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Autore: llAmortentia    09/09/2013    2 recensioni
Seth prese un sasso piatto dalla sabbia dove eravamo,scaldati dal caldo sole di luglio,e lo lanciò nel fiume di la Push facendolo saltare gioioso tra le calme acque che si increspavano leggermente.
Il ragazzo mi lanciò un'occhiata non troppo convinta,ma dopo pochi istanti ritornò con lo sguardo su quella vasta distesa azzurra.
-"Non sto scappando da quello che sono, Seth. Vorrei solo prendere una pausa" presi un respiro e quell'inspiegabile senso di soffocamento si fece sentire,di nuovo.
-"Sai,da me,da tutte queste sfighe,da quest'immortalità. Vorrei essere normale,per un po'. Non dover sapere niente di tutto questo" continuai sconsolata abbassando la testa.
-"Allora andiamocene" propose lui d'un tratto. "Io e te,una meta sperduta. Non importa dove,ma saremo lontano da qui".
Continuai a setacciare la sabbia dalla mano sinistra a quella destra e sorrisi sognante ancora a testa bassa.
-"Emily" mi chiamò dolcemente,dopo qualche minuto di silenzio e mi alzò il viso delicatamente,mettendo il mio sguardo in parallelo al suo "saresti disposta a prenderti una pausa e affidarti totalmente a me?" i suoi occhi brillavano con un progetto gradevole in testa.
-"Si,lo voglio" annuii sorridendogli.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio | Coppie: Jacob/Renesmee
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Successivo alla saga
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-CAPITOLO 13-

Erano solo le dieci di mattina e dalla macchina di Alice, la sua meravigliosa Lamborghini blu notte, straripavano già borse su borse.
Quella mattinata era stata davvero un inferno e sapere che non era ancora finita, mi faceva impazzire. Le giornate con Alice le ricordavo meno dolorose, ma evidentemente non c’era limite alla follia. Le ore in coda alle le casse, le ore in piedi a scegliere capi che sarebbero stati chiusi nell’armadio per secoli, la musica frastornante tenuta ad un volume esageratamente alto per fare concorrenza ai negozi circostanti, la serie di commenti falsi che si scambiavano le commesse..avrei preferito il patibolo. La mia testa scoppiava, incapace di formulare pensieri concreti che non comprendessero il desiderio di tornare a casa. I piedi mi bruciavano, così come l’ego. Avevo imparato la lezione. Mio padre si era evoluto per quanto riguardava le punizioni, superandosi brillantemente. Odiavo la sua genialità sfacciata.

-“ Su, su. Non abbiamo mica finito!” mi incitò Alice camminando lungo il corridoio affollato del centro commerciale.
-“ Cosa?!” un lamento troppo aggressivo cercò di liberarsi dal guinzaglio troppo stretto.
-“Rilassati leoncino. Ci mancano esattamente cinque negozi e un abbigliamento decente per te. ” aggiunse guardandomi con il suo repentino buon umore.
-“ Promettimi che poi andiamo a casa e di corsa” sbuffai sommersa da borse di carta­, che rendevano ardua la camminata. “Sai che non intendevo quello” aggiunsi con gli occhi al cielo, prima che potesse fare una qualche battuta inumana.

Il mio buon umore, al contrario di quello di zia Alice, mi stava abbandonando, così come l’energia che necessitavo per uscire viva da quella mattinata. Iniziai a pensare che fosse dovuto, in parte, alla sera precedente, al mio totale svenimento che mi fece sbattere la testa al suolo. Mamma non aveva più parlato dell’accaduto, nemmeno papà. Sembravano essersi dimenticati di ogni cosa, io no. Del resto avevano fatto così anche quando la lettera dei Volturi fu il mio regalo di compleanno più gradito. A casa Black non affrontare le situazioni, era il miglior modo di farlo.
Feci per girarmi verso Alice, per sfoderare il più straripante sguardo di pietà della storia, ma lei era sparita senza dirmi una parola. L’ansia si stava già impossessando di me, come diavolo avrei fatto a trovarla nel paese delle meraviglie? Poi sentii quella voce squillante e mi tranquillizzai, quel tanto che bastava a mantenere la calma.

 -“ Da’ un’occhiata qui” Alice sollevò un vestitino senza spalline.

Era di un verde acqua cristallino , le cui pieghe della gonna ricordavano le onde di La Push. Feci cenno di no con la testa, e celai la nausea con un’espressione concentrata. Proseguii diretta senza entrare nel negozio, continuando a sfilare vetrina dopo vetrina. Ma così come la mia immagine riflessa mi seguiva frettolosa, arrivò ben presto il reso conto della mia coscienza. Non l’avrei definito senso di colpa,  nemmeno come la ‘la cosa giusta da fare’. Sapevo che Alice, il bellissimo folletto esasperante, non si sarebbe data per vinta facilmente. Era una guerra persa in partenza, così tornai indietro, completamente consapevole dal seguito della giornata. Alla mia vista, le si illuminarono gli occhi e un sorriso le abbellì il volto perfetto. Si chinò per prendere qualcosa da terra e sollevò un paio di stivaletti, anfibi credo.

-“Emily, questi stivaletti si intonano perfettamente con la tua persona” osservò.
-“Ma sono neri” replicai. Solitamente erano i colori a scegliere mia zia, non viceversa.
-“Appunto. Portare in giro te è come portarsi dietro degli avvoltoi” il suo tono divenne scenico, rassegnato al punto giusto.
-“ Almeno con loro puoi farci merenda” abbozzai ispezionando un paio di scarpe argentate, tacco 12, che posai delicatamente, esterrefatta dell’altezza.

La guardai e entrambe accennammo un sorriso, mentre un maglione color cachi mi raggiungeva a tutta velocità, schiantandosi contro un manichino. Come avrei voluto che anche il tempo avesse fatto la stessa fine.
Non contai i minuti durante i quali stetti sdraiata sul grande divano bianco di Esme con un cuscino che copriva la faccia, ad occhi chiusi perdendomi nella mia stanchezza. Alice e Rosalie avevano iniziato a spulciare gli acquisti appena fatti, a provarli e progettare modifiche ad una gonna troppo lunga a parere di Rose. Io avevo iniziato a perdere coscienza e rifugiarmi in quel luogo caldo e accogliente che aspettavo tutte le notti, quando la voce di Edward irruppe nel mio dormi e veglia risanante.

-“ Non dirmi che stai dormendo” trattenne a stento una risata.
-“ Facciamo finta che tu non me l’abbia mai chiesto” strinsi il cuscino sulla faccia, in modo da scacciare ladri di sonno vari.
-“Peccato che tu sia troppo impegnata per..guidare” continuò lui, avvicinandosi alla spalliera del divano.

Scattai in piedi, ed anche se la testa giocò brutti scherzi, afferrai le chiavi al volo.
“Andiamo” pensai eccitata. Edward trattenne un ghigno.
In garage venne scoperchiata da un telo nero la mia Volvo C70. Mia. Come suonava bene quell’aggettivo. Era nera anch’essa, aveva una forma schiacciata e bassa, perfetta per sfrecciare ad alta velocità. Il tetto cabriolet le dava quel tocco classico.  La misi in moto ed un rombo aggressivo riempì l’abitacolo. I cavalli del motore erano delle tigri. Applaudii estasiata e su di giri per l’esibizione del mio nuovo cucciolo mentre Edward saliva di fianco a me.

-“Bene” disse lui, nascondendo la preoccupazione  “spero non vorrai ucciderci entrambi”.
-“Tranquillo, non sono io quella a qui si staccherebbe la testa” sorrisi accarezzando il volante. Le mie dita passarono in rassegna tutto il cuoio nero, apprezzandone ogni singola venatura.

Misi la cintura, un piede sull’acceleratore e la macchina schizzò via dal vialetto. Le nostre schiene erano incollate al sedile, gli alberi sfrecciavano a gruppi di macchie verdi, indefinite. Indefinita come la mia natura. Il rombo di motore al cambio di marcia era una melodia epocale. Se a Forks i matrimoni fra uomo ed auto fossero stati possibili, non avrei avuto dubbi sul mio coniuge. L’amavo con tutta me stessa.

-“Dove hai imparato ad usare una macchina?” mi ricordò Edward dopo che la macchina, insieme al mio entusiasmo rallentarono.
-“Uno dei tanti pomeriggi passati con Seth.” gli sorrisi e  accesi la radio.

Ma quel nome, che inizialmente sembrava non aver scalpito niente di me, improvvisamente arse di nuovo e la confusione tornò più agguerrita che mai. Mi era quasi impossibile distinguere quale di tutti i sentimenti che provavo in contemporanea stava avendo la meglio. La rabbia?  L’ipocrisia? Oh no, c’era anche della gelosia che si scontrava con l’orgoglio. Cercare di spegnere quella rissa, fu più difficile che disinnescare una bomba a mano ed alla fine, tutti i film d’azione e di guerra erano stati tempo sprecato e venni travolta dall’esplosione. Feci una violenta inversione a U, incapace d’altro. Incapace di mettere in ordine i pensieri o per lo meno filtrarli. Seppure ormai Edward aveva visto ciò che avevo visto io, la sua reazione fu estremamente docile, quasi inesistente. Forse che il bellissimo ragazzo cresciuto troppo in fretta, non sorrideva ad entrambi? Dannazione. Di nuovo. Tenevo gli occhi fissi sull’asfalto, il volante stretto tra le mani, i muscoli contratti e la lingua pronta a sputare scusanti a raffica. Ne avevo una decina nel mio arsenale, tutte pronte per essere sfornate, ma niente. Nessuno parlava, nessuno respirava. Persino l’auto sembrava emettere meno ruggiti.

-“ Non dire niente” ruppi il ghiaccio, sentendomi stretta nella morsa della vergogna pochi istanti dopo.
Chiusi gli occhi e respirando per la prima volta profondamente, attesi una sua risposta
-“Wow.  E’..” era scioccato quanto me.
-“..folle” finii la sua frase, rassegnandomi.
-“Decisamente folle” mi corresse lui.
-“ Ok, non parliamone più. Tu non hai visto nulla. Chiaro?”
-“Si” promise, ancora scosso mentre cercavo con tutta me stessa di mantenere la calma. “torniamo a casa. Guido io.” aggiunse nel silenzio.

Di nuovo le macchie verdi ci sfrecciavano a fianco, ricordando il tragitto fatto in precedenza. Ma c’era qualcosa di diverso nell’aria, che la rendeva pesante da respirare. Ti stingeva i polmoni e ti svuotava così tanto da farti sentire male.
“Certi segreti è meglio non dissotterrarli, i segreti portano guai” 

  
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