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Autore: Clairy93    11/09/2013    7 recensioni
Trieste. 1942.
Nel pieno di una guerra all'apice della sua degenerazione, i destini di due giovani, Massimo e Vera, si incroceranno in una calda giornata di settembre. Lui, giovane tenente dell'esercito italiano. Lei, diciannovenne ebrea.
Una storia di sacrifici, di dolore e paura dalla quale però l'amore può trionfare persino sulle ideologie inconfutabili e sui pregiudizi.
Genere: Guerra, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Olocausto
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- Questa storia fa parte della serie 'Mi avevano portato via anche la luna'
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“Anna! Vera!”
Zia Baba si alza un poco barcollante. Il suo viso stanco e incavato è illuminato da un ampio sorriso non appena ci nota tra la massa di donne appena rinchiuse nel freddo dormitorio.
La abbraccio forte tuttavia allento la stretta appena percepisco le ossa sporgenti attraverso il tessuto leggero della divisa. 
“Ho pregato tanto perché non catturassero anche voi.” dichiara zia Baba abbracciando mia madre “Ma sono comunque tanto contenta di rivedervi.” I capelli rasati e l’estrema gracilità del suo corpo rendono la zia quasi irriconoscibile. Eppure nei suoi occhi scuri riesco ancora a scorgere quel velo di dolcezza che ricordo fin da quando ero piccola.
“Eravamo molto preoccupati Barbara, perché non avete mai provato a mettervi in contatto con noi?” domanda la mamma. Dopo l'inaspettato ma felice incontro con zia Baba, mia madre pare più rilassata e ciò mi conforta.
“E’ vietato scrivere lettere. Non possiamo comunicare con nessuno al di fuori del campo. E in ogni caso non ci permettono di possedere nemmeno un pezzo di carta e una penna, figurarsi chiedere di recapitare un messaggio.”
“E come siete finiti qui?” domanda mia madre confusa.
“Stavamo per lasciare l’Italia e salpare sulla nave quando siamo stati fermati da alcune camice nere. Ci hanno caricato insieme ad altre famiglie su una camionetta e condotti alla stazione senza nessuna spiegazione. Dopo un giorno di viaggio siamo giunti qui.”
Zia Baba alza lo sguardo osservando tristemente la camerata avvolta dall’oscurità e la moltitudine di donne e bambine adagiate sui letti di legno.
“E voi come siete arrivate qui?”
“Hanno fatto irruzione in casa ordinandoci di uscire. Non abbiamo potuto prendere nemmeno dei vestiti o delle provviste.” affermo mentre zia Baba mi guarda allibita “Ci hanno condotto alla risiera di San Sabba dove siamo rimasti per qualche ora prima di raggiungere la stazione.”
“Non capisco…” interviene zia Baba alquanto turbata “Perché proprio alla risiera?”
“I tedeschi ne hanno preso il controllo dopo l’armistizio. La risiera è stata adibita a campo di smistamento, ci chiudono in dormitori simili a questo in attesa di essere nuovamente caricati sulla camionetta e portati alla stazione di Trieste.”
“Abbiamo anche incontrato Lidia.” aggiunge mia mamma con un velo di dispiacere nella voce. Comprendo bene come per lei sia angosciante ripensare alla sua amica, rievocare le atroci condizioni in cui era costretta a vivere e il trattamento brusco e vergognoso dei soldati nei confronti di un’anziana.
“Era prigioniera alla risiera?”
“Sì. E purtroppo non stava molto bene.”
“Non è venuta con voi?” domanda zia Baba, chiaramente preoccupata per le sorti della donna.
Tuttavia il silenzio di mia madre è più che sufficiente e zia Baba china afflitta il capo.
“Che cos’è questo posto?” le domando interrompendo quel silenzio opprimente.
“E’ un campo di prigionia tesoro. Siamo a Mauthausen, in Austria.”
“Austria? Perché avrebbero dovuto portarci proprio qui?”
“Perché siamo ebrei…”
Zia Baba intuisce all’istante come la sua lapidaria risposta abbia provocato in noi non poco turbamento e prova a fornirci maggiori chiarimenti.
“Trent’anni fa gli austriaci inaugurarono questo campo come luogo di reclusione e sfruttamento dei prigionieri di guerra: russi, serbi e moltissimi italiani. Erano stati incaricati di lavorare alla cava di granito, impiegato poi per pavimentare le strade della capitale.”
“E a Vienna nessuno fece domande sulle condizioni di lavoro imposte a Mauthausen?”
“Perché disturbarsi quando potevano usufruire di tutto il granito di cui necessitavano, semplicemente sfruttando una manodopera a basso prezzo?”
La risposta della zia è origine di un forte senso d’inquietudine. Molte più persone di quante immaginassi conoscevano perfettamente le disumane imposizioni a cui i prigionieri del campo dovevano sottoporsi. Eppure mai nessuno aveva tentato di impedirlo, preferendo ignorarci e abbandonarci a un destino assolutamente ingiusto.
“Perciò i tedeschi ci hanno condotto qui per lavorare le loro cave?” domanda sbigottita la mamma.
Zia Baba annuisce sconsolata.
“Lavoriamo dall’alba fino al tramonto. Non importa se il freddo sia insopportabile, se imperversi una bufera o un temporale. Appena termina l’appello mattutino, siamo spedite alla cava a frantumare rocce fino allo sfinimento. E prima di tornare nei dormitori, siamo obbligate a ripresentarci all’ultimo appello serale.”
Improvvisamente ricordo le parole dell’uomo dagli occhi di ghiaccio che mi ha tatuato il numero sull’avambraccio. Aveva nominato degli appelli a cui era indispensabile prendere parte e durante i quali poteva essere richiesta la mia cifra identificativa.
“Quei tedeschi non hanno nessun diritto di comportarsi in maniera tanto spregevole!” dichiaro con rabbia tuttavia zia Baba mi incita allarmata di abbassare il tono della mia voce.
“Attenta alle tue parole tesoro, non possiamo permetterci di affermare frasi come queste. E’ pericoloso.”
“Ma zia Baba stiamo parlando della nostra libertà! Non possono sopprimerla, non è giusto!”
“Non esiste giusto o sbagliato Vera, almeno non in questo luogo.” replica la zia tristemente “Non appena abbiamo varcato la soglia del campo, siamo entrati in un inferno. E senza rendercene conto tutto ciò che siamo ormai non esiste più: non abbiamo più un nome, né un’identità e non meritiamo nessuna forma di rispetto. Diventiamo semplici macchine da lavoro, confuse tra altre centinaia di macchine identiche. Tutto ciò che può identificarci è un numero...”
Zia Baba scosta la manica della casacca mostrando la sua cifra tatuata sull’avambraccio, ormai cicatrizzata ma perfettamente visibile.
“Non posso credere che non ci sia una via di fuga.” interviene mia madre “Ci trattano come topi in gabbia!” 
“Il campo è interamente circondato da filo spinato Anna, costantemente percorso da corrente elettrica. Chiunque provi solo ad avvicinarsi viene folgorato.”
“E’ terribile…” dice mia mamma in un flebile sussurro.
“Non è così terribile Anna se consideri tutti i prigionieri che si sono gettati volontariamente sul filo spinato per sfuggire da questo posto diabolico.”
Mia madre ed io cadiamo in un silenzio tombale.
“Mi dispiace avervi turbate ma devo essere sincera e mettervi in guardia. Vi basta osservare le donne e le bambine in questa stanza per immaginare le atrocità commesse nel campo, azioni che mai avremo pensato gli uomini potessero compiere verso i propri simili.”
Zia Baba china il capo afflitta, tormentata da un dolore troppo grande che a stento le sue gracili spalle riescono a sopportare.
“Gabriele e zio Simone dove sono? Stanno bene, non è vero?” chiedo preoccupata alla zia. Lei alza gli occhi al cielo ed esala quasi con fatica un lento sospiro.
“Zio Simone è ancora vivo, è debole ma sta bene. Capita di vederci al confine del campo. Si trova un’alta recinzione che divide la sezione femminile da quella maschile. Spero tanto che Simone abbia la fortuna di incontrare Giovanni proprio come io ne ho avuta nel ritrovarvi.”
Mamma annuisce abbozzando un sorriso.
“E…Gabriele?” domando intimorita.
Lo sguardo addolorato di zia Baba pare la triste conferma al mio brutto presentimento.
“Gabriele non ce l’ha fatta tesoro...”
Mi sembra di avvertire un pugno dritto allo stomaco.
E’ morto. Gabriele è morto.
Ricordando l’ultima occasione in cui ci siamo visti, sono colta all’improvviso da una spiacevole sensazione di nausea e la vista sembra offuscarsi.
A malapena ci eravamo salutati. Prima della sua partenza da Trieste infatti, Gabriele era ancora molto arrabbiato e distaccato nei miei confronti per la questione di Massimo.
E mi sento così sciocca, avrei dovuto mettere da parte il rancore e tutto sarebbe tornato alla normalità.
Adesso invece nessuno mi restituirà il mio amato cugino, non potrò chiedergli scusa né ricordargli quanto tenessi a lui.
Mia madre posa un braccio sulla mia spalla e mi stringe dolcemente a sé.
Con immensa fatica domando a zia Baba di raccontarmi cosa sia successo al povero Gabriele.
“Qualche settimana fa ha tentato di fuggire dal campo con altri ragazzi. Non hai idea quanto lo avessi implorato di non commettere niente di stupido, di non essere avventato come sempre e stare al fianco di suo padre. Ma Gabriele era fatto così, aveva la testa più dura della pietra.”
Ascoltando il racconto di zia Baba, i dolci momenti trascorsi in compagnia di mio cugino sembrano riaffiorare per un impercettibile istante per poi sfuggire lontano.
“Non appena Gabriele e i giovani insieme a lui hanno tentato di evadere, una guardia li ha uccisi sotto gli occhi di mio marito. Erano solo dei ragazzi…”
Immagino l’immensa disperazione provata dal povero zio Simone, impotente mentre assiste alla morte del suo amato figlio. Ciò provoca un’ondata violenta di lacrime che rigano inesorabili il mio volto.
“Oh piccola Vera, vieni qui.” zia Baba mi accoglie amorevole tra le sue braccia “Dobbiamo reagire, essere forti. Non possiamo lasciarci sopraffare dal dolore, sono sicura che Gabriele non lo avrebbe voluto. Ma adesso dobbiamo dormire. L’appello si svolge all’alba e ci attende una giornata faticosa. Venite con me.”
Io e mia madre seguiamo zia Baba brancolando nel buio. Le brande sono colme di donne strette una all’altra, impossibilitate nel compiere anche il più lieve movimento.
Quasi non mi capacito di come un numero così elevato di persone possa dormire ammassata in quelli che potrei definire letti ma che non sono forniti né di un cuscino e tanto meno di un materasso. Per combattere in qualche modo il freddo, si può usufruire solo di qualche coperta sudicia.
Alcune donne si stringono maggiormente permettendoci di infilarci in una branda.
La scomodità della posizione in cui siamo costrette a dormire è indescrivibile. Non posso girarmi né mettermi su un fianco poiché non vi è spazio a sufficienza. Decido di rimanere immobile, tentando di ignorare le fitte alla schiena e al collo per la durezza delle assi di legno.
“Cosa ci attende domani mattina?” sussurra mia madre.
“Alle cinque ci sveglieranno. Ci sarà l’appello, la colazione e poi al lavoro a spaccare pietre. E’ bene che voi dormiate adesso.”
“La fai così facile Barbara, è davvero scomodo…”
Mia madre viene bruscamente interrotta da alcune donne che le intimano il silenzio. Ripensando alle parole di zia Baba, una giornata in questo luogo deve essere incredibilmente estenuante e in qualsiasi caso le nostre lamentele sarebbero intenzionalmente ignorate.
“Zia Baba?”
Con un flebile sussurro richiamo l’attenzione della zia. La luce proveniente dall’esterno illumina debolmente il suo volto e scorgo un lieve sorriso.
“Tutto ciò che ci sta accadendo, credi sia una sorta di punizione per qualcosa che abbiamo fatto?”
“No tesoro, sono certa non sia così.” risponde la zia sfiorandomi una guancia.
“E come riesci a sopportare tutto questo?”
“Non esiste un metodo sicuro Vera. Però cerco di non pormi questo genere di domande. Creano solo più confusione e ne abbiamo già a sufficienza.”
Eppure non posso condividere il pensiero di zia Baba.
Come potrei non chiedermi quale sia la ragione delle ingiustizie che attuano nei nostri confronti? Dovrei subire in silenzio, inerme di fronte a un destino che qualcuno ha ingiustamente stabilito per me?
Fisso la schiera di letti a castello sopra di me. Nel frattempo trascorrono i minuti, forse le ore. Non saprei dirlo con sicurezza.
Prego per mio padre, spero che stia bene e possa rivederlo presto.
Ho paura del momento in cui sorgerà l’alba, temo per ciò che potrà accaderci una volta lasciata la baracca.
Mi stringo a mia madre alla ricerca di calore. Chiudo gli occhi e il buio mi avvolge.



 
   
 
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