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Autore: charliesstrawberry    21/09/2013    8 recensioni
«Quali sono le tue certezze, Lena?».
Stringo i denti e socchiudo di poco le labbra, mentre una leggera brezza notturna mi sferza il viso e mi fa rabbrividire nella mia felpa gigantesca. Lo guardo più del solito, con i suoi occhi curiosi che brillano, con le sue mani intrecciate sul suo addome come se stesse per addormentarsi sulle mie gambe, con il suo respiro pesante che sa di alcool e di marijuana. Quali sono le tue certezze?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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E se ti innamori anche del peggio di una persona, sei spacciato.
- G. D'Orazio



 

Sono fermamente convinta che, da qualche parte dentro di me, ho sempre saputo che ad un certo punto della mia vita avrei finito per essere una psicolabile con disturbi mentali vari. Fin da piccola, e cioè da quando i miei passatempi preferiti consistevano nel saltare su e giù sul mio letto e camminare per strada facendo attenzione a non calpestare le giunture delle mattonelle, ero perfettamente consapevole del fatto che sarei diventata un'adolescente parecchio disturbata. Per forza: se no che razza di motivo avrei per salire nella macchina di Adam Walker senza fare una piega?
Il sedile è scomodo, l'abitacolo puzza di fumo e non appena mi rendo conto della cazzata che sto facendo vengo pervasa dall'istantaneo bisogno di aprire la portiera e scappare il più lontano possibile. Ma, si sa, la mia testa bacata, nel farmi ragionare, ha un tempismo peggiore del Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie: quando sto per catapultarmi fuori dall'automobile con la scusa meno credibile del mondo, avverto la portiera dalla parte del guidatore aprirsi e qualche secondo dopo Adam è alla mia destra e infila le chiavi nella toppa, e il cuore mi martella contro il petto.
In fin dei conti è stato gentile, lui. Quando siamo usciti dallo studio di Wilson mi ha vista incamminarmi da sola sul marciapiede e mi ha offerto un passaggio, proprio come una persona civile. Il punto è che di Adam non mi fido, che ho provato un fastidio a pelle nei suoi confronti dal primo istante che l'ho visto; il punto è che ho notato le sue fugaci occhiate omicide nei confronti di tutti, quando pensa che nessuno lo stia a guardare: è come fuoco che gli attraversa le pupille, in un attimo, e poi tutto passa velocemente e lui torna ad assumere il suo sguardo indifferente e annoiato. Ma io lo vedo. Il punto è che ho paura di Adam: sembra il tipo di ragazzo che con te potrebbe farci qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Sembra... pericoloso.
Eppure io gli ho mostrato un sorriso falso e l'ho ringraziato per il passaggio, surclassando Miss Stupidità in persona. Come si dice, quando un ragazzo ha tutta l'aria di essere uno stupratore, tu... non perdere tempo e sali in macchina con lui!
Devo calmarmi. Adam è solo un ragazzo un po' misterioso, non mi farà nulla. Cerco di convincermi e nel frattempo visualizzo arcobaleni e coniglietti rosa. Va tutto bene.
«Certo che Wilson è schizzato» Adam riempie il silenzio – parecchio imbarazzante, mi accorgo solo adesso – che fino a poco fa regnava tra di noi.
Lascio cadere le mani sulle ginocchia ed annuisco piano. «Oggi sembrava un po' su di giri» ammetto lasciandomi andare ad un lieve sorriso. Wilson e Ophelia oggi ci hanno proposto l'interessantissimo gioco del "Raccontami il tuo ricordo più bello e poi spiega per quale motivo per te è così importante"; in tutto questo, per qualche arcano motivo, il nostro psicologo non la smetteva di ridacchiare, come se ad ogni nostra parola o ad ogni lancio di Ophelia udisse una barzelletta divertente. Forse, ancora una volta, rideva di me.
«Per me gli serve una scopata» sento Adam ridere alla sua stessa battuta ed io non posso fare a meno di fare altrettanto, di fronte alla visione di un dottor Wilson frustrato perché in astinenza.
«Beh, ha sua moglie in casa... Sono certa che può soddisfare i suoi desideri ogni volta che vuole» ribatto rilassandomi un po' sul sedile.
Adam, tuttavia, scuote la testa. «Non lo sai? Wilson ha divorziato da poco».
Socchiudo le labbra, in un'espressione sorpresa. «Dici sul serio?» domando sconvolta, le immagini di quella bella donna dai capelli biondi e lucenti e dal sorriso gentile che ogni tanto vedevo seduta nella sala d'aspetto del dottor Wilson che bombardano la mia mente in quest'esatto istante. Mi salutava sempre con fare cordiale, e ogni volta che la vedevo mi domandavo come diavolo facesse una persona così a stare con un tipo come Wilson.
Evidentemente ha cominciato a porsi questa domanda anche lei. Quando Adam annuisce alle mie parole, confermando tutto, mi scopro incredibilmente dispiaciuta per il mio psicologo, più di quanto avrei mai immaginato di essere. Forse, in fin dei conti, ho cominciato a stringere una sorta di legame con lui: non sono certa che si tratti d'amicizia, d'affetto o di odio – anzi, a ripensarci si tratta decisamente di quest'ultimo – ma sono convinta che sia stato proprio il legame costruito con lui in questi mesi di terapia a farmi provare compassione nei suoi confronti.
«Mi dispiace» mi ritrovo a dire in un sussurro, le dita incrociate in grembo e le labbra serrate.
Adam annuisce, «Già, anche a me» e si inumidisce il labbro inferiore, concentrato sulla strada di fronte a noi. «Soprattutto perché sfoga tutta la sua frustrazione sui poveri pazienti!» e stavolta non posso fare a meno di lasciarmi andare ad una risata, sincera e liberatoria. Il suono della mia voce invade l'abitacolo e presto si unisce anche lui a questo mio piccolo momento di ilarità.
«Perché hai paura di me, Lena?» smette di ridere ma sorride ancora, e mi spiazza.
Resto ad osservarlo un istante, incerta. «Perché mi sembri un ragazzo cattivo» ammetto tentennante, e sento la sua risata forte e vigorosa spezzare questo momento di tensione.
«E cos'hanno i ragazzi cattivi che non va?» domanda incuriosito.
Mi stringo nelle spalle. Per quale assurdo motivo adesso stiamo discutendo di questo? «Non so, mi hanno sempre insegnato a temere le cose cattive».
Il suo sorriso breve e conciso mi suggerisce che non è offeso, solo divertito dalle mie ultime parole. «Non preoccuparti, Lena Hawkins. Ti assicuro che io sono un bravo ragazzo cattivo».
Sollevo un angolo delle labbra; forse dovrei rivalutare Adam, in fin dei conti è stato gentile con me... ed è anche simpatico. «Fermati qui» sento la mia voce pronunciare mentre mi accorgo in che punto siamo arrivati.
Adam aggrotta le sopracciglia ma non accenna a fermarsi. «Qui? Ne sei proprio sicura?» mi domanda confuso guardandosi intorno, probabilmente in cerca di case o altri complessi residenziali che qui non ci sono. Solo un supermercato, alcuni uffici ed un campetto da calcio, accanto al quale gli intimo di posteggiare.
«Sono sicura» affermo decisa, annuendo con forza. «Mi... mi va di fare una passeggiata».
Il ragazzo alla mia destra inarca un sopracciglio. «Lena, questa non è esattamente una bella zona in cui fare una passeggiata» dice in un tono po' diffidente lanciando un'occhiata fuori, verso i ragazzi che stanno sugli spalti del campo da calcio. «Guarda che posso tranquillamente accompagnarti fino a casa, non ci vuole niente...»
Gli sorrido e scuoto la testa. «No, davvero. Grazie del passaggio, Adam» dico infine mentre apro la portiera e scendo dalla macchina; una volta chiusa lo vedo sporgersi un po' di più verso il finestrino.
«Sta' attenta, okay? Non sono tutti bravi ragazzi cattivi come me!» scherza ma sembra sinceramente preoccupato. Mi sembra così strano. Io scuoto la testa tranquilla, come a volerlo rassicurare che starò bene, e rimango ferma per qualche istante mentre guardo la sua Volkswagen grigia sparire dietro l'angolo.
Mi fermo a pochi passi dalla rete che dà sul campetto da calcio. Stavolta c'è solo una coppia di ragazzi all'interno, e nessuno dei due è Harry. Un moro dalla carnagione scura è intento a completare uno strano disegno con la bomboletta spray sul muro accanto agli spalti, e un biondino lo osserva e gli parla mentre si fuma una sigaretta. Vengo improvvisamente colta da un moto di delusione, e non faccio neanche in tempo a litigare con me stessa sul perché effettivamente io sia delusa, che una terza figura si unisce alla scena. I ricci scuri ondeggiano ad ogni suo passo mentre si fa avanti e saluta gli altri due sbattendo i pugni contro i loro: socchiudo leggermente le labbra, osservando la sua figura slanciata. L'ho visto poco fa da Wilson, e, anche se farei meglio ad essere infastidita da lui e dalle sue continue occhiate antipatiche, non posso tuttavia fare a meno di esserne rapita.
Resto ad osservarlo per un po', studio i suoi movimenti, il modo in cui tira la testa all'indietro quando ride, in cui si scompiglia i capelli, in cui fuma la sigaretta che il biondo gli ha passato con riluttanza. Non mi chiedo perché faccio tutto questo, so che non vorrei udirne la risposta: rimango qui e basta, come un'impalata in piedi di fronte alla rete di cinta del campetto, che osservo a mo' di stalker le azioni del riccio. Almeno fino a quando il biondino non incrocia il mio sguardo: lo sostiene per un po' e poi aggrotta le sopracciglia, confuso; si rivolge ad Harry ed indica dalla mia parte. A questo punto dovrei scappare a gambe legate come da copione, far finta di essere solo di passaggio e non di starli osservando da almeno dieci minuti. E invece, da brava idiota quale sono, rimango ferma mentre un Harry Styles confuso – e anche parecchio incazzato, aggiungo mentalmente – si dirige dalla mia parte, e ad ogni suo passo il mio cuore perde un battito. Lo osservo cercando di assumere lo sguardo più duro ed indifferente che possa mettere su e sostengo il suo, che balena su di me, da capo a piedi. Si blocca ad un paio di metri, ed io guardo il suo corpo attraverso la rete che ci divide.
«Non puoi stare qui» esordisce in un tono secco e autoritario, che suscita reazioni contrastanti in me. C'è una parte che vorrebbe volentieri schiaffeggiarlo, mentre l'altra, per qualche motivo a me ancora oscuro, in questo momento si scioglierebbe tranquillamente al sole.
I suoi occhi verde-azzurro rimangono duri sui miei, la mascella serrata. Io resto a guardarlo, in silenzio. «Non mi hai sentito?» dice, stavolta a voce un po' più alta. «Devi andartene» scandisce bene quelle parole, quasi spazientito.
Mi specchio per un istante in quei suoi occhi cerulei che adesso sembrano di fuoco, proprio come quelli di Adam; e, senza dire nulla, faccio come mi dice.


Sono le due di notte. Indosso un paio di jeans sgualciti, gli stivaletti che porto tutti i giorni e la felpa che mi ha regalato papà a Natale; sono le due di notte e io sono alla stazione abbandonata, seduta sulla panchina che costeggia i binari immaginando che Jonah sia accanto a me.
Sono uscita di casa in punta di piedi guardandomi alle spalle ogni istante e ho infilato le scarpe solo nel vialetto. Ho preso due tazze di caffè prima di andare, perché, anche se non ho sonno, non voglio correre il rischio di addormentarmi fuori; è già successo a Marzo, sono crollata su questi binari e mi sono risvegliata in un letto d'ospedale, accerchiata da infermiera, dottore, madre e poliziotto. È stato qualche tempo prima che mamma decidesse di mandarmi da Wilson; «Ti farà bene», «Vedrai che guarirai» e un bacio sulla tempia prima di andare.
Sono le due di notte e, nonostante la felpa che mi ha regalato papà, sento i brividi. Lo sguardo apparentemente perso nei binari di fronte a me in realtà viaggia nei ricordi più lontani, e sento tutta la consapevolezza scivolare via; quando sono sola dimenticare è molto più facile, è come se fossi in un altro posto, lontana da tutto e da tutti. Mentre mi domando che giorno sia oggi la faccia barbuta e scorbutica del mio psicologo appare davanti ai miei occhi come un miraggio, e mi sento piccola piccola di fronte alla sua espressione di disappunto. Forse Wilson ha ragione, forse non voglio migliorare.
Serro le palpebre e raccolgo tutta la forza di volontà che ho in corpo pur di non far scivolare via il presente. Uno, due, tre, quattro...
«Oggi è il quattordici Novembre» mormoro piano a me stessa, gli occhi ancora chiusi e le guance arrossate per il freddo.
«Tecnicamente, oggi è il quindici». La voce accanto a me mi fa sobbalzare, e mi ritrovo in piedi in posizione di difesa ancor prima di aver aperto gli occhi. Sbatto le palpebre più di una volta, cercando di assicurarmi che la figura che ho davanti e che se ne sta seduta tranquilla sulla panchina non sia un'allucinazione.
«Vedi, è mezzanotte passata» spiega tranquillamente, e dopo scoppia in una risata roca e sonora, quasi isterica, e capisco dai suoi occhi rossi che non è pienamente in sé.
«Quante canne hai fumato?» domando, un sopracciglio sollevato mentre ancora il cuore mi martella nel petto per lo spavento.
«Non lo so, un paio» ammette e ridacchia di nuovo, picchiettando accanto a sé sullo spazio vuoto del sedile.
Sospiro e mi siedo, scuotendo leggermente la testa. «Mi hai spaventata a morte».
Sono le due di notte, fa un freddo cane, io ho bevuto due tazze di caffè ed Harry Styles è seduto accanto a me sulla panchina della vecchia stazione del treno. E ridacchia. «Non era mia intenzione» dice, e questo è uno di quei momenti in cui lo prenderei volentieri a sberle «Sembravi un po' fuori di te e pensavo avessi bisogno di aiuto».
«Non sono fuori di me» dico a denti stretti, un tono talmente basso che lui fatica a udirmi, anche se intorno a noi tutto è silenzio. «Che ci fai qui?».
I suoi occhi rossi e spiritati si spalancano un istante per la sorpresa, e per un istante vedo quelle sue iridi verdi luccicare sotto la flebile luce del lampione a pochi metri da noi. Adesso nell'oscurità riesco solo a distinguere i lineamenti morbidi della sua mandibola, i ricci bruni che gli ricoprono la fronte e parte degli occhi, il contorno delle sue labbra piene che hanno la forma di sorrisi beffardi, la sua sciarpa scura che gli copre quasi tutto il collo.
«Che ci fai tu qui!» replica in un tono di voce più alto e sorpreso, e aggrotto le sopracciglia al sorriso sulle sue labbra.
«Pensavo che non mi volessi tra i piedi» dico invece, e mi accorgo del risentimento nella mia voce.
Lui ride, forte. Mi scopro persa nella sua risata, che non è cristallina e leggera come la mia, ma mi piace comunque; anzi mi piace di più così, roca e metallica, graffiata da tutte le sue sigarette e dalle grida che fa quando schiamazza con i suoi amici del campetto.
Scuote la testa ripetutamente, più volte del dovuto. «Oh, no! No, no no: perché pensi una cosa del genere? Certo che no, Lena, certo che ti voglio!» in un gesto inaspettato allunga le braccia verso di me e mi stringe in un abbraccio del tutto innaturale, ma per qualche motivo avverto il cuore in gola e i brividi sulla pelle.
«Sei fumato» commento, stritolata tra le sue braccia, e mi divincolo rivolgendogli un'occhiataccia.
«E allora?» dice lui in un'altra risatina.
Vorrei andarmene e lasciarlo qui moribondo, ma è stato lui ad invadere il mio territorio, sarà lui il primo a levare le tende. «Devi andartene» mi ritrovo a dire, nello stesso tono che lui ha utilizzato poche ore fa con me.
Ma lui ride più forte, tira la testa all'indietro e si tiene la pancia, poi si lascia scivolare sul sedile, privo di forze, fino ad appoggiare la testa alla mia spalla.
«Vuoi che me ne vada, Lena? Dimmi che non vuoi almeno un po' che resti» lo mormora contro il tessuto della felpa sulla mia spalla, sembra quasi una preghiera, ed io sento il suo respiro così vicino a me che mi pietrifico istantaneamente. Sospiro. Lo riaccompagnerei a casa, ma non so neanche in che zona si trovi.
«Dove abiti, Harry?» chiedo con cautela, lo sguardo ancora lontano che costringo a tenere fisso davanti a me per non incrociare il suo. Ho abbandonato tutti i propositi di avercela con lui, perché non posso essere incazzata con uno che, ora come ora, chiaramente non ragiona.
Lui sospira sereno e si sposta, sdraiandosi sulla panchina e appoggiando la testa sulle mie gambe, e m'irrigidisco. Mi guarda furbo dal basso, e i suoi occhi verdi brillano nell'oscurità delle due di notte. «È un segreto» e si porta l'indice sulle labbra, proprio come i bambini. E io mi scopro a ridere piano.
«Dove sono i tuoi genitori? Sanno che sei qui?»
Sbuffa. Proprio come un bambino. Proprio come Jonah. «Sono a casa. Forse adesso stanno facendo sesso oppure litigano, oppure dormono e attendono un nuovo giorno». Lo guardo accigliata. «Non so se sanno che sono qui. Forse lo sanno e fanno finta di nulla, forse lo immaginano o forse non ne hanno la più pallida idea e dormono beati, convinti che il loro figlio sia nella stanza accanto. E forse mi dispiace, o forse non me ne importa nulla». Attimo di silenzio, mi guarda pensieroso e adesso non ride più. «Hai notato quanti forse ho detto?» ridacchia. Annuisco e sorrido alla sua osservazione, e cerco di reprimere la voglia di accarezzare i suoi ricci che adesso sono sparsi sui miei jeans e che sembrano essere così morbidi al tatto. «Non c'è mai niente di sicuro. È tutto un "forse", "magari", "può darsi"... La vita è tutta un continuo intreccio di possibilità infinite». Resto in silenzio ad osservare il suo viso farsi pian piano più serio, quasi... triste. «Quali sono le tue certezze, Lena?».
Stringo i denti e socchiudo di poco le labbra, mentre una leggera brezza notturna mi sferza il viso e mi fa rabbrividire nella mia felpa gigantesca. Lo guardo più del solito, con i suoi occhi curiosi che brillano, con le sue mani intrecciate sul suo addome come se stesse per addormentarsi sulle mie gambe, con il suo respiro pesante che sa di alcool e di marijuana. Quali sono le tue certezze? I miei occhi vagano da parte a parte perlustrando l'intero binario di fronte a noi, mentre la domanda di Harry mi riecheggia dentro alla ricerca di un appiglio, di una risposta sensata, ma continua a vagare indisturbata nei meandri della mia mente. Serro le labbra in evidente difficoltà, e lui lo capisce. È che io, di certezze, ne ho proprio poche.
Sorride compiaciuto, come se si aspettasse dall'inizio una reazione simile. «È difficile, non è vero?». Rispondo con un breve cenno del capo e avverto i brividi in ogni parte del corpo: stavolta, però, non è colpa del vento. «Il motivo per cui sei così. Per cui vai da Wilson e non parli tanto con la gente e per cui sei così... tu». L'incidente. Jonah. Le amnesie. Annuisco. «Quella è una certezza» aggiunge, e la sua non è una domanda. Mi sta spiegando, e io faccio di sì con la testa, come per dirgli che ho capito. «È la tua unica certezza, Lena?» chiede, e aspetta il mio segnale d'assenso per continuare. Quando faccio un breve cenno con la testa, lui sorride compiaciuto, «Allora sei fottuta», e stavolta lo fa in un modo inquietante e tenebroso che mi mette quasi paura. «Benvenuta nel club».
Sollevo un angolo delle labbra, in un mezzo sorriso forzato. Se lui è divertito, io sono terrorizzata. Si sistema meglio sulle mie gambe ed io mi sento come una mamma che cerca di cullare il proprio figlio con qualche ninna nanna.
«Perché mi fissi, Harry?» Le parole sono più veloci di me, escono dalle mie labbra prima che possa effettivamente pensarci sopra. Sospiro, aspettando una sua reazione, che si fa vedere con le labbra arricciate e le sopracciglia corrugate.
«Ti fisso?».
«Mi fissi. Da Wilson, a scuola... non fai altro che guardare nella mia direzione e la cosa mi da sui nervi».
Lui sorride, compiaciuto. È felice di starmi sui nervi? «Io non ti fisso» dice imperterrito mentre scuote la testa, e adesso mi sembra tanto un bambino testardo con la bocca sporca di marmellata che vuole negare di aver appena fatto uno spuntino fuori orario.
«Non negare l'evidenza».
«Sei tu che fissi me!» sbotta, e stavolta è arrabbiato. Non faccio neanche in tempo a rispondere che solleva il proprio busto e si mette a sedere, fronteggiandomi. «Perché dovrei fissarti, se no?».
Abbasso lo sguardo. «Non è vero».
«Oh, invece sì» ribatte sicuro, e sembra quasi che la sua voce metallica mi graffi la pelle. «Te ne stai sempre lì, ai margini dei campetti, a guardarmi. Sono due settimane che passi sempre alla stessa ora, e ti fermi là, dietro la rete, e mi osservi tutto il tempo. Non ti avvicini, non cambi postazione, non provi neanche a chiamarmi. Resti là e mi guardi, in silenzio». Adesso è in piedi e il suo sguardo è di nuovo di fuoco, come quello di qualche ora fa, come quello di Adam.
«Hai iniziato tu!» incrocio le braccia al petto e abbasso lo sguardo, mentre sento le guance arrossire per la vergogna. In questo momento vorrei tapparmi le orecchie per non sentire le sue parole e gridare, più forte che posso: "Non ti sento, non ti sento, non ti sento!". Proprio come una bambina.
Ma non mi sono tappata le orecchie, e comunque adesso tutto quello che riesco a sentire è silenzio. Perché Harry non parla e mi guarda accigliato, incazzato, annoiato, stanco, beffardo: i suoi occhi mi trapassano da parte a parte e io mi sento, di nuovo, piccola piccola. E, prima che possa aggiungere altro, lo vedo voltarsi e incamminarsi verso l'entrata. 



Note.
Innanzi tutto vorrei scusarmi per l'attesa ma come avrete immaginato la scuola è cominciata e risucchia ogni energia vitale barra ispirazione, mi duole dire che non ho scritto praticamente nulla di concreto negli ultimi venti giorni. Ad ogni modo sono un po' avanti con i capitoli, per cui non vedo il motivo di non postare :)
Diciamo che con questo capitolo si va un po' avanti, non credete? Spero vi sia piaciuto, al prossimo aggiornamento!
Per chi volesse contattarmi, potete trovarmi qui: twitter - ask - facebook
Vi lascio con un'anteprima del prossimo capitolo e una foto di Adam.
Un bacio,
Carla xx



 

«Mi dispiace, ma sono vincolato al segreto professionale» alza le mani, in segno di resa. «Tuttavia puoi sempre chiederglielo tu, no? Visto che sembrate essere così in sintonia...»



 

   
 
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