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Autore: SofiaAmundsen    18/09/2013    10 recensioni
Quegli occhi raccontano una storia che nessuno vuole ascoltare. Raccontano una storia triste, di persone che hanno sofferto e non sono state ascoltate.
Te ne accorgi mentre li guardi muoversi felini sul suo volto, nel buio di una notte fredda a Londra. Nessuno ha mai ascoltato quella storia, lo capisci dalla sua espressione: distante, fredda, gelida. Sembra quasi che lui non abbia mai parlato con nessuno, eppure quelle labbra deve averle mosse, almeno una volta.
Non l’hai notato subito, lo ammetti. Ma tu lavori al cafè della stazione, fai turni lunghi per riuscire a pagarti il posto misero in cui vivi, vedi milioni di persone ogni giorno, che partono senza lasciare niente, che vengono da te senza guardarti negli occhi, che non vedono l’ora di lasciare quel posto, perché che stiano andando o che stiano tornando, un viaggio è sempre qualcosa che ti divide da qualcuno.

John lavora alla stazione. È un lavoro estenuante, noioso. Poi un giorno si accorge di un ragazzo solitario, assorto nei suoi fogli di carta, con due profondi occhi azzurri che sembrano raccontare una storia.
Teen!lock AU!Station
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Quegli occhi raccontano una storia che nessuno vuole ascoltare. Raccontano una storia triste, di persone che hanno sofferto e non sono state ascoltate.

Te ne accorgi mentre li guardi muoversi felini sul suo volto, nel buio di una notte fredda a Londra. Nessuno ha mai ascoltato quella storia, lo capisci dalla sua espressione: distante, fredda, gelida. Sembra quasi che lui non abbia mai parlato con nessuno, eppure quelle labbra deve averle mosse, almeno una volta.
Se ne sta sempre solo, seduto su una sedia in quella stazione sporca e alienante, e tu ti chiedi cos’abbia di così sbagliato per non meritare la compagnia di qualcuno. Tutti hanno un amico, anche il diavolo. Forse è lui a voler stare da solo: neanche alza lo sguardo quando qualcuno, nel suo abitare sfuggevolmente la propria vita, scappando da qualcosa per raggiungere qualcos’altro, gli si siede accanto. Non alza lo sguardo neanche quando passano i treni, nonostante il vento impetuoso che lasciano come unico ricordo gli scompigli i capelli mossi e corvini, quelle volte che le sedie in legno della stazione accolgono troppi viaggiatori per fare spazio anche a lui che non parte mai, così si siede sulle panche vicino ai binari.


Non l’hai notato subito, lo ammetti. Ti piacerebbe poter dire che dal primo momento in cui l’hai visto hai individuato i suoi occhi di ghiaccio sotto il ciuffo scuro che ricade, troppo lungo, sul suo viso, o l’espressione annoiata nascosta dal colletto alzato del lungo cappotto. Farebbe sembrare tutto uno di quei film in cui le persone si rincorrono sotto la pioggia e poi si baciano sussurrando parole più finte delle loro lacrime. Ma tu lavori al cafè della stazione, fai turni lunghi per riuscire a pagarti il posto misero in cui vivi, vedi milioni di persone ogni giorno, che corrono o camminano lentamente, che urlano o sussurrano, che sembrano felici o piangono in fazzoletti usati, che leggono libri d’autore o cercano la propria intelligenza in un gioco senza scopo. Vedi milioni di persone che partono senza lasciare niente, che vengono da te senza guardarti negli occhi, biascicando qualche parola in un accento che hai imparato a riconoscere, per non annoiarti, che non vedono l’ora di lasciare quel posto, perché che stiano andando o che stiano tornando, un viaggio è sempre qualcosa che ti divide da qualcuno. Così ti è passato davanti insieme al mondo e tu hai lasciato che lo facesse. Poi ci è passato ancora. E ancora. Finché non ti sei fermato tu, rappresentando un’eccezione in un posto dove ci si ferma solo per poi ripartire. Ti sei fermato a guardarlo e hai dato tempo a te stesso di notare che quel ragazzo, giovane, troppo per avere già quell’aria triste, si siede sempre lì, su quelle sedie scomode e sporche, consumate dalle vite di tante persone. L’hai osservato con le sopracciglia aggrottate, perso in lui come lui sembrava perso nel suo libro, finché l’impazienza scortese dell’uomo di fronte a te non ha preteso le sue sigarette.
Da quel momento, ti sforzi di distogliere lo sguardo, di concentrarti altrove: fingi perfino di impegnarti nel tuo lavoro e metti ancora alla prova il sorriso finto che usi con clienti che non lo noteranno. Ma torni sempre lì, a cercare un dettaglio che ti è sfuggito in quel ragazzo così misterioso da essere buio.

Hai notato che a volte resta fino a tardi, fino a notte fonda. Una volta che hai dovuto fare un turno di dieci ore ti sei accorto che non resta fino a tardi, dorme lì. Allora ti sei domandato perchè un ragazzo così giovane – quanti anni avrà, 16? 17? Di certo non è maggiorenne – dorma tra i barboni, nel pericolo di una Londra sotterranea che nasconde chi non ha voglia di vedere e non vuole essere visto. Perché non abbia una casa. Poi hai corretto la domanda, notando che è sempre ben vestito, i capelli vaporosi per lo shampoo recente, il cappotto stirato impeccabilmente. Quindi ti sei chiesto perché non abbia nessuno che lo rimproveri se non torna a dormire, o che si preoccupi di dove passi la notte. Forse mente ai propri genitori, hai provato a pensare una volta, ma hai visto troppa sincerità in quegli occhi per darti ragione.


Quegli occhi ti parlano. Ti raccontano tante storie che hai quasi paura ad ascoltare. In effetti, quegli occhi ti spaventano. I tuoi li hanno incontrati tra mille, nella sfuggevolezza della stazione, e sei rimasto senza fiato, un attimo prima di riabbassare lo sguardo. Ti hanno detto tanto, quegli occhi. Ti hanno chiesto di salvarli, o almeno così è sembrato a te, ti hanno detto che hanno visto tante cose, brutte, molto brutte, che avrebbero voluto piangere, ma che non l’hanno mai fatto, o forse una volta o due sì. Ti hanno detto che non tutto è come sembra, che l’apparenza inganna, che quel ragazzo non ha fatto niente di male per meritare la sua solitudine, ma che a volte essere sé stessi ha il suo prezzo, e loro lo sanno bene. Ti hanno detto che qualcuno ha provato ad addomesticarli, a insegnare loro a mentire, a non cambiare col dolore, a non permettere al cuore di servirsi di loro per urlare sofferenze altrimenti inespresse, ad omologarsi con i colori già esistenti, perché essere diversi è sbagliato, perché essere diversi ti rende strano. Ma loro non sono né blu, né verdi, né grigi, né azzurri. Ti hanno detto che a volte si sono chiusi, così stretti da fare male, e hanno lasciato che tutta la sofferenza fosse filtrata dall’udito, che urla sostituissero mani che colpiscono, che singhiozzi sostituissero lacrime. Ti hanno detto di non parlare, che non serve, che a volte l’unica vera parola è lo sguardo, ma il loro è perso nel vuoto, o nascosto tra righe troppo fitte di pagine consumate, per non parlare con nessuno.
Ti sarebbe piaciuto saper disegnare, per immortalare quegli occhi in un tornado di sfumature sottili, ognuna diversa, ognuna intensa, ognuna bellissima, e coglierne il brillare cupo e profondo del blu stellato, il riflettere sensazioni dell’azzurro glaciale. Un bambino molto creativo deve essersi divertito davvero tanto a creare quegli occhi, fondendo colori diversi, accesi, splendenti senza davvero mescolarli, così da forgiare un’opera d’arte tale nella sua indefinitezza. Forse è questo che fanno i bambini in paradiso, quelli morti troppo presto, strappati alle mamme: giocano con gocce di colore per creare gli occhi delle persone belle.
Ma tu non sei un pittore, tu lavori in un cafè, e sorridi alla gente quando viene a comprare un panino elastico e stomachevole da mangiare in viaggio.


È passato un mese, quando realizzi che è folle appuntare in una piccola agenda che tieni sotto il bancone i giorni in cui c’è e fino a che ora si ferma. Un mese, da quando hai iniziato a scriverlo, per caso, quasi inconsciamente. È servito però a farti capire che lui non segue uno schema preciso, orari, date: arriva, si siede nella penombra della sua solitudine, e quando rialzi lo sguardo non lo trovi più, anche se è giovedì, anche se sono le due di pomeriggio o l’una del mattino. Un’unica costante nei tuoi appunti: il mercoledì non viene mai prima delle quattro e mezzo. Provi a chiederti come mai, ma prima che tu possa fermarla, la tua mente vaga già per i limiti sconfinati del possibile. Te lo immagini mentre è a scuola, annoiato tra i banchi, in un recupero pomeridiano che non ha voglia di fare, non per pigrizia, ma per superiorità. Oppure lo guardi nella tua mente giocare a tennis o forse fare equitazione, ma l’immagine di piccole gocce di sudore che gli accarezzano il profilo scolpito ti turba. Ti domandi anche se abbia una ragazza con cui si vede e ti stupisci innervosito e dispiaciuto a quel pensiero.


Un giorno arrivi a lavoro stanco, nervoso e fradicio. A Londra diluvia, il cielo sembra volerla affogare nelle gocce pesanti e fredde che ti entrano nella pelle e ti gelano l’anima e tu devi andare a lavorare prima dell’inizio del turno, per fare un favore a Mike, il tuo collega, un grasso e presuntuoso ragazzotto di città: avresti voglia di prenderlo a pugni ogni tanto, ma sei troppo onesto anche per dirgli di no quando ti chiede due ore del tuo tempo per andarsi a scopare l’ennesima studentessa ingenua, ore che sicuramente non ti restituirà.
Ti appoggi allo sgabello dietro la cassa, dopo mezz’ora di vuoto totale, persone che ti passano davanti anche loro infastidite dalla pioggia, nel vano tentativo di ripararsi dalla tristezza che getta loro addosso. Sai che non puoi farlo, ma oggi te ne freghi: sfogli un libro appoggiato al ripiano della cassa e di tanto in tanto sottolinei qualche parola con la matita che tieni in bocca, o che ti rigiri tra le dita.

«Un pacchetto di Golden Gate Blue.»

La voce ti arriva roca e profonda, un suono nuovo, che improvvisamente ti entra dentro e scalda tutto quello che la pioggia aveva gelato.

Alzi gli occhi dal tuo libro e per un attimo rimani senza fiato. Per un lungo, lunghissimo attimo. Lui è lì, di fronte a te, che ti guarda con i suoi immensi occhi azzurro-ghiaccio e aspetta una tua risposta. Non ti accorgi di spalancare gli occhi, i tuoi di un azzurro più tenue e rassicurante, né di lasciare che le labbra si separino nell’emulazione di un oh sorpreso. Semplicemente, ti perdi nel suo viso, che hai osservato tante volte, di nascosto, cercando di non farti notare, ma che ora che lo vedi così vicino, ti sembra non averlo mai guardato davvero: ha una pelle chiarissima, diafana, molto più bianca di quello che ti era parsa, sembra quasi argentea nel suo essere lattea, come la luce della luna che riflette sul mare, ed è un’eccezione di purezza in un posto in cui tutto ti sembra sporco e nero. Come una goccia di sangue nel latte, su quella distesa candida spicca il rosso di due labbra piene, carnose, turgide, disegnate in un arco di cupido tanto profondo da esser una pericolosa distrazione per chi lo guarda. Gli zigomi profondi e incavati danno al volto un profilo aristocratico e divino, ponendolo quasi come un intoccabile esempio di bellezza, ravvivato da morbidi ricci scuri che ricadono sulla fronte, nella loro naturale composizione confusa, armonici nel loro disordine.
Guardi nei suoi occhi chiari e non riesci a capacitarti di quanto siano luminosi. Chini su di un libro, o persi ad indagare il mondo, non ne avevi colto la piena essenza, nonostante ne fossi già ammaliato. Sono molti più i colori che ora ci vedi all’interno e per qualche strano trucco magico non ti sembrano statici, ma in perenne movimento: vedi onde di un mare orientale avvicendarsi e rincorrersi intorno alla pupilla nera, dando vita a una nuova sfumatura a ogni infrangersi, a ogni galoppare, mescolando nelle iridi cangianti uno splendente verde, un cristallino azzurro, un intenso blu. Le ciglia nere e lunghe sembrano il sipario, la forma allungata e felina il teatro, di uno spettacolo incredibile quanto unico al mondo.

«Un pacchetto di Golden Gate Blue» ripete con la sua voce calda, muovendo quelle labbra perfette che avresti creduto finte.

Distogli lo sguardo, imbarazzato, sperando di non essere stato a fissarlo per troppo tempo: la verità, è che non hai idea di quanto.

Cerchi la marca che ti ha chiesto nella bacheca delle sigarette, improvvisamente nel panico, senza riuscire a vedere la scritta giusta tra le tante colorate che ci sono, tu che sai a memoria il posto di ogni cosa lì. Finalmente lo trovi e afferri il pacchetto, evitando di farlo cadere per poco. Ti giri e i suoi occhi azzurri e profondi sono ancora lì, fissi su di te. Perdi qualche secondo, e qualche battito di cuore, in quello sguardo, poi abbassi gli occhi sulle tue dita sudate che si sfregano sotto il bancone e cerchi un po’ di voce nella gola chiusa.

«7 e 50» ed è quasi un sussurro.

Lui mette i soldi sul piatto di plastica con dentro le mini tic-tac –una banconota da dieci sterline, leggermente umida in un angolo - e solo ora noti le sue mani. Sono belle e affusolate come quelle di un pianista, ma qualcosa in lui ti fa pensare che non lo sia. Un violinista, forse, questo sì. Ha delle dita lunghe e candide come il suo viso, come il suo collo, e per un attimo non riesci d evitare di chiederti come sarebbe averle addosso, nei capelli, sui fianchi, tra le labbra.
Poi ti riprendi e nascondi lo sguardo tra gli scomparti della cassa mentre cerchi il resto. Conti le monete due volte nella tua testa, con fatica: i numeri si mischiano a tante parole che vorresti dire in questo momento, come se un bambino dispettoso avesse mischiato i giochi strutturati dell’asilo.
Cerchi appiglio nella confusione dentro di te e nel respiro che sembra sempre più irregolare, prima di alzare di nuovo gli occhi su di lui. Non ha mai smesso di fissarti, per tutto il tempo in cui le tue mani leggermente tremanti hanno cercato tra i piccoli cassettini, e il suo è uno sguardo indagatore che sembra leggere i tuoi pensieri, i tuoi palpiti. Per un attimo riesci ad accogliere il suo sguardo, ma inaspettatamente le sue iridi azzurre non sono più oceano, bensì riflesso. Vedi te stesso al loro interno e tutti i tuoi più intimi segreti, le tue paure, le tue emozioni, messi in piazza dall’attenzione di quegli occhi per te, come se nel loro universo conoscitivo sapessero, pur senza chiedere mai.

Il vostro sguardo è energia pura e sembra fermare il tempo per un attimo: i treni non sbuffano più sulle rotaie, le persone non chiacchierano annoiate tra loro, le ruote dei trolley non inciampano più sulle mattonelle irregolari. C’è silenzio e solo il vostro sguardo a riempire il vuoto.
Ti perdi in quel cristallo azzurro per la prima e la centesima volta contemporaneamente, cercando di capire cosa c’è dietro, chi c’è dietro, chiedendoti quanto sia triste questa storia per non poter essere ascoltata, per non poter essere raccontata, quanto sofferenza ci sia in quelle sfumature, se ognuna di esse sia una lacrima non pianta. Perché lo vedi che c’è una storia, lì dietro. Non sei un detective, ma capisci le persone e hai un innato istinto che ti porta ad aiutarle, per questo studi per diventare medico. Lo vedi che c’è un velo invisibile di ricordi tra il mondo e quegli occhi, come se tutto il dolore di una vita cercasse di tenere lontano gli altri dalla parte duttile di lui, come se la freddezza e il ghiaccio apparentemente perenne fossero una scusa, una maschera, una bugia, per proteggersi da un mondo che ha sempre fatto male, da persone perfide nella loro ignoranza, da sentimenti inaspettati. Proteggersi da sé stesso, forse, dalla paura della paura, dall’inconscio timore di provare emozioni, emozioni che si trasformano in graffi e poi in cicatrici, emozioni che avrebbero avuto bisogno di essere piante, quando era ancora il momento di farlo, ma non c’erano spalle su cui farlo, non c’erano dita leggere ad asciugare lacrime pesanti.

C’è una macchia, in quell’uragano di colori chiari, ora riesci a vederla nitidamente. Una macchia scura che, se pur blu, sembra catrame. Male denso, nero, colloso, come sabbie mobili nelle quali hai quasi paura di affondare, se ti ci perdi troppo. Non sembra male commesso, ma male subito. Sembra la macchia di una Anna Frank senza diario, sembra la macchia di qualcuno che non ha mai parlato. Come una goccia che perde identità nell’oceano, lasci sfuggire i tuoi pensieri e anneghi in quel buio alla ricerca di un perché, di qualche spiegazione, di storie che nessuno vuole ascoltare. Lui te lo lascia fare, per motivi che vanno oltre la comprensione di entrambi, ma tu neanche te ne accorgi.

Chi sei?

Dice il tuo sguardo, e pagheresti il tuo tempo per sapere cosa dice davvero il suo.

Allunga un mano con il palmo rivolto verso l’alto e tu per un attimo ti chiedi cosa significhi quel gesto, con la parte dei tuoi pensieri che non ha smarrito la via tra la linee sottili di quel candore. Poi realizzi che hai ancora il suo resto, biascichi un oh… sorry che non riesci a sentire neanche tu e metti le monete e il pezzetto di carta stampata sulla sua mano. Le tue dita sfiorano la sua pelle e un brivido lungo e caldo da una scossa al tuo cuore, che inizia a galoppare all’impazzata nel tuo petto, più di quanto non stesse già facendo.
Mette tutto nella tasca del lungo cappotto nero che indossa e ti fa un cenno con la testa - grazie? Buona serata? Arrivederci? Vorresti solo fosse una promessa… - poi tira su il colletto fino a coprirsi metà del viso, lasciando agli spettatori i zigomi profondi, gli occhi affilati, i riccioli morbidi, e sparisce tra la gente.
Rimani a fissare l’ondeggiare del suo cappotto per qualche secondo, ma presto è il cappotto di una donna con dei tacchi e una valigia rosa, poi quello di un uomo con un cellulare tra le mani, una gomma da masticare in bocca e un cappellino blu con la scritta London in testa.
[1]


Il giorno dopo non c’è e tu ti scopri ad aspettarlo.
Il giorno dopo ancora non devi andare a lavoro e sei ancora più sorpreso di ieri: per la prima volta da quando sei entrato in quel buco sporgente sui binari, ti dispiace.
Il terzo giorno, quando arrivi qualche minuto in ritardo, ti sei quasi dimenticato di quell’incontro fugace. O almeno è quello che hai raccontato a te stesso.

Oggi è una giornata stressante: il lunedì tutti partono, tutti arrivano, tutti sono di fretta. Sei lì da poco meno di due ore e sei già esausto, soprattutto al pensiero che ne mancano altre sei. Appoggi i gomiti al bancone con un sospiro e lasci che la tua mano si distenda tra i capelli corti e biondi, mentre chiudi gli occhi per un secondo, o forse due, isolandoti dal caos dell’umano rincorrere il tempo. Quando li riapri, vedono solo una cosa: lui. Non è seduto sulla schiera di sedie che preferisce di solito, quelle tra la fine dei binari e l’inizio dei negozi di abbigliamento, ma molto più vicino alla tua postazione, tanto che i tuoi occhi attenti notano un neo sul collo che non avevi visto prima. Getti uno sguardo al suo posto abituale e vedi che le sedie sono tutte occupate: una donna con una bambina nella carrozzina, una ragazza che legge un giornale di moda, un barbone, e altre persone così diverse eppure così simili.
Lui, invece, è diverso. Lo capisci dal modo in cui muove le mani, da come alza gli occhi sulla gente, di scatto, solo a volte, dalla solitudine nella quale si chiude, molto differente da quella degli altri viaggiatori, soli tra una persona e l’altra: è una solitudine più profonda, più radicata. Ha una penna tra le mani e continua a scrivere su un foglio. Si ferma ogni tanto a rileggere e sfiora con la penna la bocca mentre lo fa, o la morde inconsciamente, oppure la infila tra i ricci scuri mentre le sue labbra si muovono quasi slegate dal resto del corpo, senza parlare a nessuno. Hai provato a decifrare tante volte cosa bisbigliano, ma sembrano parole incomprensibili di una lingua sconosciuta.

«Ce l’hai con speck e rucola?» un accento del sud ti distrae dai tuoi pensieri.

«Cosa?»

«I panini» ti risponde l’uomo in sovrappeso indicando lo scomparto trasparente con l’indice. Ha le unghie nere per lo sporco e ti trovi a trattenere a stento un’espressione di disgusto.

«No, mi dispiace. Sono rimasti prosciutto cotto e Emmental, altrimenti uova e tonno.»

«Fanculo.» impreca tirandosi su i jeans consumati che gli stringono sotto la pancia, dando forma a disgustosi rotoli di grasso in eccesso «dammene uno con il tonno, ragazzo. E muoviti, il mio treno parte e io devo ancora pisciare.»

Ignori i suoi modi sgarbati e prendi il suo panino con un tovagliolo pulito, lo metti in una busta di carta e la appoggi sul bancone.

«Sono 3 e 60.»

L’uomo borbotta qualcosa sui prezzi troppo alti e sul fatto che andrà fallito per colpa di certa gente, ma tu non lo stai già ascoltando. Prendi i soldi senza neanche contarli e li metti in cassa, lasciandolo andare via con un grugnito di risposta al tuo buona giornata, signore.

Quando puoi tornare a guardarlo, lui non c’è più. Al suo posto, il vuoto della sua assenza e una sedia libera a forma di delusione. Sospiri appena, un attimo prima che i tuoi occhi notino qualcosa. Per terra, tra le gambe delle sedie ingoiate dal pavimento, c’è un foglio di carta. Da lontano riesci solo a vederci scritti scarabocchi – simboli strani, forse distingui qualche pallino di tanto in tanto – su righe troppo grandi per essere quelle di un quaderno. Non lo sai, ma qualcosa ti dice che è suo.


Ti muovi d’istinto quando con due grandi passi raggiungi lo sportello d’uscita del cafè, ma ti fermi prima: cerchi il biglietto torno subito che ha fatto Mike per quando una ragazza carina aspetta da sola il treno, e lo appoggi sul bancone, prima di uscire via lasciando come ricordo le molle che cigolano dietro di te e il battente che dondola avanti e indietro.

Acceleri ad ogni passo, senza staccare gli occhi da quel foglio, tanto che alla fine quasi corri. Anzi, corri e basta quando raggiungi le sedie, nel momento stesso in cui il treno raggiunge la stazione e lo fa volare via, sotto i tuoi occhi increduli e amareggiati. Lo sbuffo del treno litiga con il sibilo delle rotaie, il vociare delle persone che si alzano per raggiungere i vagoni si mescola con i suoni di valigie che graffiano la pavimentazione, monete che cadono a terra, scarpe che calpestano. Tutto crea una grande confusione e il mondo intorno a te sembra improvvisamene un dipinto ad acquarelli particolare nella sua vaghezza, in cui l’unico elemento nitido è il foglio che vola tra e sopra la folla. Lo vedi danzare alcune piroette nell’aria, mentre cerchi di scusarti con le persone che stai urtando senza smettere di rincorrerlo, e come una farfalla che non vuole farsi prendere, ti sfugge sempre quando ce l’hai a un soffio.
Ma tu lavori lì abbastanza da conoscere i moti di quel posto. Così aspetti che il caos imploda su stesso per poi scemare in diverse direzioni, lasciando posto alla quiete dopo la tempesta. Con il cuore che batte potente nel petto, non distogli lo sguardo dal foglio neanche per una frazione di secondo, afferrandolo con i tuoi sinceri occhi azzurri. La gente intorno a te si calma e tu ti senti un po’ il protagonista di una scena di Fantasia 2000 mentre ricominci a muoverti a tempo di una musica ritmica e scandita, cercando di afferrarlo.

Quando finalmente lo raggiungi, hai quasi paura a prenderlo. È per terra, sotto i tuoi piedi, si è sporcato appena e un angolo è piegato, ma non strappato. Ti fletti lentamente sulle ginocchia, temendo che persino quel lieve movimento d’aria possa fartelo sfuggire di nuovo. Poggi le mani sulle cosce e lo osservi inclinando leggermente la testa da un lato, come un bambino che scopre qualcosa di nuovo. Adesso riesci a capire che cos’erano i simboli astratti a cui non sapevi dare definizione: note. Sulla carta bianca sono stampate quattro righe di pentagramma, ognuna esordita con un’elegante chiave di violino. Non sai molto di musica, ma ti piace: ti chiedi spesso se saresti diventato un ottimo chitarrista, nel caso in cui avessi potuto continuare a pagare le lezioni. La prima cosa che noti è la mancanza assoluta di correzioni, nonostante sia scritto tutto a penna, nera, con una grafia stilizzata e imprecisa, che ti lascia immaginare sia stato steso di getto. È un mi la nota iniziale, subito dopo le altre salgono sulla scala: si, una pausa, un altro si, la diesis, di nuovo si. Non ricordi perfettamente i valori, ma se la reminiscenza di qualche spartito non ti trae in errore, è una musica lenta, profonda, che indolente vibra nell’aria come un ricordo amaro. Cerchi di suonarla nella tua testa, ma non ci riesci: non sei Beethoven, e soprattutto non hai idea di quale sia lo strumento a cui è destinata. Una cosa la noti, però. C’è tristezza in quella musica, non sai da cosa lo capisci - forse dalle pause che sembrano esserci per lasciar pensare, o dai diesis che si allungano sulle crome – ma riesci a percepirne un respiro di lieve drammaticità, come quella che attraversa le poesie dei decadenti: le rileggeresti all’infinito, ma ogni volta ti lasciano sempre con il sapore amaro dell’angoscia in bocca. È come se ci fosse una storia, tra quelle note scarabocchiate.

Lo prendi tra le dita, con delicatezza, e lo osservi un attimo ancora prima di alzarti. Un attimo che ti serve a notare un dettaglio che ti era sfuggito. In fondo a destra, sull’angolo piegato, c’è scritto qualcosa in una grafia allungata e sottile: Sherlock. Provi a chiederti se sia il nome di qualche compositore famoso, o magari un anagramma, ma ti dai subito una risposta diversa. Quel suono strano deve essere il nome della melodia che stai leggendo - non te ne accorgi, ma muovi le labbra intorno a quelle lettere, pronunciandole silenziosamente. La Sherlock. Ti piace, e mentre ti alzi ti chiedi se un giorno sarà uno di quei brani famosi che conoscono tutti, anche chi di musica colta non sa niente, come Per Elisa o i Notturni di Chopin.

Torni in posizione eretta, con lo spartito ben saldo nella mano sinistra, la tua dominante, e il tuo sguardo si perde tra la folla alla ricerca di pelle nivea, occhi azzurri e ricci corvini. Un misto sconvolgente di tenebre e luce, ecco cos’è lui. Vaghi un po’ tra una banalità che non riesci neanche a scorgere, devoto alla tua ricerca, il mondo che ti passa accanto e tu che sei immobile in un mare senza onde. Poi i tuoi occhi lo afferrano, seduto sulla schiera di sedie che preferisce, e lo sfiorano, cibandosene e impadronendosene, fino a ricamare l’immagine nelle iridi. Sta scrivendo ancora e ora puoi distinguere la sua mano tingere la carta di note, anche se sei lontano e ogni tanto qualcuno interrompe la tua vista, senza che tu te ne accorga davvero. Ha la schiena china in avanti e i riccioli neri gli ricadono sul viso, come hai già ammirato spesso, perdendoti in quella soffice leggerezza. Riesci a scorgere il blu squillante dei suoi occhi muoversi nella mandorla delle sue ciglia, schizzando da una parte all’altra del foglio, inseguendo la mano, o lasciandola vagare mentre cercano altrove, a volte anche fuori dalla carta disegnata. La sua mano allungata e chiara tiene la penna in un modo che reputi strano, come se l’avesse afferrata al volo quando qualcuno glie l’ha lanciata e lui avesse iniziato a scrivere così come si era trovato, troppo vinto all’ispirazione per notare la posizione incongrua.

Il tuo cuore inizia ad accelerare i battiti, pericolosamente, e il tuo respiro ora è affannoso, forse per la corsa, forse no. Ti mordi l’interno delle labbra e tiri un sospiro con il naso, cercando il tuo coraggio che sembra essersi sciolto improvvisamente al suono una musica dolce che non hai ancora ascoltato e un paio di labbra carnose che non hai ancora baciato.
Il terreno sembra incerto sotto i tuoi passi decisi, fedeli a una traiettoria immaginaria che da un punto indefinito si getta in uno certo: lui. Cammini tra le persone senza smettere di fissarlo, se non un attimo in cui ti accorgi dell’intensità del tuo sguardo e, imbarazzato all’idea che lui possa incontrarlo, lo getti a terra tra le tue scarpe, per poi risollevarlo sull’angolo del suo colletto, che sfiora sensuale il collo candido, quando percepisci la portata della sua concentrazione e dedizione al componimento.
I battiti si ricorrono tra loro sempre più man mano che ti avvicini, perdendone qualcuno per la strada, nella troppa fretta di esplodere e pompare sangue nelle orecchie, in una letale variabile di proporzionalità diretta in cui lui è la X e tu una devota Y.
Un attimo dopo sei a pochi passi da lui e ti accorgi di voler tornare indietro, di sentirti stupido, di esserti pentito per aver camminato quei passi ansiosi. Che cosa ti è venuto in mente? Avresti dovuto farti gli affari tuoi: questo posto te lo ha insegnato. Invece hai mollato la tua postazione – forse sarai anche rimproverato per averlo fatto! – con il solo scopo di rincorrere un foglio volante, magari lasciato lì da un viaggiatore che è salito sul treno e che non aveva tempo di gettarlo nel cestino, magari senza significato. E ora, cosa vorresti farne di quel foglio? Darlo a lui? Che non ti conosce, ti ha visto solo una volta e probabilmente, sicuramente, si è dimenticato subito di te. Cosa vorresti dirgli, mentre glielo porgi? Lui non parla con nessuno. Perché dovrebbe parlare con te?
La voce insolente dentro di te si prende prepotentemente la sua ragione e non ti resta che girare sui tacchi e tornare indietro, tra panini di bassa qualità e gomme da masticare. Ma si sa, nella vita quella di essere il protagonista è solo un’illusione, in realtà sei solo una marionetta mossa da destino e tempismo.

Lo capisci quando lui alza lo sguardo su di te, nel momento stesso in cui stai per voltarti e andartene.
Alza lo sguardo su di te e i suoi profondi occhi blu ti trafiggono. Alza lo sguardo su di te e tu ti perderesti nel chiederti il perché di quella fatale coincidenza, se non avessi smarrito la ragione nelle sue sfumature azzurre.
Rimani immobile, rigido e silenzioso nel guardarlo, nel lasciarti spaccare l’anima da quello sguardo che sembra entrarti dentro e leggerti come un chirurgo con un corpo umano, che sembra capire, afferrare, ragionare, che sembra sapere tutto di te senza saperne nulla. Se potessi vedere la tua espressione da bambino forse impaurito, forse curioso, spereresti che lui sia abbastanza distratto da non notarla, senza sapere che lui nota tutto, ma tutto ciò che riesci a vedere sono due occhi così intensi da fare male, da farti morire e risorgere in loro. Riesci a vederli di più, ora, rispetto a quando di sfuggita li incontravi tra la folla, dalla tua posizione angusta, rispetto a quando ti hanno guardato con attesa mentre ti nascondevi tra sigarette e monete. Forse perché ora il suo sguardo è più sincero, non è schermato di quella patina di gelida indifferenza che lo ricopre quando qualcuno gli si avvicina o quando compra sigarette da te, non ha difese, protezioni, barriere, è semplicemente uno specchio d’acqua così limpido da lasciare intravedere il fondale, pieno di relitti, cocci e abbandoni. È lo sguardo di un bambino, un bambino ferito e infelice, un bambino che sa tanto e non dice niente, ma che parla senza parlare, chiedendoti aiuto. Solo ora ti accorgi di quanto ci sia dentro, percependo la sofferenza viva e bruciante tra le pagliuzze colorate, nelle scaglie di ghiaccio, nelle pupille tenebrose.
Quasi allunghi una mano, nella tua testa, per cogliere ognuna di quelle sfumature e occupartene, come se volessi prenderti cura di quegli occhi e cancellare quello che hanno visto, ma in un paradosso di dubbia ironia, ti sfuggono tra le dita proprio quando stai per prenderle. I suoi occhi tornano ad essere solo riflesso, uno specchio senza fondo nel quale riesci a vedere solo te stesso e niente più altro. Tornano ad essere freddezza e distacco, a ricordarti che non sei nessuno per sapere di loro e tu ci metti un attimo ad accusare il colpo della delusione.

Un attimo che ti basta per accorgerti in ritardo del suo sopracciglio alzato in una palese espressione interrogativa.
Imbarazzato e improvvisamente adolescente le parole sfuggono via, trasformandosi in mani sudate e respiro sospeso. Senza parlare, quasi d’istinto, allunghi verso di lui la mano che tiene lo spartito, tendendo il braccio nello spazio tra di voi. Non guarda il foglio, ma guarda te, anche mentre glie lo porgi, come se sapesse già e tu rimani, di nuovo, deluso e sorpreso.
È incredibile quanto il silenzio possa essere assordante nel caos fragoroso di un luogo affollato. Lo sperimenti ora, incapace di sentire i cellulari che squillano intorno a te e i treni che partono alle tue spalle, ascoltando solo le parole mancate tra voi due.

«Credo sia tuo.»

Quado parli ti stupisci di sentire la tua voce. Non le hai ordinato di pronunciarsi, un istinto al quale non sai dare un nome deve averlo fatto per te. Ti meravigli anche di non sentirla tremare, ma magari le tue mani lo fanno abbastanza anche per lei.
C’è una pausa in cui nessuno dei due prende la parola e tu vorresti tanto sprofondare in una crepa nel terreno. Una pausa in cui credi non parlerà mai e rimarrà lì, in silenzio, a guardarti fare la figura dell’idiota. A ridere silenziosamente di te con le sue labbra disegnate.

«E da che cosa l’hai capito?»

La sua voce roca ti taglia con un’ironia alla quale non sai dare ancora una valenza positiva o negativa. Cerchi le parole nel disordine della tua testa, provando a mantenerti razionale pur sentendosi come Alice caduta nel tunnel per il Paese delle Meraviglie.

«Beh, non ci sono molte persone che scrivono sedute alla stazione. A meno che non si tratti della lista della spesa o di un numero di telefono.»

Sembri molto più sicuro di quanto tu non sia, nel parlare come se il tuo cuore non fosse un impazzito venditore di battiti incoerenti.
Una nota di approvazione si dipinge nei suoi occhi e tra le linee del viso, stemperata di qualche goccia di curiosità. Non sai se sentirti apprezzato o sfottuto da quello sguardo: sa essere davvero enigmatico.

«Quindi mi stavi osservando.»

Se possibile, la sua voce sembra ancora più bassa ora, o forse è solo il tuo imbarazzo a fartela percepire così. È un’affermazione, non una domanda e questo contribuisce a farti arrossire fino alla punta dei capelli, senza dimenticare le orecchie: avverti distintamente il calore dilatarsi sulla tua faccia.
Ha un mezzo sorriso disegnato sulle labbra carnose e particolari. Se una piccola parte della tua mente prega che non stia ridendo di te, tutta l’altra sta osannando la sensualità di quella forma curvilinea. O sta cercando di non tuffarcisi e morderle e baciarle e amarle: non sai quale delle due.
Apri la bocca, ma è un gesto inutile deriso dall’ossigeno che si ostina a non entrare e dalle parole che si rifiutano di uscire, sostituite da qualche balbettio indistinto e privo di filo logico – io… non proprio, è che… -, incrementando notevolmente il tuo imbarazzo e il divertimento sul viso di lui.
Prima che tu completi la tua figura da idiota, lui allunga una mano verso di te, il palmo ruotato verso l’altro, le lunghe dita esili che sembrano puntarti. Ci appoggi sopra lo sguardo, insinuandolo nelle linee sottili, come se fosse acqua e quei solchi leggeri il letto del suo fiume. Lo sfiori in ogni tratto, scivolando sulla pelle candida al dolce pensiero di come potrebbe essere intrecciare le tue dita con le sue.
Ti chiedi troppo tardi che significhi quel gesto e la risposta ancora più lenta. Mormori un oh, certo quasi impercettibile mentre posi il foglio sulla sua mano, ritirandoti abbastanza pacatamente da vivere il suo pollice che tocca il tuo sopra la carta rovinata. La vostra pelle che si sfiora, ancora. Questa volta i fremiti gelidi e ardenti si confondono con gli altri che ti attraversano il corpo e la sensazione di levigatezza ti accarezza le dita per un po’, prima di essere ingoiata dal freddo.
Prende lo spartito e lo avvicina al viso, prima di guardarlo a fondo, come se non l’avesse mai visto, come se contenesse segreti. Ne approfitti per osservarlo, come un ladro di immagini irripetibili, indugiando sui dettagli che ordini alla tua mente di salvare e conservare per sempre, in una cartella rinominata Amazing.

Riesci a vedere i suoi occhi cristallini saltare da una nota all’altra sotto le ciglia scure e inarcate: quel movimento è, già in sé, musica.

«Che significa Sherlock?»

Ascolti quella domanda frantumarsi nell’aria tra di voi come se non fossi stata tu a farla, ma un bambino intraprendente che manifesta la curiosità comune, dicendo al re che è nudo. Di nuovo, la voce è sfuggita al tuo controllo e ha fatto un passo per te, che sei troppo smarrito in quel momento per sfuggire alla timidezza.
I suoi occhi infinitamente blu tornano a fissare te, contornati questa volta da sopracciglia aggrottate e un’espressione interrogativa.

«C’è scritto Sherlock, in fondo alla pagina.» dici, puntando con l’indice l’angolo del foglio, senza però avvicinarti troppo. «È il nome del pezzo?»

Lui ti guarda divertito. Sul suo viso appare un sorriso. Non un sorriso aperto e vitale, un sorriso con le labbra chiuse e tirate in una linea sottile verso l’altro, che ne ridefinisce i contorni in modo curioso e affascinante. Ma è comunque un sorriso coinvolgente e piacevole, sereno a modo suo, innocente da un lato, provocante dall’altro. È un sorriso che ti contagia: anche se hai il sospetto stia ridendo di te, non riesci a fare a meno di sorridere anche tu, pensando che non lo avevi ancora visto con quel luccichio sul viso e che è davvero bellissimo quando lo ha.

«Sherlock,» comincia, e quella parola sulla sua voce e le sue labbra sembra incredibilmente sexy «è il mio nome.»

Spalanchi gli occhi per la sorpresa e l’imbarazzo, arrossendo di nuovo e, questa volta, ancora di più. Poi la tua reazione si trasforma in qualcosa di molto più spontaneo, leggero e sincero: una ristata. Getti la testa all’indietro e scoppi a ridere, lasciando che quel suono riempia anche le tue orecchie per qualche secondo. Quando torni a guardarlo lo fai con uno sbuffo di divertita ironia.

«Davvero?»

Lui non risponde alla tua domanda retorica, ma il suo sorriso è sempre lì, riflesso del tuo, a chiamarti a sé.

«Beh, io sono John» dichiari con la voce allegra. «Forse non è un nome particolare come il tuo, ma ne vado fiero lo stesso. John Watson.»

Improvvisamente la tensione scema, soffiando via tra le lettere dei vostri nomi. Sembrate due amici di vecchia data, che ridono delle cose di sempre.

«Sherlock Holmes» ti risponde lui, aspettando la tua mossa.

«Posso sedermi, Sherlock Holmes?» chiedi, indicando la sedia libera accanto a lui. Quello del cafè sembra ormai un ricordo lontano, di un’altra vita.

Lui non dice niente ma tu, per qualche legge universale che non sai definire, sai che è un si quello disegnato tra le curve della sua espressione.

Ti siedi nell’angolo più esterno della sedia accanto alla sua, così da poterti inclinare con il corpo e guardarlo in viso, senza essergli troppo vicino. Nonostante ciò le vostre ginocchia si sfiorano a ogni tuo movimento e tu senti il calore attraverso i jeans. L’imbarazzo torna a reclamare il palco e per un attimo non sai che dire, come se quei pochi centimetri tra di voi – troppo pochi, constatati – avessero ingoiato tutte le parole.

«Psicologo statunitense.»

Le sue labbra si muovono e sembrano quasi svegliarti da un sogno, uno di quei sogni in cui non sai mai se sopravvivrai o no. Le tue sopracciglia aggrottate pongono la domanda al posto tuo.
«John Broadus Watson. I suoi studi sono alla base dell’approccio psicologico del comportamentismo. Il suo esperimento del piccolo Albert è uno dei più interessanti della storia della psicologia: è riuscito a dimostrare che un’emozione come la paura è il risultato di un processo di condizionamento ambientale, attraverso un’osservazione sistematica. Ha attirato molte critiche su di sé con questa sperimentazione: non ha attutato un processo di decondizionamento per rimuovere l'ansia indotta nel bambino, cosa considerata evidentemente poco etica. Atteggiamento decisamente retrograde: se la scienza avesse dato ascolto all’etica staremmo incidendo grosse tavole di pietra.»

Hai un’espressione confusa, ne sei vagamente consapevole, ma non abbastanza da chiedere spiegazioni: quando le sue labbra si sono arricciate intorno a quello sbuffo sarcastico hai probabilmente perso ogni capacità linguistica.
Sherlock alza gli occhi al cielo, quasi annoiato dal tuo silenzio, ma tu non rimani deluso dai suoi modi di superiorità. Forse, stai già imparando a conoscerlo.

«Intendo dire che il tuo nome è particolare» conclude, con te che cerchi di concentrarti sulle sue parole e non sulle sue labbra.

Che cos’era, un complimento? No, non potrebbe. Lui non sembra un tipo da complimenti, a meno che non siano riferiti a sé stesso. Sherlock non sembra un tipo da complimenti. È bello poter dare un nome ai tuoi pensieri.

«Hamish.»

È la tua risposta secca e limpida. La vostra conversazione sembra prendere una strana piega, come l’elettrocardiogramma di un bugiardo: risposte telegrafiche si alternano a lunghi schiocchi di lingua su labbra piene e tu hai la stessa sensazione allo stomaco che ti danno le montagne russe.

«Il mio secondo nome è Hamish, ma c’ero quasi: non sapevo di essere il semi-omonimo di un grande psicologo.»

Lui ti guarda divertito o sorpreso o rilassato o curioso – la sua espressione è così enigmatica che non riusciresti a decifrarla completamente neanche se la guardassi per tutta la vita – e tu continui a sorridere, improvvisamente sicuro di te, improvvisamente felice.











Note:

La storia è ambientata in una stazione ferroviaria a Londra ma, pur essendo stata nella capitale inglese, ho dato al posto la fisionomia della stazione di Roma Termini, forse perché mi è più abituale. Perdonate l’inesattezza.

Per definire il tipo di posto dove lavora John ho usato la parola “cafè”, non so quanto sia esatta, visto che si tratta più di un bancone senza muri intorno, ma era quella che più si avvicinava al nostro concetto di “bar”.

[1] In Inghilterra per comprare sigarette è necessario avere 18 anni, quindi in questo caso John avrebbe dovuto chiedere a Sherlock un documento. Ho volutamente evitato di descrivere questo dando per scontato che John se ne dimentichi, perché preso dal momento, e poi rifletta sulla cosa quando ormai è tardi.


Su questa storia ho una serie infinita di dubbi perché, a mio parere, ci sono dei difetti che non ho saputo correggere. Lascio a voi il giudizio finale, perché in fondo è quello che conta.
   
 
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