparando egregiamente. Spartacus era estremamente orgoglioso di lei. Le altre ragazze erano solo ochette schizzinose, che entravano in Accademia per mettersi in mostra e guardare sbavando come dei bulldog gli allenamenti dei ragazzi più belli del distretto.
Clove non era come loro. A Clove non importava niente di nessuno, se non di lei stessa e dei suoi coltelli. Clove voleva uccidere, era nata per questo. Avrebbe potuto ammazzare  anche il Presidente, se avesse voluto. Gli altri allievi sapevano che c’era, sapevano che era brava, e tuttavia a nessuno di loro interessava conoscere, avvicinarsi, scoprire qualcosa di più sul Corvo. E a Clove andava bene così, i legami sono una distrazione, rendono vulnerabili le persone. Aveva un obbiettivo e nulla le avrebbe impedito di conseguire ciò che si era prefissata.

Tornava a casa a tarda sera, inseguendo i marciapiedi dissestati dei quartieri poveri, fino ad arrivare ad una minuscola villetta marcescente. Era bella, una volta. Il prato era curato, il portico era sempre pulito, le aiuole ricolme di fiori. Ora tutto era andato in rovina, l’erba era alta quasi mezzo metro, le assi di legno del porticato marcivano lentamente, dove una volta regnavano primule e rose ora c’erano solo ortiche e cardi. L’unica ragione per la quale si ostinava a tornare in quel luogo tutte le volte era sua madre. La sua mamma, bloccata nel letto, viva e morta allo stesso tempo. E varcava la soglia, e vedeva cocci di vetro e bottiglie rovesciate e quell’uomo, quel maledetto , circondato da donne. Saliva le scale mentre quel dannato la bombardava con tutto ciò che gli capitava a tiro, fosse stata una scarpa o una bottiglia di vetro. Ferite profonde a volte, tagli lievi altre, ematomi altre ancora. E arrivava in camera di sua mamma, il corpo disteso immobile sul letto, le pupille fisse smarrite in un luogo lontano. Le dava le medicine e le carezzava la fronte, fino a che le palpebre calavano sugli occhi vitrei. E tornava nella sua stanza e cadeva in un sonno nero come le piume del corvo che era.

Un sogno. Il solito, ormai, da quasi dieci anni. Non sapeva se fosse realmente solo frutto della sua immaginazione, sembrava più  un ricordo sfocato, confuso, senza colore. 
E nel sogno c’era freddo, un gelo che appesantiva le ossa e congelava le membra.
 E lacrime, tante gocce salate che scivolavano ustionanti sulla pelle.
E dolore nel petto, nell’anima, nella testa.
 E un marciapiede crepato illuminato da un lampione che emanava una luce fioca e asettica.
E una mano di bambino, che le porgeva un fazzoletto di stoffa azzurro, unico colore in un sogno bianco come la neve e nero come la morte, e che poi andava via.
E una frase, che risuonava nell’aria, come una melodia dimenticata suonata da un clavicembalo stonato. Due parole.
-“Sii Forte.”

Tutte le notti la stessa storia, senza che cambiasse d’una virgola, sempre lo stesso sogno. Non era vero e non era falso. Se ne stava sospeso in un limbo color seppia, cercando qualcosa.
Clove non sapeva cosa potesse voler dire quel fazzoletto azzurro. Forse avrebbe dovuto chiedere aiuto, forse avrebbe dovuto capire chi era il bambino di cui non riusciva a focalizzare il volto, forse avrebbe dovuto smetterla di pensare a quel sogno e darsi un po’ di contegno.

Alla mattina si avviava verso l’Accademia, assonnata e infreddolita. Non mangiava nulla per colazione, perché nulla c’era da mangiare. Il verme lasciava la casa come un letamaio, svuotata e disastrata,  dopo aver finito di giocare con le sue ‘amichette’, e di sicuro quel poco cibo che c’era lo aveva offerto a loro. Lo stomaco brontolava e ribolliva come la rabbia nel corpo della ragazza.
E poi solo i suoi coltelli e i manichini, per tutto il giorno. Non mancava il bersaglio, nemmeno una volta. Spartacus non aveva più nulla da insegnare a quella ragazzina ossuta e terribile. Stava la tutto il giorno, a fissare il Corvo che eseguiva il suo bizzarro, letale rituale. Una macabra danza di piccole, sottili lame scagliate al cuore di immobili corpi imbottiti. Nulla poteva fare, se non osservare la ragazza e dirle che migliorava sempre di più.
Una mattina Spartacus si avvicinò alla sua allieva e le disse ciò che la ragazza aspettava da anni.
-“Da domanii passi agli intensivi.”-
Intensivi. Un sorrisetto si aprì sul volto pallido di Clove. Intensivi voleva dire tante cose. Voleva dire che finalmente avevano riconosciuto il suo valore. Voleva dire che sarebbe stata preparata ancora meglio. Voleva dire allenarsi con gli allievi più bravi in assoluto. Voleva dire sangue.
Perché agli intensivi non affrontavi corpi imbottiti e stupidi sacchi ripieni di ovatta. Ti battevi con persone in carne ed ossa. E un taglio non si limitava a far uscire quel poco cotone dal torso dei manichini. Sgorgava a fiotti, il liquido rosso, e faceva strillare anche il migliore tra loro. E tornavi a casa con i lividi, le braccia graffiate e i cerotti sulla faccia.

Clove tornò a casa felice quel giorno. Avevano riconosciuto cos’era capace di fare, il Corvo si stava affilando gli artigli. Ma quando varcò la soglia  tutto l’entusiasmo che aveva in corpo sparì come una bolla di sapone scoppiata troppo presto. Il suo patrigno era davanti a lei, ubriaco fradicio, con una botiglia in mano.
E un colpo arrivò sulla testa della ragazzina.
E un altro, e un altro, e ancora uno.
Senza emettere un fiato, senza lacrime, il Corvo lasciò che il fondo di vetro infierisse sulla sua carne, frantumandosi ad ogni colpo. Non ce la faceva più. Lottare, lottare, lottare fuori per poi temere qualsiasi cosa dentro. Un cucciolo impaurito nascosto in un’armatura di piombo, questo era Clove. Dopo attimi che parvero interminabili il suo patrigno si allontanò sbuffando come una locomotiva. La ragazzina salì le scale barcollando, incerta sulle gambe tremanti. Il sangue le colava dalla testa e dal labbro spaccato, riempiendole la bocca di un sapore ferreo e terribilmente dolce. Aveva alcune schegge piantate sulle braccia, ma al momento non ci pensava.
Perché? Perché doveva subire tutto quello? Lei era forte, lei era una roccia, lei era acciaio.
O forse no.

Forse era solo una bambina che era dovuta crescere troppo in fretta. Una bambina che amava uccidere perché non sapeva fare altro. Una bambina che viveva in un castello in cui la mamma era una dama di vetro e suo marito un drago feroce e pazzo. E lei non era che la principessa di ruggine di un regno sotto assedio.
Di nuovo diede le medicine alla sua mamma, un tempo una donna vigorosa dai capelli scuri e le mani grandi, ora ridotta ad anima a metà tra la terra e gli inferi.
Si addormentò con il sangue che macchiava il cuscino, quella notte. E di nuovo lo stesso sogno. E solo per un istante Clove sorrise, pensando a quando si era sbucciata un ginocchio da bambina e suo papà le aveva attaccato un cerotto coi fiorellini disegnati. Il Corvo in quel momento avrebbe voluto qualcuno che le mettesse i cerotti sulle ferite alla testa e che le curasse quel labbro spaccato.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Ritardo, signori, è una parola che pronuncerò molto spesso d'ora in avanti. La scuola sta per ricominciare e la povera Krzyz si è trovata in ritardo con un saccopieno di roba da finire per la settimana prossima (e nessuna voglia di farla). Gli aggiornamenti proseguiranno a rilento, vi chiedo anticipatamente perdono per ciò.  
Don't worry, nel prossimo capitolo ci saranno più dialoghi e decisamente meno sitauazioni da fazzoletti! :)

Spero che vi sia piaciuto.
Mi raccomando, ditemi che ne pensate! Lasciate una recensioncina piccina piccina, anche per dirmi che sta roba fa schifo (accetto tutte le critiche, purchè giustificate in maniera coerente!).
Saluti dal Kactus! :D
La vostra _Krzyz, che si è ricordata ieri delle 254 pagine di storia dell'Arte da studiare.
 
  
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