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Autore: Sakyo_    13/09/2013    1 recensioni
Louis. Una volta era quello il suo nome. Da due anni a quella parte, però, la gente soleva rivolgersi a lui con l'appellativo "Giullare". Soprannome scaturito dal fatto che aveva preso l'abitudine di portare uno strano cappello colorato con tanti campanelli appesi alle punte, che suonavano delicati ad ogni suo movimento. Di delicato, in realtà, lui non aveva nulla. Nessuno sapeva, ad esempio, che quello strambo copricapo aveva lo scopo di mascherare la sua vera identità. In passato, molto probabilmente, era appartenuto ad un uomo con una grande testa, perché al Giullare andava così largo da impedirgli quasi di vedere il mondo attorno a lui. Non che fosse così desideroso di osservarlo, anzi. Meno guardava le persone, meglio era. Soprattutto, ce la metteva tutta per cercare di passare inosservato tra la folla. La stazione dei treni era la sua nuova dimora. Perché lui, da due anni a quella parte, era diventato un senzatetto.
Questa storia è nata come "rivisitazione" della mia precedente fanfiction "La bambina e il Giullare", pubblicata su questo sito cinque anni fa.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il Giullare
 

«Dimentica il volto di chi ti ha causato dolore e sofferenza»

Louis. Una volta era quello il suo nome. Da due anni a quella parte, però, la gente soleva rivolgersi a lui con l'appellativo "Giullare". Soprannome scaturito dal fatto che aveva preso l'abitudine di portare uno strano cappello colorato con tanti campanelli appesi alle punte, che suonavano delicati ad ogni suo movimento. Di delicato, in realtà, lui non aveva nulla. Nessuno sapeva, ad esempio, che quello strambo copricapo aveva lo scopo di mascherare la sua vera identità. In passato, molto probabilmente, era appartenuto ad un uomo con una grande testa, perché al Giullare andava così largo da impedirgli quasi di vedere il mondo attorno a lui. Non che fosse così desideroso di osservarlo, anzi. Meno guardava le persone, meglio era. Soprattutto, ce la metteva tutta per cercare di passare inosservato tra la folla. La stazione dei treni era la sua nuova dimora. Perché lui, da due anni a quella parte, era diventato un senzatetto.

«Guarda, mamma! E' il Giullare!»
«Sssh, sta zitta. Andiamo»

Nonostante i suoi tentativi di camuffamento, il Giullare era abbastanza conosciuto in quella zona.
La pelle del volto, dura e sporca, era contornata da una folta barba che gli nascondeva gran parte del viso. Nessuno avrebbe mai creduto che in passato quel volto fosse appartenuto a un bell'uomo.
Forse, nessuno avrebbe mai creduto che il Giullare avesse causato la morte di una persona.

Un giorno, il Giullare si svegliò di buon'ora e si mise subito alla ricerca di un nuovo cappello. Stava diventando troppo famoso per essere un semplice barbone, e non andava bene.
I cassonetti della spazzatura a volte riservavano inaspettate sorprese. Magari quella volta avrebbe trovato, oltre a qualche topo morto, anche un cappello non troppo malandato.

«Ehi, guardate il Giullare!»
«E' sempre più sporco, che schifo!»
«Bleah, sentite che puzza!»

I bambini erano il suo punto debole. Nonostante avesse quasi cinquant'anni, le prese in giro dei bambini lo facevano tornare ragazzino, e non solo. Sentir uscire parole del genere da bocche altrui, gli ricordava ogni volta quello che lui era diventato. Un inetto.
Le frasi di scherno gli facevano tornare alla memoria il suo passato. Cosa avrebbe dato per cancellare i suoi errori... Ma si sa, le azioni compiute non si possono cancellare in nessun modo.
Quando ricevette una pietra sulla schiena, il Giullare si accasciò piano a terra. I bambini risero e corsero via, soddisfatti della loro marachella, mentre lui iniziò a piangere.
Piangeva perché era un debole.
Piangeva perché aveva perso tutto.
Piangeva perché la sua vita era ormai giunta al capolinea.
Le immagini scorrevano davanti ai suoi occhi come scene di un film, ma quello non era un film. Era la sua vita prima di diventare ciò che era diventato.

Le undici di sera. Amber non era ancora rincasata.
In ufficio c'è un gran trambusto per l'uscita del nuovo numero, è per questo che ultimamente torno tardi, gli aveva spiegato a mo' di scusa.
Ma Louis si chiedeva se ciò che le aveva raccontato la moglie corrispondesse a verità.
Presentimenti. Timore.
Doveva evitare di litigare con lei perché sapeva che non era nella posizione adatta per farlo. Da due mesi aveva perso il lavoro, ed Amber era l'unica che in quel momento portava avanti le redini della casa e della famiglia. Doveva rimanere calmo e fidarsi di lei.
Sul tavolino di fronte a lui troneggiava una bottiglia di scotch semi vuota, immagine perfetta dell'oblio che stava pian piano impossessandosi del suo corpo e della sua mente.
Gelosia. Frustrazione.
E se...
Amber aveva molti colleghi maschi. E se l'ufficio tanto decantato fosse in realtà la camera da letto di uno di loro?
«Papà»
Il whisky gli mandò in fuoco la gola, ma ne bevve un ennesimo sorso.
Lo sospettava, l'aveva sempre sospettato. Sua moglie aveva un amante, altro che straordinari.
Rabbia. Violenza.
«Papà, mi racconti una favola?»
«Sta' zitta, Violet!»
Occhi ingenui colmi di lacrime. Le pupille dilatate, evidenti metafore di terrore.

Poi, quel pomeriggio estivo. La troppa calma presente durante tutta la giornata non lasciava presagire nulla di buono.
Lo scotch era finito e le imprecazioni non erano mai abbastanza.
«Amber! Mi hai nascosto di nuovo le bottiglie, vero?»
Un respiro strozzato arrivò dalla cucina.
«Violet, dove diavolo è tua madre?!»
Fu quello il momento in cui nel suo cervello si impresse la fine di tutto. Il corpo inerme di Amber e la sua testa appesa ad un cappio in giardino, e di nuovo gli occhi di Violet, a guardare il cadavere della madre, vittime di immagini contro natura.

Il Giullare si chiedeva spesso se avesse mai posseduto una coscienza. La risposta però era sempre la stessa: se ne avesse avuta una, la moglie sarebbe ancora viva. Per questo era molto propenso ad affermare di non averla, ma c'era qualcosa, un minuscolo sentimento dentro di sé che non era ancora stato contaminato dal marciume del suo degrado morale.
Violet. La sua bambina.
Il vecchio Louis non era mai stato un bravo genitore, e non lo sarebbe mai stato. Forte di quest'unica convinzione, aveva preso la decisione più coraggiosa della sua vita, forse l'unica.
Dare un futuro a sua figlia.
Attraverso i giornali era venuto a conoscenza del fatto che Violet era stata adottata da una nuova famiglia, e quella fu una vera fortuna per lei.
Un padre come lui le avrebbe solamente causato altro dolore, altra sofferenza.
Louis doveva espiare le sue colpe, per questo era diventato il Giullare.
O forse quella era soltanto un'altra maschera.
Probabilmente la verità era un'altra, una verità così meschina che sfociava senza freni nel labirinto dell'abiezione.
Louis aveva paura.
Paura delle conseguenze dovute al gesto della moglie.
Paura che la verità uscisse a galla.
Paura di affrontare ciò che era. Un debole.
Così, aveva deciso di trascorrere il resto della sua vita come un reietto, uno scarto della società, un infame, convivendo con il terrore che un giorno qualcuno lo riconoscesse, lo trovasse e lo castigasse per i suoi errori.
Quel giorno però non arrivò mai.
Gli anni trascorsero, la barba diventò bianca e grigia.
Il Giullare, sdraiato senza forze su un pezzo di cartone lercio, aspettava pazientemente la sua ultima ora. Ormai non aveva più neanche la forza di alzarsi, e la gente preferiva non prestargli attenzione.
Passava la gran parte del tempo a dormire perché il suo corpo era diventato debole.
Quando dormiva, però, sognava un buio spaventoso che lo avvolgeva.
Il buio della vita che lo aveva accompagnato per tutti quegli anni.
Quella volta, però, il sogno finì in modo diverso rispetto alle altre.
Un piccolo bagliore si insinuò nella sua mente, costringendolo a destarsi e ad aprire gli occhi stanchi.
«Papà...?»
Davanti a lui, la sua Violet.
Era diventata una donna e lo osservava con gli stessi occhi innocenti del passato.
Il Giullare faceva troppa fatica a parlare, perciò si limitò a guardare sua figlia in silenzio.
Quante cose avrebbe voluto dirle...
Violet ricambiò intensamente il suo sguardo, poi gli carezzò piano una guancia.
Quanti anni erano passati dall'ultima volta che qualcuno l'aveva toccato?
Gli occhi gli si fecero di colpo pesanti, il cuore anche. Senza accorgersene li socchiuse e poco dopo sentì qualcosa di umido sul viso.
La sua bambina stava piangendo per lui.
Il Giullare stava morendo, ma era felice.
Felice di averla rivista.
Felice perché i suoi occhi non erano cambiati.

Dopo tanto buio, finalmente una piccola luce.
  
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