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Autore: K a m i l a h    12/09/2013    2 recensioni
Ol'ga, Tat'jana, Marija, Anastasija.
Quattro granduchesse, quattro ragazze, quattro sorelle, quattro figlie.
Quattro adolescenti, quattro fiabe, una per ciascuna di loro.
Nessun lieto fine.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Zarista, Il Novecento
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- Questa storia fa parte della serie 'Миф о Романовых ≡ Il mito dei Romanov'
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3. Мария - Гадкий утёнок
Marija - Il brutto anatroccolo



"Non conta che sia nata in un recinto d'anatre;
l'importante è essere uscita da un uovo di cigno"
 
ஜ 
 
Ben prima di quanto pensasse si ritrovò a stropicciare nuovamente i begli occhi con le mani paffute, spazzando via le lacrime che avevano ripreso a scendere lente ed inesorabili lungo la rosa delle guance e s’infrangevano contro la bocca corrucciata. Aveva temuto l’arrivo di quel giorno come non aveva temuto altro in vita sua, il giorno in cui dal blu gemmato sarebbero tornati a scorrere tristi fiumi di prezioso zaffiro. Perché lei sapeva quanto fossero in realtà rare quelle gocce, quanto fosse unica lei. Gli altri non vedevano che acqua, nemmeno troppo salata poiché quanto poteva essere amaro il pianto di una granduchessa, di una persona che tutto aveva ricevuto dalla vita e continuava a ricevere? Non lo sapevano loro, che troppo spesso chi aveva tutto non aveva nessuno? 
Neanche lì, nella sua famiglia, nel suo nido, l’approdo sicuro di sempre, il focolare di una vita, poteva dire di avere davvero qualcuno. Qualcuno che riuscisse a scorgere bellezza nel suo pianto, perle nelle sue lacrime, roseti in boccio sulle sue guance. 
Non era come le altre, lo sapeva: le morbide piume che ornavano ogni altra ragazza, il collo, così minuto da poter essere spazzato via da un bacio del vento, su cui le belle teste scolpite in alabastro posavano con garbo, le braccia levigate e simili ad ali, lei poteva solamente contemplarle da lontano e immaginarsele indosso nel più folle ed irraggiungibile dei sogni. Era una magra consolazione quella di poter immaginare, idearsi in un mondo completamente nuovo in cui lei sarebbe stata la più fulgida fra le celesti creature che costellavano come astri il salone da ballo dell’Ermitazh, come timidi passerotti che riflettevano le proprie ombre, simili in tutto alla leggerezza dei corpi stessi, nel mare d’ambra che pareva infuocare la neve stessa in cui tutti loro venivano cullati. Un lago, una distesa di bianco e oro popolata da entità inarrivabili, fuori dalla sua portata: aveva tentato di accedervi, ed era stata scacciata a colpi di becco sul capo. Ed ora non si azzardava a nulla se non rimirare quel pallido miraggio da lontano, chiudendo i begli occhi e tentando di cancellare il nero anomalo delle sue piume contro il latteo fiabesco di quegli uccelli così puri, così… normali. Accettati, ammirati. Lodati. Desiderati. Da lei per prima. Voleva volare via Marija, come tutti loro; voleva che le rozze alacce si trasformassero in sottile piumaggio, che quel collo tozzo s’allungasse e venisse ricoperto di luce. Poteva essere ben di più di quello sparuto stormo, e lo sapeva. Lo sapeva e l’avrebbe fatto. Non aveva idea di quanto, del come, né del perché, ma lo sapeva. Un giorno, in quello stagno regale, avrebbe fatto il suo ingresso fra lo stupore di tutti, incantando ogni essere che avrebbe posato lo sguardo su di lei, e sarebbe scesa dal cielo; bianca, magnifica ed immortale, seppellendo per sempre quel nero che ancora la opprimeva e la teneva al suolo.

  
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