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Autore: Atarassia_    18/09/2013    23 recensioni
Se Dante scrisse che gli ignavi avrebbero scontato la loro punizione dopo la morte, quando sarebbe avvenuta la punizione per coloro che invece operano delle scelte?
Se quella schiera di anime dantesche veniva punita in modo crudo , costretta a rincorrere una bandiera bianca mentre insetti e api pungolano i loro corpi, quale sarebbe stata la punizione per chi ha fatto delle scelte? Forse la vita stessa?
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante alla sfida sul gruppo “Efp – salotto con tè e cupcake” durante la settimana dal 09-09-2013 al 16-09-2013.
Sezione: originale drammatico.

Storia arrivata prima alla sfida sul gruppo "Efp - salotto con tè e cupcake"



 

 
Le scelte si fanno in pochi secondi e 
si scontano per il tempo restante.
 (“La solitudine dei numeri primi” Paolo Giordano)
 
 
Se Dante scrisse che gli ignavi1 avrebbero scontato la loro punizione dopo la morte, quando sarebbe avvenuta la punizione per coloro che invece operano delle scelte?
Se quella schiera di anime dantesche veniva punita in modo crudo , costretta a rincorrere una bandiera bianca mentre insetti e api pungolano i loro corpi, quale sarebbe stata la punizione per chi ha fatto delle scelte? Forse la vita stessa?
 
È curioso notare come ogni scelta, anche la più banale, possa poi provocare mille ripensamenti, dubbi, incertezze che ti portano via un poco di quella felicità che hai acquisito.
Che poi, parlare di felicità è esagerato: non si è mai completamente felici. Mai.
Se tu fossi realmente felice non ti ritroveresti mai a pensare a come sarebbe stata la tua vita se avessi scelto un’altra strada. E questo prima o poi succede a tutti.
La felicità è il valore più precario che possa esistere, è momentaneo, fragile e basta poco perché venga spazzato via.
 
Per esempio, a chi non è mai capitato di entrare in gelateria e prendere un bel gelato al cioccolato da due euro e cinquanta, aggiungerci la panna, gustarselo fino alla fine e poi pensare che avresti potuto prenderlo alla stracciatella? È successo anche a te, vero? Sei rimasta tutto il giorno con una voglia insoddisfatta e con la promessa che domani avresti cambiato gusto.
 Ma domani sarà la stessa cosa.
A chi non è mai capitato di entrare in un negozio, provare un vestito che finalmente ti piace ma riporlo subito nell’espositore perché tanto non avresti mai avuto l’occasione per indossarlo? E poi arriva il giorno di quella maledetta festa a cui non puoi mancare e rimpiangi di non aver preso quel vestito con il quale avresti fatto colpo.
A chi non è mai capitato di trovare una persona fra mille che ti piace e desiderare ardentemente l’arrivo di quel giorno in cui finalmente si accorgerà di te? E poi, appena hai un modo per parlarci fai finta di niente rimpiangendo quella possibilità in futuro.
 
La vita è tutto un susseguirsi di scelte e siano esse giuste o sbagliate prima o poi dovrai scontarle e accettare le conseguenze di ogni tua decisione.
 
Qualche anno fa non la pensavo così, anzi, non mi ero mai posta il problema. Vivevo alla giornata, non mi preoccupavo di nulla e prendevo le cose così come venivano.
Se fosse meglio così rispetto ad ora non saprei dirlo. Dico solo che se avessi ragionato diversamente probabilmente le cose sarebbero andate in un altro modo.
Ma si sa, il treno passa una volta sola.
Quante cose ho rimpianto nella mia vita, forse troppe, forse non sono ancora abbastanza e chissà quante altre saranno quelle che dovrò scontare.
E se per uno stramaledetto scherzo del destino avessi la possibilità di rivivere la mia vita, quante cose che cambierei quante altre che rifarei uguali perché sono una testa dura e sbagliare non mi basta mai.
Avevo da poco compiuto i vent’anni quando mi si presentò davanti la scelta che, io ancora non lo sapevo, mi avrebbe perseguitato per tutta la vita.
Quante notti insonni, quanti pianti soffocati contro il cuscino e quanti altri momenti di completo sconforto ho dovuto superare.
È bastato un secondo, una maledetta firma con l’inchiostro nero e ho intrapreso una strada senza ritorno.
Ed ora nemmeno il suo sorriso mentre gioca con la sabbia riesce a confortarmi, nemmeno vederlo spensierato rincorrere un pallone, né vederlo stringere la lingua tra i denti mentre è concentrato a disegnare riesce ad acquietare la mia sofferenza.
E mi maledico per tutto.
Perché io stessa ho firmato la mia condanna. Io stessa e non riesco a non incolparmi.
Avrei dovuto fare più attenzione e non svendere il mio corpo al primo malcapitato che, ebbro per l’alcool e il fumo, aveva approfittato della situazione.
Non posso dire molto riguardo quella notte anche perché non ricordo nulla. Niente di niente.
 So solo che qualcosa è successo e non poteva essere altrimenti viste le condizioni in cui mi sono risvegliata la mattina.
E da quel momento è stata tutta una strada in discesa fino ad arrivare alla fossa che avevo scavato io stessa a mani nude. Un susseguirsi di un avvenimento dietro l’altro che mi hanno portato all’esaurimento.
Le mestruazioni che non arrivavano da più di due settimane, una stanchezza spossante e una verità sempre più evidente difficile da accettare.
Scoprire di essere incinta da più di un mese e venire cacciata di casa il giorno stesso da mio padre che non riusciva più a vedere in me la sua bambina.
Avevo paura di ogni cosa e non accettavo quella vita che cresceva abusiva in me.
Nessuno l’aveva cercata eppure si era piantata lì decisa a rimanerci per qualche mese. Non avevo il coraggio di andare dal medico e porre fine a quello strazio perché, quando ero piccola la mamma mi aveva sempre detto che l’aborto era un omicidio. Una creatura innocente veniva uccisa senza che avesse nemmeno la possibilità di difendersi e così, volente o nolente me ne tornavo di corsa in albergo perché il ricordo di quelle lunghe conversazioni con la mamma mi faceva sentire in colpa.
E la vita proseguì tra alti e bassi ancora per un paio di mesi; imponendomi sul feto mangiavo il minimo indispensabile decisa a farmi valere e mantenere la mia linea duramente ottenuta con anni di palestra.
Ma si stavano iniziando a manifestare anche i primi cambiamenti sul mio corpo: il seno più grosso, le mani e le gambe leggermente più gonfie, il rigonfiamento sulla pancia.
Una fredda mattina di dicembre sembrò che qualcuno avesse accolto le mie preghiere mute ma insistenti: una minaccia d’aborto.
Ma anche quella volta non ebbi voce in capitolo. La creatura era troppo forte e, come se fosse un miracolo, era riuscita a rimanere ancorata alla vita.
Io invece non ottenni altro che una sgridata dal medico che mi impose dei controlli specifici e un’alimentazione più adatta al mio stato.
Rientrai due giorni dopo in albergo sotto lo sguardo compassionevole della receptionist e restai barricata in camera per tutto il resto della settimana.
I giorni sul calendario trascorrevano veloci e il momento del parto si avvicinava.
Alle spalle avevo mesi di sonno disturbato, forti nausee e dolori intercostali.
La creatura stava bene o almeno così diceva il medico.
 Ero diventata passiva riguardo la mia situazione. Poco mi curavo di informarmi sebbene l’oggetto delle visite mediche fosse ospitato nella mia pancia.
Non mi ero nemmeno premurata di scoprirne il sesso. Non aveva importanza.
Il giorno del parto arrivò cogliendomi di sorpresa e dando un’ulteriore scossa alla mia vita che ora non mi apparteneva più di tanto.
Passai diverse ore di agonia distesa sul lettino della sala parto.
Al mio fianco sconosciuti che non facevano altro che darmi consigli e chiedere come stessi.
Nelle orecchie ancora le urla della ragazza che qualche minuto prima aveva sfornato un pargoletto.
Sentivo le gambe tremare e il cuore battere impazzito. La paura mi attanagliò il petto e più volte mi venne l’istinto di alzarmi da quel lettino, afferrare i miei vestiti e fuggire a gambe levate.
Poi, il dolore.
 
Quanto ricordo di quei momenti vorrei dimenticarlo.
 Soffrii troppo e fui più volte sul punto di perdere i sensi.
Poi il vagito di un bambino, un piccolo maschietto, riempì la stanza e tutti sembravano esserne felici o quantomeno sollevati. Tutti tranne me.
L’infermiera si avvicinò a me stringendolo tra le braccia e me lo porse ma io mi girai dall’altra parte soffocando nuove lacrime.
Non volli saperne più niente, mi comportai come se quei nove mesi non fossero mai esistiti.
Feci la mia scelta.
Nessuno mi disse niente, nessuno mi giudicò o almeno se lo fecero io non lo seppi mai.
Decisi di tornare ad essere padrona della mia vita e di non dover quindi dipendere da nessuno.
Fermamente convinta delle mie decisioni afferrai il foglio che mi veniva consegnato dall’assistente sociale e lo firmai senza ripensamenti.
E in quel momento, accettai di non voler avere più niente a che fare con quella creatura che, in quel momento, stava dormendo ignara di tutto nella sua culla.
M i augurai che qualche coppia desiderosa di metter su famiglia lo adottasse anche  se, ad essere sincera, lo desideravo solo perché così mi sarei sentita meno in colpa.
Lasciai l’ospedale la sera stessa pronta ad intraprendere una nuova vita mentre quella vecchia era in mano all’assistente sociale.
Avevo solamente vent’anni e ancora non avevo imparato niente di come si sta al mondo.
 
Oggi ho trent’anni e posso affermare che qualcosa l’ho capita. Sono cresciuta, maturata, cambiata. Ho avuto la possibilità di riscattarmi ma ancora pago la mia scelta compiuta senza ragionare.
Pago quella decisione avventata con la mia felicità, con gli incubi che mi sorprendono nel cuore della notte, con lo sconforto che mi assale ogni volta che vedo un bambino sorridere alla sua mamma.
E mi chiedo inevitabilmente come sarebbero state oggi le cose se solo avessi tenuto con me la mia creatura.
E ora, grazie a delle informazioni ottenute con un lauto pagamento, sono davanti ad una scuola elementare nel centro di Parigi.
È tutta la mattina che aspetto qui paziente. Non appena le tende si muovono un pochino cerco di sbirciare nella classe provando a scorgerlo.
Poi finalmente suona la campanella e gruppi interi di bambini felici si riversano nel cortile dove vengono accolti dai loro genitori.
E finalmente lo vedo.
 Avvolto nella divisa nera con la camicia tutta fuori dai pantaloni ed una scarpa slacciata.
Lo zaino dei gormiti in spalla e un foglio in mano.
I capelli castani, molto simili ai miei, tutti spettinati che quasi vanno a coprire i suoi occhi.
Gli occhi chiari che ora vagano lungo il cortile in cerca di qualcosa, di qualcuno.
Lo vedo venire nella mia direzione e mi illudo per qualche secondo che quel suo fantastico sorriso sia tutto per me. Allargo impercettibilmente le braccia discostandole dal busto come a volerlo accogliere in un abbraccio.
Chiudo gli occhi quando mi supera quasi di corsa e subito mi giro nascondendo un sorriso amaro.
-Mamma!- grida entusiasta saltando in braccio ad una donna bionda che  prontamente lo stringe accarezzandogli la testa.
Scuoto il capo e, con il suono dei pezzi del mio cuore che cadono lentamente a terra provocando un tintinnio devastante, abbandono il cortile della scuola addentrandomi nel traffico di Parigi.
 
La mia scelta l’ho fatta dieci anni fa ed ora non posso più tornare indietro.
La mia scelta l’ho fatta dieci anni fa ed ora sto ancora pagando.
 
 
 
 
 
 


 
 
1 Gli ignavi sono la prima schiera di anime che Dante incontra dopo aver intrapreso il suo viaggio nei tre regni di Dio. Vengono descritti nel terzo canto dell’Inferno e sono coloro che in vita non hanno mai preso una posizione certa, né col bene né col male. Per questa loro colpa Dante non li considera meritevoli di un girone infernale e li colloca nell’Antinferno.
 
 
SPAZIO AUTRICE
Ehilà! ^_^
Eccomi qui con un’altra one-shot drammatica. Devo dire che si sto prendendo gusto.
Non vorrei dileguarmi molto e quindi lascio a voi la parola.
Che ne pensate?
Fatemi sapere.
Con affetto,
Little liar_

 
   
 
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