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Autore: EvgeniaPsyche Rox    21/09/2013    10 recensioni
Roxas Hagen vive un'esistenza che è lontana anni luce da ciò che si può considerare come una vita normale.
E' stato spedito nella clinica Werner a sedici anni e mezzo;ora ne aveva diciotto e a lui sembrava sempre di essere al punto di partenza.
Anzi.
Talvolta gli pareva addirittura che la sua situazione fosse peggiorata.
-Un migliore amico che fa di tutto pur di infrangere le regole, un odiosissimo compagno di stanza, terapie di gruppo, pazienti del terzo piano, passati che continuano imperterriti a bussare alla porta...
Forse non ricordava neanche che cosa fosse una vita normale. -
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Axel, Hayner, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessun gioco
Capitoli:
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Insidie interiori.

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7. White


Durante il Venerdì veniva fatta soltanto un'attività pomeridiana, poiché secondo il preside i pazienti dovevano avere tutto il tempo necessario per prepararsi all'incontro con i parenti.
Roxas strinse maggiormente il fazzoletto macchiato di rosso contro le proprie narici.
Questo perché ovviamente secondo quello svitato di Xemnas loro avrebbero passato più di un'ora a lavarsi, a scegliere i vestiti adatti, a pettinarsi, a tirarsi i capelli all'indietro con il gel e così via.
Ma certo.
Roxas pensava che fosse tutta un'enorme presa per il culo, dal momento che dovevano chiedere addirittura il permesso di usare il rasoio. Ed era lapalissiano che se ciò veniva loro concesso dovevano anche essere tenuti sotto controllo da un'infermiera.

Era una cosa così stupida, si disse tra sé e sé. Ormai tagliarsi le vene con il rasoio era passato di moda; se qualcuno avesse cercato di suicidarsi in questa maniera avrebbe assolutamente raggiunto la soglia della monotonia.
Meglio cercare qualcosa di più originale per mettere fine alla propria esistenza, tanto per essere ricordati.
Fortunatamente lui non aveva problemi del genere; sia perché, nonostante i suoi diciotto anni, aveva la pelle molto liscia -Forse addirittura troppo-, sia perché, anche se avesse avuto una barba da far invidia a Gesù di Nazaret, non si sarebbe mai e poi mai abbassato al livello di poter chiedere il permesso di utilizzare un dannatissimo rasoio.
Era una regola veramente stupida; in mensa usano i coltelli e quindi se a qualche schizzato sarebbe venuta voglia di ammazzare qualcuno l'avrebbe fatto senza problemi.
Permettevano ai pazienti di utilizzare i coltelli durante i pasti e non gli consentivano nemmeno di avere nella propria stanza un paio di forbici con la punta arrotondata.
Roxas pensò che molto probabilmente la parola ''coerenza'' era un vocabolo del tutto sconosciuto nella mente di Xemnas.
Allontanò la mano sinistra dal proprio naso e si accorse che finalmente aveva smesso di sanguinare; dopodiché si alzò e buttò il fazzoletto nella pattumiera prima di raggiungere il proprio comodino, aprendo il cassetto per potersi dedicare alla lettura del suo amato libro.
Rimase immobile per qualche secondo a contemplarne la copertina con aria assorta, quasi sperasse di essere risucchiato all'interno di essa in qualche modo, e sospirò, aprendo il libro ad una pagina a caso:

''C'è sangue per le strade.

C'è sangue per le strade

& m arriva alle caviglie
Sangue per le strade
della città di Chicago
Sangue che mi segue
dopo che trabocca


Sangue per le strade
scorre un fiume di tristezza
Sangue per le strade
& mi arriva alla coscia
Il fiume scorre rosso
ai piedi della città
Le donne singhiozzano
rossi fiumi di gemiti



Sangue per le strade
nella città di New Haven
Sangue che macchia i tetti
e i palmizi di Venice



Sangue nell'amor mio
nell'estate tremenda
Il Sole rosso e... ''

«Cazzo!»
A quell'esclamazione poco elegante Roxas chiuse il libro con un tonfo per lo spavento; sbatté ripetutamente le palpebre, notando che il suo compagno di stanza aveva spalancato la porta in fretta e furia, aveva fatto notare la propria presenza con la sua squillante voce, e aveva richiuso la porta dietro di sé prima di precipitarsi verso il proprio letto.
Il biondo sbuffò rumorosamente con il naso e abbassò le iridi verso il libro, accorgendosi solo in quel momento di aver perso il segno e che, molto probabilmente, non avrebbe mai scoperto come sarebbe proseguita la poesia.
Era davvero un bene leggere pagine a caso?
«Mi hai sentito?», Roxas alzò per la seconda volta lo sguardo, rilevando un Axel lo stava fissando con le mani sui fianchi.
«Sì, ti ho sentito, hai detto ''cazzo''. Vuoi un applauso?»
«Spiritoso.», commentò con affilata ironia l'altro, roteando lo sguardo da una parte all'altra della stanza. «Senti coso, è vero che oggi c'è l'incontro con i parenti o qualche stronzata del genere?»
Roxas fece una fatica immensa per cercare di trattenere un sorriso soddisfatto; a quanto pare Axel Koskinen, lo stesso bastardo che gli aveva rotto un capillare del naso, gli stava chiedendo informazioni come una povera matricola.
«Coso lo vai a dire a qualcun altro.», si limitò a farfugliare il biondo, voltandosi verso il comodino per rimettere a posto il libro e, soprattutto, per nascondere la propria espressione appagata.
«Stronzo va bene?»
Roxas non disse nulla, e allora l'uomo sospirò rumorosamente, lasciando andare le braccia lungo i fianchi. «Hagen, cazzo, Hagen. Adesso mi vuoi rispondere o no?»
L'altro si scrollò le spalle e tornò a guardare il fulvo. Non amava particolarmente farsi chiamare per cognome, ma a quanto pare era una fissa di quelli del terzo piano; fissa che sembravano aver trasmesso anche a quello schizzato del suo compagno di stanza.
«Perché lo vieni a chiedere proprio a me?»
«Perché me l'ha detto Marluxia e non ho capito se mi stava prendendo per il culo. E' vero o no?»
«Non hai letto l'allegro volantino della clinica prima di entrare qui?», fece con tono canzonatorio il diciottenne, non volendo perdersi quel momento per alcuna ragione al mondo; Axel, dal canto suo, non parve divertirsi allo stesso modo, poiché ringhiò qualche insulto a denti stretti, irritato dal fatto che l'altro non cennava a dargli una risposta precisa.
«Vaffanculo. C'è o no questa merda di incontro?»
«Perché non lo chiedi alle infermiere?»
«Ma mi hai preso per una matricola del cazzo?!»
«Beh, è l'impressione che mi stai dando.», rispose con un finto sorriso innocente il giovane dalle iridi blu, inclinando appena la testa su un lato con aria sempre più soddisfatta. «Vediamo... Mi hai tirato un pugno sul naso, mi hai preso per il culo davanti a tutta la mensa, mi hai chiuso fuori dalla stanza, hai rubato una delle due sigarette che era riuscito a prendere Hayner... Uh, guarda un po', mi è passata la voglia di risponderti. Curioso, non trovi?»
Axel si morse furiosamente le labbra, in preda all'ira; strinse con forza i pugni, gli stessi pugni che avrebbe voluto far incontrare con il volto del biondo. Dopodiché, probabilmente ricordandosi il discorso riguardo alla storia di subire una punizione particolarmente severa e di diventare lo zimbello della clinica, si sforzò di calmarsi; socchiuse appena gli occhi e si lasciò sfuggire un sospiro. «Va bene piccolo figlio di puttana, andrò a chiederlo a qualcun altro. Sappi solo che questa me la paghi.»
«Bla, bla, bla, parole al vento.»
«A proposito, carino lo schizzo di gridare in piena notte come una femminuccia, Hagen. Però non sarebbe un dettaglio simpatico da far conoscere a Marluxia e agli altri, non trovi?», lo imitò il fulvo, avviandosi verso la porta per poi appoggiare la mano sulla maniglia con un sorriso soddisfatto.
Lo stesso sorriso che in quel momento scomparve dal volto del biondo, lasciando posto ad una smorfia irritata. «Che pezzo di...»
«Ah-ah-ah.», lo ammonì Axel, tamburellando le dita sulla porta. «Non essere maleducato.»
Roxas lo guardò in cagnesco e soffocò l'insulto in gola.
Bene, il suo momento di gloria era durato ben poco e non gli andava proprio di fare un'altra figuraccia davanti a quelli svitati del terzo piano per la storia di aver gridato nel bel mezzo della notte a causa di un incubo.
«Sì», sputò infine Roxas con rabbia, non trovando altra via di fuga. «Sì, oggi è il giorno dell'incontro con i parenti, come tutti i cazzo di Venerdì. Sei contento adesso?!»
«Abbastanza.», rispose l'altro con fare pensieroso. «E senti, bisogna per forza andarci?»
«No, se non ti va puoi anche evitare.», spiegò il biondo, scrollandosi le spalle. «però saranno punti a sfavore per la tua cartella clinica.»
Axel ascoltò attentamente il ragazzo e annuì, aprendo la porta. «Punti a mio sfavore in che senso?»
«Nel senso che farai la figura dell'asociale di merda incazzato con il mondo intero. Anche se poi non te ne dovrebbe importare tanto, visto che l'hai già fatta», mormorò Roxas, indicando il proprio naso e facendo riferimento al loro incontro piuttosto ''energetico''. «Insomma, fai cosa ti pare.»
Axel si lasciò sfuggire un ghigno divertito al ricordo del proprio pugno e sorrise prima di riprendere la parola. «Quindi dovrei fingere di essere carino, simpatico, gentile e disponibile con il prossimo, giusto?»
«Non ci riusciresti neanche per mezza giornata, non ti preoccupare.», e, dopo aver detto ciò, Roxas tornò a guardare l'uomo dai folti capelli rossi, aspettandosi un suo insulto o qualcosa del genere; al contrario, il diretto interessato scoppiò a ridere, particolarmente divertito dalla sua osservazione. «Hai ragione.», disse poi, chiudendo la porta dietro di sé e svanendo quindi nel corridoio.
E Roxas rimase lì, a bocca aperta.
Forse più che un'alcolizzato si era ritrovato in stanza con un bipolare.






«Adesso rilassatevi. Liberate la mente, svuotatela completamente da tutti i pensieri e concentratevi soltanto sui suoni della natura.»
Un tuono rimbombò in lontananza e, dopo qualche secondo, Marluxia Horn fece sentire la propria voce in mezzo al silenzio: «Questa volta non era il mio stomaco.»
I presenti scoppiarono a ridere, ad eccezione di Roxas che sbuffò rumorosamente con il naso, irritato dalla battutina di quel dannato maniaco dai capelli rosa.
«Vi prego, mantenete la concentrazione. Chiudete lentamente gli occhi e lasciatevi andare.», tentò di farsi sentire la signora Dahl, seduta a gambe incrociate di fronte al gruppetto dei dodici presenti.
«Demyx, devi chiudere entrambi gli occhi». Questo fu l'ultimo rimprovero che il biondo udì, poiché, dopo ciò, poté finalmente godersi quei cinque minuti di pace.
Molti consideravano un'immensa fortuna avere il corso di yoga come attività precedente all'incontro con i parenti. Insomma, per quanto Roxas la considerasse stupida, come tuti i corsi d'altronde, doveva ammetterlo, in fondo rilassava per davvero.
Soltanto durante gli ultimi cinque minuti, ovvio, dal momento che il resto dell'ora la passavano a fare esercizi e contorsioni che gli facevano venire solamente dei dolori insopportabili alla schiena. Fortunatamente la signora Dahl era sempre troppo impegnata a spiegare come assumere la posizione corretta e dunque non si accorgeva mai che in realtà metà dei presenti stava solo fingendo di provarci.
Probabilmente se Roxas avesse avuto ancora qualcuno ad aspettarlo avrebbe trovato grande consolazione in quei cinque minuti di pace totale. Tutta la sua ansia per l'incontro sarebbe svanita, almeno per un po', o comunque sarebbe notevolmente diminuita.
Ma tanto a lui poco importava. Non provava alcuna sorta di ansia, poiché non c'era nessun volto che apparteneva alla sua vita passata, durante il Venerdì pomeriggio.
Si lasciò sfuggire un sospiro e decise di spostare i propri pensieri altrove.
Ad Hayner era toccato il corso di pittura come attività precedente all'incontro con i parenti. Gli aveva raccontato numerose volte che passava praticamente l'ora ad infastidire Riku Koch, principalmente perché amava vedere un ragazzo così calmo e pacato perdere le staffe a causa sua.
L'aria fresca di Ottobre gli schiaffeggiò le gote e Roxas si strinse un poco le spalle, cercando comunque di muoversi il meno possibile in mezzo al prato.
Hayner gli aveva detto che quel Venerdì avrebbe tentato di rovesciare accidentalmente un po' di pittura sui capelli argentati di Riku; tanto non avrebbe potuto fargli nulla, poiché aveva ancora la gamba ingessata.
Roxas sorrise con aria divertita: probabilmente quando tutta la clinica avrebbe speso l'ora buca che precedeva l'incontro a prepararsi e a sistemarsi accuratamente, il suo migliore amico avrebbe avuto uno dei suoi soliti colloqui con Xemnas.
Una volta gli aveva raccontato di essersi addormentato nel bel mezzo della lezione di pittura; non aveva dormito affatto quella notte, lo ricordava bene, dato che erano rimasti a chiacchierare insieme fino al suono della sveglia. Così, prima aveva ciondolato la testa per un po', poi aveva definitivamente appoggiato la guancia sul proprio foglio ancora bianco ed era caduto tra le braccia di Morfeo.
Dopo aver speso ben venti minuti a russare, facendo sghignazzare ripetutamente il resto dei pazienti, si era svegliato di scatto con un sussulto e si era allontanato dal proprio foglio, notando che era rimasta una chiazza della sua saliva.
Si era asciugato le labbra e si era stiracchiato con tutta la tranquillità del mondo, emettendo anche versi poco eleganti; successivamente aveva alzato le iridi e si era accorto della minacciosa figura del signor Berg, il quale aveva ormai il volto paonazzo dalla rabbia.
E Roxas aveva poi compreso che era proprio per sfuggire dalla sua furia omicidia che quel Venerdì, una volta riaperto le palpebre alla fine della lezione di yoga, si era ritrovato il proprio migliore amico sdraiato accanto a sé con un sorriso sghembo dipinto sul volto. «Ci si rivede, eh?»
«Ma che cazzo ci fai qui?», gli aveva domandato istintivamente il biondo e, prima che l'altro avesse potuto rispondergli in qualsiasi modo, la signora Dahl si era intromessa, alzandosi: «Wiedenkeller, non mi ricordavo della tua presenza...»
«Eh, beh, deve sapere, signora Dahl», si era affrettato a ribattere il diretto interessato, mettendosi a sedere sull'erba con un finto sorriso innocente. «che non mi basta un'ora alla settimana di yoga, così ho deciso di rimediare!»
L'insegnante allora aveva sospirato pesantemente e aveva deciso di lasciare perdere, fino a quando l'attenzione dei presenti si era concentrata sulla minuta figura del signor Berg, il quale si stava precipitando verso di loro con il fumo dalle orecchie. «Wiedenkeller, vieni immediatamente qui!»
«Cazzo, ma non molla mai?», aveva chiesto tra sé e sé il ragazzo dagli occhi marroni, alzandosi con un balzo prima di fare un cenno con la mano al proprio migliore amico, ancora confuso dalla situazione. «Ci vediamo dopo, se non mi sbattono in presidenza.», e, dopodiché, aveva iniziato a correre verso la parte opposta del cortile, seguito a ruota dal signor Berg.
Roxas soffocò a fatica una risata e voltò un poco la nuca.
Adorava rimanere sdraiato sull'erba in quei cinque minuti. Trecento di secondi di silenzio. Trecento secondi da spendere in solitudine con la propria mente.
Già, con la propria mente. E ciò simboleggiava il fatto che non riusciva proprio a seguire l'indicazione della signora Dahl: ''non pensare a nulla.''
Come poteva svuotarsi del tutto?
Gli pareva impossibile, anche se solo per trecento secondi.
Non poteva spegnere il proprio cervello. Non ci riusciva nemmeno quando si addormentava, poiché i suoi sogni venivano costantemente popolati da incubi o vecchi ricordi pescati dalla sua vita passata.
Si domandò se anche gli altri provavano le sue medesime sensazioni, o se, al contrario, fossero in grado di staccare per un po' la spina del proprio cervello.
Ma come potevano?
Come potevano dimenticare i propri problemi, il proprio passato? Come potevano dimenticare i propri familiari, i loro volti delusi, i loro sguardi pieni di angoscia? Come potevano dimenticare di trovarsi in una dannatissima clinica di recupero?
Come potevano dimenticare di essere pazzi?
«Perfetto, siete stati molto bravi. Adesso potete alzarvi». Le parole della signora Dahl fecero riaprire le palpebre a Roxas che si mise lentamente a sedere prima di lanciare una fugace occhiata agli altri presenti.
Marluxia era già in piedi, probabilmente perché si era preso la briga di interrompere la propria lezione prima del permesso della signora Dahl, e stava dicendo qualcosa di particolarmente divertente a Demyx, dal momento che quest'ultimo aveva le lacrime agli occhi dal ridere.
Roxas fece per alzarsi, quando si accorse di avere le gambe assai pesanti; un brivido gli percorse la schiena e appoggiò le mani sull'erba, cercando in ogni maniera di issarsi con tutta la propria forza.
Non poteva mostrarsi debole. Non lì, davanti a tutti. Non lì, di fronte alla signora Dahl, colei che poi sarebbe andata a rivelare tutto alle infermiere.
Un controllo al peso.
''Troppo magro, dobbiamo controllarlo più spesso. Deve mangiare di più!''
Roxas riuscì finalmente ad alzarsi e, una volta in piedi, avvertì un'acuto dolore alle gambe, ma si sforzò di ignorarlo e si affrettò a raggiungere l'interno dell'edificio.






Aveva speso più di mezz'ora a vagare come un fantasma tra i corridoi deserti della clinica.
Infatti, mentre la maggior parte dei pazienti era impegnata a ''prepararsi'' (Sia fisicamente che psicologicamente) per il famigerato incontro, lui aveva cercato Hayner praticamente ovunque.
Aveva bussato alla sua stanza ripetutamente, senza però ottenere alcuna risposta; era perfino entrato nella sala mensa sparecchiata, pensando forse di trovarlo a progettare nuovi scherzi, ma nulla.
Aveva incrociato Olette al secondo piano e le aveva domandato se lo avesse visto, ma lei aveva scosso la testa e lo aveva aiutato a cercarlo per un po' prima di ritornare nella propria camera a cambiarsi.
Addirittura Roxas aveva cercato di aprire la stanza degli specchi, temendo che si fosse recato lì per chissà qualche assurdo motivo, ma, poiché si era ritrovato di fronte alla porta chiusa a chiave, come al solito, aveva lasciato perdere ed era tornato al piano terra.
Forse aveva davvero lanciato della vernice sui capelli di Riku, ottenendo come immediata conseguenza la solita passeggiatina in presidenza.
A quell'ipotesi Roxas sospirò rumorosamente e scosse la testa tra sé e sé. Il suo migliore amico non sarebbe cambiato mai e poi mai.
Se prima tutti sembravano essersi rintanati nelle proprie stanze, i corridoi ora stavano ricominciando ad affollarsi; le infermiere continuavano a camminare avanti e indietro, intervenendo in caso di eventuali ''attacchi di follia'' di qualche paziente alla vista dei propri familiari, e le prime automobili stavano facendo capolinea nel cortile, parcheggiando la vettura per poi di scendere con i soliti volti spaesati e smarriti in quel luogo così assurdo.
In quella gabbia di matti.
«Cosa?!»

Roxas si voltò alla propria sinistra e notò la presenza di un ragazzo poco più alto di lui. Se non ricordava male, lo aveva visto da qualche parte in mensa, ma non gli pareva che avessero in comune qualche corso.
Capelli ricci colorati di un arancione scuro, qualche lentiggine sul naso e un paio di occhi grigi: Alexander Oddlink stava guardando con aria sconvolta un'infermiera accanto a lui, la quale, in tutta risposta, aveva assunto un'espressione amareggiata.
«Mi spiace molto, hanno appena chiamato e ci hanno comunicato che non potranno venire. E' successo tutto all'ultimo minuto e-»
«Me l'avevano promesso!», la interruppe bruscamente il giovane, come se la sua frase avesse potuto cambiare la situazione.
«Mi hanno però detto che il prossimo Venerdì faranno di tutto per essere presenti.», si affrettò ad aggiungere la donna, stringendo una manciata di fogli al petto; Alexander rimase per un paio di secondi immobile con lo sguardo rivolto verso il vuoto.
L'infermiera allora allungò la mano per poterla appoggiare sulla spalla dell'altro, probabilmente per domandargli se stava bene o qualcosa del genere, quando il ragazzo si era voltato di scatto e si era allontanato velocemente verso la rampa di scale.
Roxas lo guardò salire i gradini prima di spostare gli occhi altrove, non volendo apparire in alcun modo come un ficcanaso; tornò a concentrarsi mentalmente su dove potesse essersi cacciato il suo migliore amico e si accorse di non aver ancora controllato in cortile.
Decise dunque di raggiungere le porte già aperte e di abbandonare per un po' la puzza di disinfettante e di medicinali che galleggiava costantemente in quel dannatissimo edificio.
Si domandò se, dopo aver passato ben un anno e mezzo lì dentro, avrebbe continuato ad avere quell'odore anche una volta uscito da quel postaccio.
Sì, se mai sarebbe stato dimesso, ovvio.
Il cielo era particolarmente nuvoloso e si udiva talvolta qualche tuono in lontananza, nonostante non fosse ancora scesa una goccia. Non era esattamente sicuro di essere un'amante della pioggia o meno. Forse era lo stesso rapporto che aveva con i giorni della settimana: non gli facevano alcuna differenza, ecco tutto.
«Sono qui!»
Roxas si voltò istintivamente, proprio come aveva fatto poco prima, e notò che la voce proveniva da un uomo calvo sulla cinquantina; stava sventolando la mano e, non appena si accorse che la diretta interessata lo aveva visto, sorrise.
Infatti dopo una manciata di secondi una ragazza corvina corse e superò la figura di Roxas alla velocità della luce prima di fiondarsi tra le braccia di quello che, molto probabilmente, era suo padre.
Doveva certamente essere un'altra persona fortunata come Olette in ambito familiare, pensò tra sé e sé il biondo mentre si allontanava velocemente dal centro del cortile, evidentemente a disagio.
Tutto ciò che desiderava era trovare Hayner senza fare la figura del cretino che cercava inutilmente i propri genitori che non avrebbero mai varcato quel cancello arrugginito.
Si infilò le mani nelle tasche della propria felpa e si affrettò a raggiungere la piccola altura dall'altra parte del cortile; incontrò alcuni volti familiari seduti ai tavoli o alle panchine accanto all'edificio, ma poco vi badò e, anzi, cercò di accelerare il proprio passo.
Anche perché spesso i pazienti, soprattutto quelli del terzo piano, sapevano essere dei gran bastardati, dal momento che non si faceva scrupoli ad uscirsene con domande tipo: «Quando arriveranno i tuoi genitori? Non li ho ancora visti!»
«Credi che i tuoi siano rimasti imbottigliati nel traffico o qualcosa del genere?»
«E i tuoi familiari non sono venuti? Perché? Non avevano voglia di rivederti o cosa?»
Prese posto tra alcuni massi in mezzo all'erba e si strinse le ginocchia al petto prima di scrutare attentamente il cortile sotto di sé.
Almeno da lì avrebbe potuto cercare Hayner con lo sguardo senza rischiare di fare la figura dell'idiota e, soprattutto, senza rischiare di ricevere qualche domanda indiscreta da parte di pazienti particolarmente sadici.
Lui, proprio come Hayner, non ricordava esattamente come tutto fosse successo.
Era passato un po' di tempo da quell'episodio, e, nonostante ogni giorno gli portasse via una parte di sé, non pensava che sarebbe stata una molla che lo avrebbe portato all'autodistruzione. Sperava di morire prima. Sperava che quel ricordo gli strappasse via tutte le viscere e che lo svuotasse completamente.
Sarebbe stato molto meno doloroso che conoscere quell'amica.
A scuola non era affatto facile, tra compiti in classe e interrogazioni; inoltre i suoi lo avevano iscritto a nuoto e a tennis, cercando di riempire il più possibile il suo tempo per distrarlo in ogni modo.
L'idea inizialmente non sembrava male; il suo tempo libero si era azzerato proprio del tutto. Si svegliava, andava a scuola, faceva i compiti e si recava o al campo o in piscina.
Il problema era che anche in quei momenti i ricordi continuavano a torturarlo in ogni maniera possibile. Sia durante i compiti in classe, sia prima di andare a dormire, sia durante le partite di tennis.
Sì, ovvio, materialmente non aveva più tempo libero, tanto che non riusciva neanche a ritagliarsi trenta minuti per i pasti.
Roxas abbandonò improvvisamente il cimitero dei propri ricordi, poiché la sua attenzione si focalizzò su una figura a lui familiare al centro del campo, occupata in un'accesa discussione con altri due adulti.
Precisamente il suo compagno di stanza.
Ovviamente Roxas era troppo lontano per sentire ciò che stava dicendo e l'unica ragione per cui era riuscito a riconoscerlo era per quei suoi capelli rossi che sfidavano qualsiasi forza di gravità. Lo vide comunque gesticolare animatamente e camminare avanti e indietro con fare piuttosto irritato. Probabilmente si stava lamentando con gli altri due su quanto detestasse quello schifosissimo posto di merda o qualcosa del genere.
Roxas ridusse gli occhi a due fessure e porse un poco la testa in avanti, cercando in qualche modo di distinguere gli altri due individui; gli parve di vedere un uomo e... Sì, una donna. Un uomo e una donna. Uno accanto all'altro. Perfettamente immobili, intenti a guardare la figura nervosa di Axel.
Che fossero davvero i suoi genitori?
Strano, pensò Roxas, se li era immaginati entrambi con i capelli sparati in aria proprio come il figlio.
Certo, comportarsi in quella maniera non lo avrebbe affatto aiutato, ma almeno non aveva fatto la figura dell'asociale incazzato con il mondo intero.
Scosse la testa e sospirò pesantemente: ma in fondo che diavolo gli importava? Assolutamente nulla. Voleva solo stare lontano dagli altri e magari sperare di vedere Hayner apparire magicamente dal nulla.
Beh, era molto improbabile che il suo secondo desiderio si realizzasse, ma almeno se ne stava in santa pace.
O meglio, lo era fino a quel momento.
Quei pochi secondi di distrazione nei quali il biondo aveva alzato lo sguardo verso il cielo grigio, gli bastarono a sconvolgerlo; infatti, non appena abbassò nuovamente lo sguardo di fronte a sé, si accorse che i genitori di Axel erano rimasti soli.
Roxas spostò ripetutamente lo sguardo da una parte all'ambiente sottostante, e, non appena ipotizzò che il suo compagno di stanza fosse rientrato nella clinica, si accorse che, al contrario, si era allontanato dal cortile per risalire la piccola altura su cui si trovava.
Sì, insomma, stava camminando proprio verso di lui.
Addio pace.
Pensò che magari l'altro non lo avesse visto, poiché sembrava assai pensieroso -O forse nervoso, non lo sapeva con esattezza-, con le iridi rivolte verso il basso e le mani infilate nelle tasche dei jeans.

Per un attimo prese in considerazione l'idea di alzarsi e di andarsene, ma si sarebbe sentito in qualche modo umiliato.
Insomma, gli aveva già praticamente rubato metà dello spazio della camera; non gli avrebbe di certo permesso di fregargli anche il suo posto personale in cui pensare in santa pace.
Axel era ormai a pochi metri da lui, quando alzò lentamente la testa e sollevò istintivamente il soppraciglio sinistro prima di sputare sfacciatamente un: «Non ci credo, anche qui?»
A quel piacevole saluto Roxas gli lanciò un'occhiataccia prima di tornare ad osservare il cortile sottostante. «Non so se te ne sei accorto Einstein, ma io sono qui da un bel po', quindi è inutile che fai quella faccia.»
«Io però ho deciso di venire qui, quindi?»
«Quindi niente, ti puoi scordare che io mi sposti. Vattene ad ascoltare quella dannatissima canzone.», lo incitò scorbuticamente il biondo, mantenendo nel frattempo lo sguardo fisso verso le numerose figure in movimento nel cortile; gli parve di vedere Olette, ma prima che potesse accertarsene, la sua attenzione si spostò sull'altro, dal momento che aveva preso anch'egli posto su una roccia non molto distante da lui. «Io invece voglio stare qui. Mi sono fatto tutto il culo per salire fin quassù, figurati se ho ancora voglia di ritornare nella mia stanza.»
«Sì, che poi in realtà sarebbe la mia stanza.», precisò il ragazzo con aria irritata.
«Non lo è più da un bel po'.»
«Che schifo condividere le cose.»
«Non dirlo a me». A quella frase Roxas alzò leggermente un soppraciglio e inclinò la testa su un lato prima di ridurre gli occhi a due fessure. «Cioè, adesso mi vuoi far credere che la vittima saresti tu?»
«Non sono io quello che tiene il bagno occupato soltanto perché si vuole cambiare lì. Sto pensando seriamente che tu in realtà sia una ragazza e che lo voglia nascondere, o qualcosa del genere. Sai, una cosa tipo Mulan.»
«Ma vaffanculo.», sputò senza tante cerimonie il diciottenne, spostando per l'ennesima volta lo sguardo altrove. «Non sono io quello che ha dei capelli improponibili. E due tatuaggi molto discutibili.»
E se Roxas aveva le iridi puntate verso la propria sinistra, Axel invece voltò istintivamente la testa verso di lui, guardandolo in cagnesco. «Che cazzo intendi dire?»
«Che non puoi fare la predica a nessun uomo sul sembrare una ragazza o meno.»
«Si chiama stile, ficcatelo in quella testa vuota, anche se è una cosa che evidentemente ti manca.»
«Ma per piacere», borbottò Roxas, scrollandosi le spalle prima di cambiare improvvisamente argomento. «E poi non sono io quello che passa metà giornata ad ascoltare quella dannatissima canzone. Dio, mi hai fuso praticamente il cervello. E ti ho mai detto che russi da far schifo? Ah, e inoltr-», il ragazzo però interruppe improvvisamente le proprie lamentele non appena si accorse della presenza di alcune gocce scarlatte sotto il naso. «Merda, di nuovo.», mormorò tra sé e sé prima di iniziare a frugare tra le proprie tasche, senza riuscire però a trovare alcun fazzoletto.
Si sentì uno stupido, dal momento che avrebbe dovuto portarsene sempre uno dietro per evitare di imbrattarsi ogni volta i palmi.
«Hai il nasino delicato, eh», lo prese allegramente in giro con un sorriso sghembo il fulvo, divertito dal fatto che l'altro continuasse a cercare disperatamente qualcosa con cui asciugarsi le narici scarlatte.
«'Fanculo, non è il mio naso il problema. Era il tuo pugno che...», poi però Roxas si morse la lingua e lasciò la propria frase sospesa a metà.
«Che cosa?»
«Niente.»
Axel allora non poté fare a meno di mettere in mostra un ghigno divertito prima di infilarsi una mano nella tasca sinistra, tirando poi fuori un pezzo di stoffa blu. «Era il mio pugno che era troppo forte, mh?»
«Figurati.», si affrettò a ribattere il biondo, continuando a sfregarsi il dorso della mano sul naso.
«Allora il tuo naso è delicato. Scegli tu; nasino delicato o pugno troppo forte? Preferisci fare la figura della checca o darmi la soddisfazione di sentirmi dire che ti ho fatto male?», continuò a schernirlo il rosso, sentendosi particolarmente geniale ad averlo messo in un vicolo cieco.
«Sei uno stronzo, ecco qual è il punto.»
Axel scoppiò a ridere e scosse la folta chioma rossa prima di allungare il braccio verso l'altro presente; Roxas dopo un paio di secondi si voltò, notando che stava reggendo in mano un pezzo di stoffa. «Quella roba non ce l'ha più neanche mia nonna.»
«Ah, allora continua pure ad usare le mani.», Axel fece per ritirare il braccio, quando Roxas scosse la testa e si affrettò ad afferrare l'oggetto per portarselo alle narici. «Grazie.», farfugliò poi a fior di labbra, facendosi a malapena sentire dall'altro.
L'uomo lo osservò per una manciata di secondi prima di riprendere la parola: «Devi stringere forte.»
Il biondo sussultò appena e, dopo aver capito che si stava riferendo alle proprie narici, incastrò la testa tra le spalle. «Lo so, ogni infermiera me lo ha ripetuto una decina di volte.»
Axel allora si limitò a fare un cenno positivo con la testa per poi spostare finalmente lo sguardo verso il cortile; il ragazzo dalle iridi blu, nel frattempo, allontanò leggermente il pezzo di stoffa e notò la macchia scura sembrava essere in contrasto con il blu circostante.
«E' così brutto fare la figura dell'asociale incazzato con il mondo?». Roxas si voltò per l'ennesima volta verso il suo compagno di stanza e inclinò appena la testa su un lato. «Sono solo punti a tuo sfavore, te l'ho detto.»
«Quindi quegli stronzi segnano tutto quello che faccio?»
«Più o meno. L'incontro con i parenti è importante però, per questo durante il Venerdì pomeriggio vengono aggiornate le cartelle di tutti i pazienti.»
«Che palle.», commentò con fare nervoso il rosso, mantenendo le iridi smeraldine puntate di fronte a sé. «Io non voglio più rivederli.»
«Chi?», chiese istintivamente Roxas, anche se forse in parte aveva capito di chi stava parlando Axel.
«I miei genitori.»
A quella risposta il ragazzo si sentì stranamente a disagio; non sapeva proprio in che maniera rispondere. Di certo non si sarebbe messo a parlare della propria situazione o qualcosa del genere, né gli andava di porre altre domande. Però al tempo stesso quel silenzio lo turbava un po', non sapeva esattamente il perché.
Decisa dunque di dire una cosa qualsiasi, che però aveva a che fare con l'argomento. «Ci sono pazienti che si sono lamentati del fatto che è un'ingiustizia che ci sia solo il Venerdì pomeriggio per incontrare i propri parenti.»
Axel si lasciò sfuggire una mezza risata con il naso. «Ci mancherebbe solo questa. Quelli che dicono così sono persone che hanno un buon rapporto con i propri genitori.»
«Sicuramente.», mormorò Roxas, allontanando nuovamente il pezzo di stoffa dalle narici; sbatté ripetutamente le palpebre e infilò l'oggetto in tasca, accorgendosi che, fortunatamente, il suo naso sembrava avergli dato un attimo di tregua. «Ci sono cliniche dove ogni giorno c'è un preciso orario dedicato alle visite. Almeno ti hanno portato in un posto dove le cose non funzionano così.»
A quelle parole Axel si voltò di scatto verso l'altro presente con un'espressione indecifrabile dipinta sul volto. «Cosa?»
Il ragazzo dunque aggrottò le soppraciglia, perplesso. «Ho detto che ci sono cliniche dove ogni gior-»
«No, non dicevo quello.»
«E allora che c'è?»
«Cos'hai detto dopo?»
Il diciottenne sembrò rifletterci su per un po' prima di riprendere la parola. «Ah, sì, ho detto che almeno ti hanno portato in un posto dove non ci sono visite ogni giorno.»
«Mi hanno portato chi?», domandò bruscamente il rosso, senza smettere di fissare l'altro che si sentiva sempre più a disagio dall'aria pesante che si era venuta a creare.
«Ma che cosa vuoi che ne sappia.», borbottò poi in risposta, spostando lo sguardo altrove. «I tuoi genitori forse, boh, non lo so.»
«E invece no.», replicò apaticamente l'uomo, aspettando di ottenere nuovamente l'attenzione del biondo per proseguire. «Qui non mi ha portato nessuno.»
Roxas sbatté le palpebre, senza capire. Fu sul punto di farglielo notare, o magari di scuotere la testa e di realizzare mentalmente che quel tipo aveva il cervello andato, quando ciò che udì dopo lo lasciò completamente spiazzato: «Ci sono venuto da solo, di mia volontà.», e, dopo aver rivelato ciò, Axel si alzò e iniziò a scendere dall'altura, stando attento a non inciampare tra le numerose rocce.






Era rimasto fuori praticamente fino alle diciotto e trenta; oltre quell'orario ogni paziente doveva trovarsi all'interno della clinica, altrimenti avrebbe subito qualche tremenda punizione.
Roxas salì la solita rampa di scale e si ritrovò nel bel mezzo del corridoio; iniziò ad incamminarsi verso la propria camera, domandandosi se Axel fosse all'interno di essa o meno, quando si bloccò di fronte alla porta semiaperta della stanza del suo migliore amico.
Sbatté ripetutamente le palpebre, perplesso; che Axel fosse nuovamente entrato nella sua stanza? O semplicemente Hayner si era dimenticato di chiudere la porta?
Decise allora di bussare due volte per accertarsi che non ci fosse nessuno. Ci fu un breve silenzio e, proprio mentre il biondo stava per entrare, udì la voce un po' soffocata del proprio migliore amico: «Roxas, sei tu?»
Il diretto interessato sussultò un poco. «Sì, sono io. E' tutto okay?»
Nessuna risposta.
Roxas si morse il labbro nervosamente, sentendosi invaso da un brutto presagio. «Hayner?»
«Vieni». A quel mormorio quasi incomprensibile Roxas spinse la porta ed entrò finalmente nella stanza che gli parve più disordinata che mai; alcune magliette erano sparse sul pavimento, tenendo compagnia alla coperta e al cuscino. Il secondo cassetto del comodino accanto al letto era aperto, mettendo in mostra così un paio di barrette di cioccolato.
Roxas richiuse la porta dietro di sé, domandandosi se davvero qualcuno fosse entrato prima a rovistare tra la roba del suo migliore amico. Dopodiché focalizzò la propria attenzione sulla figura di Hayner, il quale era seduto sul materasso con aria persa.
Roxas lo squadrò da capo a piedi e, non appena si fermò sul suo volto, sgranò le iridi blu, sconvolto dal notare le gote arrossate a causa di un evidente pianto.
«Hayner, cosa... Cos'è successo?», si sforzò di domandare dopo lo shock iniziale, deglutendo rumorosamente.
Aveva visto Hayner piangere un paio di volte, eppure si sentì comunque a disagio. Non sapeva proprio come comportarsi di fronte ad una persona in lacrime. Forse era un po' la medesima sensazione che provavano i parenti durante il Venerdì pomeriggio davanti a tutti quei pazienti; le domande che parevano sempre errate, pesanti, inappropriate in qualche modo.
Dopo una manciata di secondi di silenzio, Hayner si decise finalmente ad alzare lo sguardo verso l'altro presente, facendolo rabbrividire un poco; si asciugò gli occhi bagnati e tirò su con il naso prima di iniziare finalmente a parlare. «Te l'avevo detto che oggi sarebbe venuto.»
A quelle parole Roxas spalancò nuovamente le iridi. Proprio come aveva immaginato, il motivo delle lacrime dell'amico era suo padre. Già, il medesimo motivo per cui lo aveva visto piangere le altre volte.
Sempre la stessa ragione.
«Allora ci hai... Sì, insomma, ci hai parlato?», tentò poi di chiedere il biondo, mordendosi leggermente il labbro inferiore.
Hayner allora serrò di scatto i pugni e si lasciò sfuggire un grugnito a denti stretti. «Ho detto una stronzata in mensa.»
Roxas corrugò la fronte, non riuscendo a capire perché l'altro stesse saltando di palo in frasca. «Ma di che stai parlando?»
«Quando ti ho detto che almeno io ho qualcuno che viene a trovarmi. Era una stronzata, una stronzata enorme.»
«Non riesco a seguirti.»
«Quello stronzo, cazzo!», tuonò improvvisamente il giovane dagli occhi marroni, alzandosi di scatto dal letto prima di dirigersi verso la finestra, dando le spalle all'amico. «Lo sai che ha fatto quello stronzo? E' venuto. Lui c'era, cazzo, era qui. Roxas, ho fatto lo scherzo di merda a Riku. Gli ho lanciato la vernice sui capelli. Dovevi vedere la sua faccia; era da sbellicarsi dalle risate! Però poi il signor Berg mi ha mandato in presidenza. ''Wiedenkeller, fila subito dal preside!'', così mi ha detto, ecco, proprio così. Io ho cercato un po' di scassargli le palle, mi sono lamentato, non ne avevo proprio voglia di alzarmi, ma lui era incazzato nero e allora ho deciso di andare per evitare qualche sua sfuriata». Hayner interruppe il proprio racconto per qualche secondo; strinse i pugni con maggiore forza e guardò ciò che rifletteva la finestra con rabbia, come se essa c'entrasse in qualche modo con ciò che lo stava turbando.
«Stavo andando da quel rompicoglioni di Xemnas. Sai, mi stavo preparando alla sua solita ramanzina, o magari a qualche punizione del cazzo, ma... Non so, è successo tutto così velocemente... Camminavo lungo il corridoio, quando la porta di Xemnas si è aperta e ho visto mio padre uscire da lì.»
Un'altra pausa.
Roxas continuò a torturarsi il labbro inferiore con i denti, non sapendo se commentare o meno. Hayner nel frattempo prese un respiro profondo e proseguì: «Mi si è fermato il cuore per un secondo, lo sai? Cazzo, ho provato così tante emozioni, tutte... Tutte insieme. Sono rimasto lì, senza fiato, per... Non lo so, forse una decina di secondi. Pensavo che stesse raggiungendo il cortile, per aspettarmi. E invece no, lui se ne stava andando, se ne stava andando su quella merda di macchina da ricconi. L'ho capito dopo». Hayner a quel punto si voltò di scatto verso il compagno, il quale lo stava guardando a sua volta, incitandolo silenziosamente a proseguire.
«Io l'ho chiamato. Ho preso coraggio e l'ho chiamato perché speravo che potessimo fare le scale insieme fino al cortile. Sai, per parlare di più. Per avere un po' più di tempo. Tu non lo sai come mi ha guardato, Roxas. Mi ha guardato come se fossi un insetto da calpestare. Come se fossi feccia, ecco. E poi sai che cosa mi ha detto? Ha detto che si vergogna di me, che non dovrei essere suo figlio. Quel maledetto bastardo di Xemnas gli ha fatto vedere la mia cartella, sai, tutti i casini che ho combinato e le punizioni che ho ricevuto. Mio padre mi ha detto che sono una vergogna e che combino solo casini. Non era venuto nemmeno per salutarmi. Voleva solo fare una cazzo di donazione all'equipe medica, probabilmente per fare la figura dell'uomo altruista». Il ragazzo si portò nuovamente la mano sinistra sugli occhi, accorgendosi che si stavano formando nuovamente le lacrime.
«Sai che cosa gli ho detto, Roxas? Gli ho detto che è uno stronzo di merda. L'ho urlato. L'ho urlato in mezzo al corridoio, davanti alla porta del preside. Non me ne fregava un cazzo, per me poteva esserci tutta la clinica. Anzi, speravo che ci fossero tutti, cazzo. Avrei voluto che  tutti sapessero che mio padre è uno stronzo di merda. Lo odio, Roxas, adesso lo odio a morte e spero di non tornarci mai in quel posto di merda dove vive lui.», e, dopo aver concluso il proprio racconto, il diciottenne prese nuovamente posto sul materasso, continuando a stringere i pugni con forza. «Spero che muoia, quello stronzo. Non voglio più neanche considerarlo mio padre.»
Roxas si lasciò sfuggire un lungo sospiro prima di lanciare una fugace occhiata alla stanza, intuendo che, molto probabilmente, era stato lo stesso Hayner ad aver messo a soqquadro l'intera camera per rabbia.
Si strinse le spalle e si avvicinò al materasso del compagno prima di sedersi accanto a lui. «Adesso sei arrabbiato, è normale dire cose del genere.»
«No Roxas», replicò l'altro, scuotendo la testa. «Dico sul serio, lo odio. Hai capito quello che sto dicendo? Lo odio. Non è vero che c'è qualcuno che mi viene a trovare, non più. E anche se ritornasse, gli sputerei in un occhio. Anzi, spero proprio che torni, così lo potrò mandare a 'fanculo come si deve.»  
Il biondo ritornò a mordicchiarsi nervosamente il labbro inferiore, indeciso su come commentare. Hayner era testardo, perfino troppo, e sapeva che sarebbe stato inutile replicare con frasi del tipo: ''E' pur sempre tuo padre.''
Ma d'altro canto, non voleva che il suo migliore amico facesse il suo stesso errore, ovvero quello di rifiutare la presenza di un familiare per orgoglio o per eccessiva rabbia.
«Non si è comportato da padre modello, è vero, però magari anche lui era arrabbiato. Sai, per tutti i guai che hai combinato...». A quella specie di giustificazione il ragazzo dalle iridi marroni si voltò di scatto verso l'altro, osservandolo intensamente. «Sì, è vero, ho fatto un mucchio di cazzate, e allora? Doveva per forza dirmi che sono una vergogna?!». Hayner alzò nuovamente il tono della propria voce e a Roxas parve che fosse nuovamente sul punto di piangere; il diciottenne dagli occhi marroni però si affretto a portarsi nuovamente una mano sugli occhi prima di accennare un sorriso sghembo al compagno. «Almeno adesso siamo proprio sulla stessa barca, no?»
Roxas non sapeva esattamente se ciò fosse un lato positivo o meno; decise dunque di non rispondere direttamente alla sua affermazione e si limitò ad abbassare un poco lo sguardo, evidentemente a disagio. «Hayner, senti, mi... Mi dispiace per tutto 'sto casino, davvero.»
Il diretto interessato spostò a sua volta gli occhi prima di riprendere a parlare: «Allora secondo te ho fatto bene a dargli dello stronzo?»
A quella domanda Roxas si irrigidì di colpo.
Si accorse di avere i muscoli inspiegabilmente tesi e tornò mentalmente a quel pomeriggio; il pomeriggio dell'ultimo Venerdì del suo primo mese nella clinica.
«Va bene Roxas, ho capito. Se non ci vuoi in mezzo ai coglioni, vedremo di sparire. Buona guarigione.»     
Si era infranto da solo l'unica possibilità di mantenere un minimo di contatto con il mondo reale, quello al di là di quelle dannatissime mura, al di là del cortile, del cancello arrugginito.
E molto probabilmente Hayner aveva appena fatto il suo stesso errore.
Aveva fatto bene? No, ovvio che no. Però, d'altro canto, forse anche lui non si sarebbe comportato diversamente; in fondo suo padre lo aveva sempre ferito nell'orgoglio.
Ma era giusto lasciar posto alla rabbia e all'orgoglio in una situazione del genere? Probabilmente no, poiché si era praticamente rovinato da solo.
Ma se quel pomeriggio, quel dannatissimo Venerdì pomeriggio, avesse saputo che Vanitas non sarebbe più tornato per davvero, avrebbe comunque detto quella frase? Gli avrebbe comunque detto che non aveva bisogno di quelle visite del cazzo?
Era quello il punto.
Se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, avrebbe cercato di cambiare le cose?
«Sai che cosa ti dico? 'Fanculo, 'fanculo tutto e tutti». Il biondo sussultò un poco, accorgendosi che Hayner aveva allungato un braccio per poterlo avvolgere attorno alla sua spalla. «Non ho bisogno di lui. Non ho bisogno di quello stronzo.»
Roxas si lasciò sfuggire un flebile sospiro e tornò ad osservare il pavimento a piastrelle della stanza del suo migliore amico.
''Non ho bisogno di queste visite del cazzo. Mi fanno andare fuori di testa.''






«Hayner, perché. Dimmi solo perché.»
«Oh, ma piantala di rompere, Roxas! Sarà divertente!»
«Divertente un cazzo.»
Il giorno successivo, durante la pausa che precedeva le attività pomeridiane, Hayner aveva costretto il suo migliore amico ad uscire dalla sua stanza per accompagnarlo in un luogo ''nuovo''.
«Me ne hanno parlato un sacco e adesso sono fottutamente curioso.», spiegò il giovane dalle iridi marroni, continuando a tenere l'altro per il polso destro, poiché era consapevole del fatto che se avesse lasciato la presa Roxas non si sarebbe fatto scrupoli a fare dietro-front e a scappare nella propria stanza correndo alla velocità della luce.
«A me sembra una pagliacciata. Perché non lasciamo perdere?», brontolò per l'ennesima volta il biondo, cercando di tanto in tanto di fermare i piedi e di opporre resistenza, senza però ottenere alcun risultato concreto, dal momento che l'altro non cennava ad ascoltarlo.
Non appena si trovarono di fronte all'ascensore Hayner premette ripetutamente sul tasto rosso, imprecando sulla sua lentezza a denti stretti prima di degnarsi finalmente di dare una risposta al compagno: «Lasciare perdere? E allora come vorresti passare il tempo? In compagnia di quel simpaticone di Mr. Schizzato? Ormai devi stare il meno possibile nella tua stanza, Roxas.»
Quest'ultimo fece per replicare, quando l'arrivo dell'ascensore lo distrasse; Hayner lo spinse un poco all'interno di esso prima di seguirlo. Le porte a quel punto si chiusero automaticamente e il diciottenne dagli occhi marroni si affrettò a premere il tasto che li avrebbe portati al terzo piano.
«E se per i corridoi incontrassimo qualche idiota tipo Marluxia o Larxene? Perché rischiare?»
Hayner sbuffò rumorosamente per poi scuotere la testa e incrociare le braccia, lanciando un'occhiata all'amico accanto a sé. «Beh, se inizieranno a rompere i coglioni li manderò io a quel paese.»
Roxas si lasciò sfuggire un lungo sospiro esasperato. «Mi chiedo perché continuo a darti corda.»
L'altro scoppiò a ridere e, nello stesso momento in cui l'ascensore si fermò, riprese a parlare: «Altrimenti non saresti il mio migliore amico, no?», e, dopo aver fatto questa osservazione, spinse le due ante dell'ascensore, ritrovandosi così nel corridoio del terzo piano.
Roxas si affiancò all'amico e dunque chiese: «E adesso? Spero che tu ti sia informato su dove sia la sua stanza.»
Il compagno gli lanciò un'altra occhiataccia e storse un poco il naso. «Sì, sì, certo, certo...»
«Hayner?», lo chiamò con tono rimprovero il biondo, sollevando istintivamente un soppraciglio con fare poco convinto.
«Okay, non ho la più pallida idea di dove sia.»
Roxas allora scosse la testa e si lasciò sfuggire un secondo sospiro prima di guardarsi attorno. «Bene, e adesso che cosa hai intenzione di fare?»
«Chiediamo a qualcuno, no?», propose istintivamente Hayner, iniziando a girovagare nei d'intorni. «Bussiamo alla porta di qualcuno e chiediamo dov'è la stanza, dai.»
«Bene», farfugliò Roxas, non del tutto convinto. «ma se ci troviamo di fronte a qualche ritardato sarà solo colpa tua, sappilo.»
Hayner fece un cenno disinteressato con la mano prima di guardarsi attentamente intorno, assumendo un'espressione pensierosa. «Mmmh... Facciamo una conta per decidere quale porta bussare?»
Roxas roteò gli occhi con aria esasperata e fece per rispondere in maniera aspra, quando un improvviso rumore costrinse i due giovani a voltare di scatto la testa alla loro destra; una porta a pochi metri da loro si spalancò, mettendo così in mostra una ragazza dai capelli argentati e gli occhi tinti di un bruno così intenso da sembrare quasi rosso.
Fujin Tikka, meglio conosciuta come ''Fuu'', era un'amica assai fedele a Seifer e, nonostante quest'ultimo fosse cambiato dopo la sua ''visita'' nella stanza degli specchi, lei non aveva smesso di rimanergli accanto. Quasi nessuno conosceva la sua diagnosi, o comunque il suo passato in generale, poiché era una tipa molto taciturna e perfino durante le terapie di gruppo non proferiva parola.
Indossava una leggera giacca blu con la cerniera e dei pantaloni beige chiaro; in quel momento richiuse la parola dietro di sé e fece per prendere la direzione opposta rispetto a dove si trovavano i due giovani, quando Hayner sventolò la mano e cercò di attirare la sua attenzione. «Ehi, tu, aspetta!»
La diretta interessata si voltò di scatto, mantenendo comunque un'espressione impassibile dipinta sul volto; quando Hayner si accorse che lo stava fissando, afferrò nuovamente per un polso l'amico e le si avvicinò, riprendendo la parola. «Sai per caso dov'è la stanza di... Ehm, com'è che si chiama?», domandò improvvisamente il ragazzo, rivolgendosi all'altro che sospirò rumorosamente. «E' inutile che mi guardi così, io non ne ho la più pallida idea.»
«Ehm, ce l'ho sulla punta della lingua... Aspetta, si chiama... Uh, cazzo...», continuò a farfugliare tra sé e sé Hayner, lasciando la presa sul polso di Roxas per grattarsi la nuca. «Me l'aveva detto Demyx, accidenti...»
Fuu sollevò appena un soppraciglio, facendo finalmente sentire la propria voce: «Io non ho tempo da perdere, quindi, se non vi dispiace, adesso me ne va-»
«NAMINE'!», gridò improvvisamente Hayner, facendo sobbalzare gli altri due presenti. «Si chiama Naminè, ecco! Sai dov'è la sua stanza?»
La ragazza sbatté ripetutamente le palpebre, nonostante l'occhio sinistro fosse coperto dal lungo ciuffo di capelli. «Sì.»
Hayner dunque corrugò la fronte, perplesso dalle risposte così brevi dell'altra. «Ehm, allora ci diresti dove cazzo è?»
Fuu indicò la porta dietro di sé, la stessa da cui era appena uscita; i due amici allora scrutarono la camera indicata e assunsero espressioni differenti: chi euforico, chi perplesso e poco convinto.
«Beh, grazie», mormorò successivamente Hayner, mettendo un mostra un sorriso a trentadue denti; la giovane guardò attentamente i due per una manciata di secondi prima di annuire senza un apparentemente motivo. Dopodiché si voltò e si incamminò lungo il corridoio, lasciando Roxas e Hayner finalmente soli.
«A me continua a non sembrare una buona idea.», farfugliò improvvisamente Roxas, interrompendo il breve silenzio.
«Non è mica una novità.»
«Forse dovresti iniziare a farti qualche domanda.», replicò immediatamente il biondo, facendo riferimento alle numerose volte nelle quali erano stati sbattuti in presidenza.
«Non succederà niente 'sta volta, vedrai», cercò di rassicurarlo con aria scocciata il compagno, avvicinando la mano verso la porta. «in fondo non siamo i primi a fare una cosa del genere, anzi, mezza clinica è già stata da questa tipa.»
Il biondo sbuffò. «E va bene...»
Hayner gli rivolse un sorriso soddisfatto prima di bussare alla porta due volte. «E' permesso?»
Roxas allora sentì improvvisamente una strana inquietudine espandersi nel petto; inizialmente si disse che forse era per il fatto che le idee di Hayner non gli erano mai andate a genio, però poi si accorse che no, non era quello il motivo, poiché il suo pareva essere una sorta di presagio profondo.
«Ehiii, Naminè? Possiamo entrare o no?». Hayner bussò altre due volte prima di appoggiare l'orecchio sulla porta, accorgendosi che l'unica cosa che sentiva era il totale silenzio. «Che strano, eppure quella tipa ha detto che la stanza è proprio questa...»
«Forse non vuole più visite», azzardò Roxas, cogliendo al volo l'occasione per convincere nuovamente Hayner a lasciare perdere. «Andiamocene, dai, magari poi si incazza o qualcosa del genere.»
Il compagno lo ignorò e bussò un'altra volta. «Perché non proviamo ad aprire?»
«Ma sei scemo?! Magari si sta cambiando o è sotto la doccia! Guarda che è la sua stanza!»
«E allora? E' lei che ha messo su 'sta storia della strega che prevede il futuro o quel che è. Questo significa che tutti possono avere accesso alla sua camera, a meno che sia chiusa a chiave!», fece notare con fare saccente Hayner, sentendosi particolarmente intelligente. «Quindi, io propongo di entrare.»
«Hayner, se lo fai io me ne vado.»
«Che rompicoglioni. E andiamo, non ti interessa sapere che cosa ha in serbo per te il futuro?», domandò con aria teatrale il giovane dalle iridi castane, rivolgendo gli occhi verso il soffitto.
«Non me ne potrebbe fregare di meno.», affermò schiettamente il biondo e fece seriamente per girare i tacchi, sempre più irritato dalla situazione, quando una voce proveniente dall'interno della porta lo fece irrigidire: «Entrate pure, è aperto.»
Hayner, dopo aver lanciato con lo sguardo un chiaro ''Te l'avevo detto'', girò la maniglia della porta, imbattendosi immediatamente nel bianco.
Certo, in tutte le stanze della clinica Werner il colore predominante era il bianco, eppure quella camera sembrava essere in qualche modo diversa.
Un bianco differente.
Poteva essere il bianco diverso, avere delle altre tonalità? A quanto pare sì.
Non appena i due entrarono nella camera, Roxas sentì quella sorta di inquietudine espandersi maggiormente nel petto; cercò comunque di non lasciare trasparire il proprio disagio e si limitò a richiudere la porta dietro di sé.
«Sono felice che voi siate qui.», i due ragazzi sussultarono prima di focalizzare l'attenzione sulla figura inginocchiata di fronte a loro, la quale però era intenta a disegnare qualcosa di misterioso su un foglio sotto di sé.
«Ehm, non ci voleva qualche appuntamento o roba del genere, vero?», iniziò immediatamente a parlare Hayner, sentendosi leggermente in imbarazzo senza un motivo preciso.
«Oh, no». La giovane alzò finalmente la testa, mettendo così in mostra due grandi occhi azzurri come il cielo più sereno. «Va bene così, davvero.»
Indossava un leggero vestito completamente bianco, e Roxas si domandò come potesse non sentire freddo; i capelli lisci e biondi come il grano le ricadevano dolcemente sulle spalle, fatto eccezione per alcuni ciuffi della frangia che le coprivano parte della fronte.
Trasmetteva tranquillità. Troppa tranquillità.
Troppa tranquillità per essere la paziente di una clinica di recupero.
Così come quel luogo era troppo maledettamente bianco.
«Sedetevi pure». La  ragazza si fece nuovamente sentire e Roxas rabbrividì, pensando tra sé e sé che il suo tono di voce gli ricordava vagamente uno spirito, chissà perché poi.
O forse sì. Insomma, quella stanza lo faceva sentire a disagio, ecco tutto.
Si domandò se anche Hayner provasse la medesima sensazione; voltò appena la testa verso di lui, sperando di poter incrociare il suo sguardo, quando egli fece qualche passo in avanti, avvicinandosi alla giovane. Dopodiché si sedette a gambe incrociate, aspettando che anche Roxas potesse imitare il suo gesto; così quest'ultimo, dopo essersi lasciato sfuggire un rumoroso sospiro, lo seguì e prese posto accanto a lui nella medesima posizione, rimanendo in perfetto silenzio.
Poiché la ragazza tornò a concentrarsi sul proprio disegno, Roxas decise di approfittarne per scrutare con più attenzione i dettagli della stanza; notò che, sì, la stanza era completamente bianca -Il letto, le coperte, il comodino, il pavimento-, ma, nonostante ciò, c'erano due cose che spiccavano: la finestra e i disegni appesi sulle pareti.
La prima permetteva alla stanza di affacciarsi sul mondo esterno, o meglio, sul cortile della clinica, che forse era già qualcosa. Permetteva alla realtà di sfiorare appena la camera di Naminè, quel piccolo luogo che a Roxas parve quasi qualcosa di irreale, come il frammento di un sogno, o una casa fantasma.
Sulle pareti vi erano circa una ventina di disegni disposti in maniera alquanto disordinata. Forse furono proprio essi a colpire maggiormente Roxas, dal momento che sembravano essere stati fatti da una bambina delle elementari.
Parte dei disegni raffiguravano differenti luoghi; molti parevano sconosciuti a Roxas, ma presto si accorse che alcuni di essi mostravano sale della clinica stessa. Riuscì incredibilmente a riconoscere il cortile, la mensa e la sala TV.
Invece in altri disegni i protagonisti erano delle vere e proprie figure; ciò che in essi venivano più curati erano i capelli, poiché gli occhi e i vestiti erano soltanto un ammasso di colori provenienti dai pastelli. E anche in quel caso Roxas provò la medesima sensazione; gli parve di riconoscere alcuni degli individui rappresentati e si domandò se Naminè avesse la fissa di disegnare i pazienti del terzo piano, dato che in un foglio gli sembrò di vedere la capigliatura argentata di Riku.
Roxas spostò poi lo sguardo verso la parete destra, accorgendosi che da quella parte la disposizione dei disegni cambiava del tutto; lì i disegni, infatti, che erano sette al massimo, erano stati posti in modo da formare un cerchio, il quale al centro presentava un foglio completamente bianco.
I disegni circostanti invece erano strani, apparentemente privi di senso. Un paio presentavano soltanto una macchia rossa colorata in malo modo, altri raffiguravano un'ombra nera accanto ad un letto. Uno in particolare colpì Roxas; vi erano un paio di occhi neri, neri come la notte, ed era l'unico disegno colorato veramente, addirittura Naminè sembrava aver calcato, consumando probabilmente parte del pastello.
Parevano due voragini e al ragazzo vennero i brividi.
«Ti piacciono i miei disegni?». Roxas sussultò appena e si accorse solo in quel momento che Naminè lo stava osservando con un lieve sorriso dipinto sulle labbra; Hayner, al contrario, aveva la testa rivolta verso la parete sinistra e sembrava essersi da poco accorto della presenza dei disegni.
«Sono... Particolari.», balbettò goffamente il biondo, sempre più a disagio dall'atmosfera.
La fanciulla continuò a sorridere e spostò appena il capo per potersi rivolgere anche all'altro presente. «Siete qui per sapere che cosa vi attende il futuro, giusto?»
A quella domanda Roxas si morse un poco il labbro inferiore, imbarazzato; lui non credeva di certo a scemenze simili e non gli andava proprio di raccontare una menzogna, anche perché, se ci avesse provato, probabilmente gli sarebbe scappata una risatina o qualcosa del genere.
Fortunatamente per lui Hayner intervenì in suo soccorso. «Sì, esatto, visto che abbiamo sentito tanto parlare delle tue, mmh... Doti magiche, credo.»
E, in effetti, ciò che aveva detto il diciottenne era la verità.
Naminè Lannert era piuttosto conosciuta nella clinica, poiché da tempo indefinito riceveva come ospiti pazienti di ogni genere; dagli svitati del suo stesso piano, agli anziani dell'ultimo e c'era addirittura chi affermava di aver visto intrufolarsi qualche cuoca.
La ragazza veniva considerata come una strega, una specie di oracolo, e qui le voci si dividevano in due parti; vi era chi credeva fermamente in ciò che diceva Naminè (E solitamente erano gli schizzati e gli schizofrenici, o almeno, così la pensava Roxas), e, al contrario, vi era chi la considerava una svitata.
A Roxas non era mai interessato niente di niente e sapeva che nemmeno Hayner credeva a certe stronzate; lo aveva trascinato in quella pagliacciata soltanto per passare il tempo in maniera diversa, ecco tutto.
Naminè era sicuramente una ragazza particolare, dato che emetteva una strana aura che faceva venire i brividi a Roxas; nonostante ciò, ella sapeva nascondersi perfettamente, poiché difficilmente veniva avvistata dagli altri pazienti. In mensa si recava sempre tardi, quando rimanevano giusto una decina di persone, e alle attività pomeridiane pareva invisibile.
Coloro che non l'avevano mai vista potevano anche scommettere che fosse un fantasma.
Roxas si chiese se fino a quel momento non avesse fatto parte di quest'ultima categoria.
«Ma visto che dicono tanto che sei un'indovina», il biondo interruppe il corso dei propri pensieri a causa della voce del compagno, il quale aveva assunto il solito tono di sfida caratterizzato da una punta di sarcasmo. «vediamo, come ci chiamiamo?»
Roxas a quel punto tirò una gomitata all'amico che in tutta risposta gli fece una smorfia.
Insomma, sapeva che Hayner lo aveva trascinato lì dentro per passare il tempo, ma non gli andava che si mettesse anche a prendere in giro quella ragazza. Trovava stupido il suo passatempo e tutta la storia del prevedere il futuro, certo, ma in fondo si trovavano tutti in una clinica di matti, quindi era dura considerare un comportamento più folle di un altro.
Naminè abbassò leggermente le iridi e rimase in silenzio per una manciata di secondi.
Secondi nei quali il disagio di Roxas aumentò a dismisura; perfino Hayner corrugò un poco la fronte e schiuse le labbra, pronto magari a deviare argomento o far notare che la sua era una semplice presa in giro, quando la fanciulla alzò nuovamente la testa e indicò prima il ragazzo dagli occhi blu, poi il compagno. «Tu sei Roxas, e tu invece sei Hayner.»
I due dunque spalancarono leggermente gli occhi; dopodiché Roxas scosse un poco la testa e si sforzò di darsi un contegno, dal momento che, in fondo, non ci voleva molto a venire a conoscenza di un paio di nomi; Hayner invece riprese immediatamente la parola. «Wow, hai visto Roxas? Siamo famosi nella clinica!», e ridacchiò, come se fosse poi realmente divertente.
La fanciulla allora fece ancora quel suo sorriso strano, un sorriso privo di gioia, privo di qualsiasi sentimento. Pareva quasi galleggiare nel nulla, tinto di bianco, proprio come la sua stanza, come la clinica intera, il suo sorriso era proprio così, un bianco spento per quanto privo di macchie, due pietre prive di valore al posto degli occhi.
Giravano molte voci sul conto di Naminè Lannert, e la verità era che quasi nessuno conosceva con esattezza la sua storia, o comunque il motivo per cui si trovasse in quella clinica.
Vi erano pazienti che erano sicuri che soffrisse di anoressia, ma Roxas era sicuro che quella non era la verità; certo, la ragazza era esile, ma non in maniera eccessiva, anche perché, oltre al fatto che non si faceva problemi ad indossare vestiti a maniche corte, non pareva in ansia per i pasti.
Doveva certamente avere qualche sorta di depressione, anche se, ovviamente, non si sapeva di che tipo.
Nonostante i pazienti del terzo piano cercassero sempre di nascondere le proprie diagnosi a vicenda, talvolta a Demyx qualcosa sfuggiva sempre e grazie a ciò Hayner aveva scoperto che Naminè era finita in quella clinica per aver subito degli abusi sessuali da parte del suo patrigno, probabilmente.
Erano tutte voci, magari anche gli stessi pazienti del terzo piano non conoscevano il suo passato, ma, chissà perché, Hayner era propenso a credere a quell'ipotesi, per quanto forse fosse la peggiore.
Naminè allungò improvvisamente la mano e afferrò quella di Roxas, il quale sussultò leggermente, sorpreso da quel gesto così inaspettato; Hayner, dal canto suo, sollevò istintivamente il soppraciglio sinistro e guardò la fanciulla, incrociando per un attimo le sue pietre spente.
Dopodiché Naminè tornò ad osservare il ragazzo dagli occhi blu e lo costrinse con delicatezza ad aprire il palmo della mano sinistra.
Roxas si accorse che aveva la pelle particolarmente liscia e dura, sembrava essere quasi fatta di vetro. Non c'era nulla di morbido, ma soltanto la triste e solitaria perfezione di una bambola di porcellana, quelle che le bambine amavano tanto appoggiare sul comodino per permetter loro vegliare sul proprio sonno ma che, al tempo stesso, con quei loro grandi occhi, sapevano inquietarle.
La ragazza scrutò con estrema attenzione il palmo dell'altro, il quale, nel frattempo, spostò un poco gli occhi verso il compagno, incerto sul da farsi. La presenza di Naminè lo turbava parecchio, anche se, al tempo stesso, tutta quella situazione gli pareva surreale. Che cosa pensava di fare? Leggergli la mano? Ci fu un attimo in cui temette seriamente di lasciarsi sfuggire una mezza risata, ma, fortunatamente, riuscì a trattenersi. Non gli andava di ferire i sentimenti di Naminè, sarebbe stato particolarmente crudele da parte sua.
Ma una cosa era certa; una volta uscita da quella stanza un bel calcio ad Hayner non glielo avrebbe impedito nessuno. Accidenti a lui e alle sue malsane idee che lo costringevano ad affrontare situazioni così imbarazzanti.
Naminè finalmente lasciò la sua mano e accennò un sorriso in segno di ringraziamento prima di dedicarsi finalmente ad Hayner, il quale stava tentando in ogni maniera di non lasciarsi sfuggire qualche sarcastica battuta; si limitò dunque ad allungare la mano, continuando a torturarsi il labbro inferiore nella speranza di trattenersi.
Dunque la fanciulla rimase per una manciata di secondi immobile, con lo sguardo puntato verso il palmo di Hayner; dopodiché alzò la testa, sorrise per l'ennesima volta e lasciò la sua mano. «Abbiate la pazienza di restare qui ancora un po'. Non ci vorrà molto, ve lo prometto.»
«Possiamo stare qui tutto il tempo, tanto manca ancora molto alle attività pomeridiane!», a quella vivace risposta Roxas tirò una seconda gomitata all'amico e gli lanciò un'occhiataccia che lasciava trasparire il suo disagio e fastidio nel dover stare ancora in quella sottospecie di camera per fantasmi.
Il compagno rispose con una scrollata di spalle poco interessata prima di tornare a concentrarsi nuovamente sulla ragazza, notando che quest'ultima aveva tirato fuori dal proprio album un foglio completamente bianco. 
Bianco.
Come il materasso, le coperte, le pareti, il pavimento, il vestito.

Bianco camuffato.
Roxas comprese improvvisamente che quel bianco era soltanto un'enorme maschera che nascondeva il passato di Naminè. Una maschera indistruttibile, perché nulla avrebbe mai macchiato quel bianco.

I suoi occhi blu erano pietre, pietre vuote ormai, assorbite dal passato, soffocate da esso. Si erano spenti, e forse mai più si sarebbero riaccesi.
Nulla li avrebbe più macchiati. Quelle pareti non avrebbero mai permesso al passato di emergere, di invadere la stanza, di sporcare quella perfezione solitaria di una bambola di porcellana.
Pochi colori essenziali. I pastelli, i capelli biondi di Naminè e i suoi occhi azzurri. Azzurri ancora per poco però, perché Roxas temeva che presto anche essi sarebbero diventati bianchi.
Un castello di vetro tinto di bianco. Un castello che imprigionava non solo una fanciulla, ma anche il suo passato. Un castello costruito dalla fanciulla stessa; ella non desiderava nessun cavaliere. Quel castello era il suo salvataggio, quel castello che non permetteva al passato di emergere.
Naminè era un ammasso di nuvole cristallizzate che nascondevano un temporale.
La ragazza nel frattempo sembrò essere sul punto di terminare il disegno; utilizzò il pastello nero e colorò in malomodo prima di appoggiarlo sul pavimento, accanto alle proprie gambe. «Ho finito.», annunciò in un bisbiglio prima di porgere il foglio ai due, il quale venne prontamente preso da Hayner.
Il disegno raffigurava due teste viste da dietro, dal momento che vi erano solo i capelli, in mezzo ad un contrasto tra il nero e il bianco.
Inizialmente, infatti, entrambi i capi erano circondati dal nero più assoluto; successivamente, però, quello sinistro sembrava in qualche modo liberarsi da quell'opprimente presenza, al contrario dell'altra figura che continuava ad essere contornata quasi fino alla fine del foglio; l'ultima parte parte del disegno, infatti, era stato lasciata in bianco, formando così una striscia contrastante con il nero precedente.
Hayner corrugò la fronte e si grattò la nuca prima di mostrare il disegno alla ragazza. «Ma io chi sarei, scusa?»
A quella domanda Roxas sospirò rumorosamente e roteò gli occhi, domandandosi perché diavolo il suo migliore amico si ostinasse a trovare un senso in quell'assurdo disegno. Probabilmente aveva colorato di proposito i capelli con il medesimo giallo, in modo da confonderli. Insomma, giusto per creare un po' di atmosfera enigmatica.
Naminè sbatté più volte le palpebre prima di riprendere il disegno che stava colorando prima dell'arrivo dei due; afferrò il pastello verde e chinò la testa, ignorando la domanda del ragazzo. «Mi ha fatto piacere conoscervi.»
Quella risposta fece intuire ai due che l'incontro era terminato; Hayner dunque si alzò, non senza sbuffare rumorosamente, irritato che la sua domanda sia stata ignorata così, e si avviò verso la porta.
Roxas fece lo stesso, anche se più lentamente; barcollò un po' e si spolverò i pantaloni. Si voltò all'indietro e notò che Hayner aveva già abbandonato la stanza, dunque lanciò un'ultima occhiata alle pareti invase dai disegni.
«Posso chiederti una cosa?». A quella domanda Naminè alzò di scatto la testa e puntò le sue pietre verso Roxas, incuriosita, senza però rispondere.
«Quel disegno...», iniziò il ragazzo, indicando il foglio completamente bianco al centro del cerchio, sulla parete destra.  «Che cosa rappresenta?»
Naminè seguì con gli occhi la direzione indicata dal biondo; rimase in silenzio per un paio di attimi, come ipnotizzata, dopodiché sembrò illuminarsi un poco, ma durò soltanto un millesimo di secondo perché poi le sue pietre tornarono prive di valore. «Oh, quel giorno avevo soltanto deciso di rappresentare la mia stanza. E' stato molto facile. Tutti i fogli del mio album, prima di essere colorati, sono la mia stanza. Tutti, tutti quanti.», successivamente chinò nuovamente la testa e riprese a concentrarsi sul proprio foglio.
Roxas allora rimase immobile per qualche secondo, perplesso; dopodiché scosse il capo tra sé e sé ed uscì dalla stanza, raggiungendo Hayner che lo stava ancora aspettando in mezzo al corridoio con il disegno in mano.

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*Note di Ev'*
Questo capitolo è stato scritto principalmente per _NekoRoxy_, poiché mi ha avvertita del fatto che domani partirà e che, di conseguenza, non potrà leggere il settimo capitolo, in caso aggiornassi.
Avevo già in mente di pubblicare entro questo week-end, ma mi ci sono messa di impegno perché ci tenevo che lei riuscisse a leggerlo in tempo.
Ahimè, non sono proprio dell'umore. In questi giorni non immaginate che casini astronomici siano successi per delle... Okay, no, mi devo trattenere.
Dio Santo, non vedo l'ora di andarmene da questa città del cazzo. Ma lasciamo perdere e passiamo oltre.


Allora, ehm, l'analisi, boh, non saprei... Roxas e Axel stanno iniziando a parlare, ehm... Più o meno civilmente, uh? E abbiamo scoperto che Axel è entrato nella clinica di sua volontà.
Per il resto, beh, ci ritroviamo con un Hayner piangente (?) a causa di suo padre, e, infine, i nostri due eroi (?) si sono tuffati a capofitto nell'ennesima cazzata di Hayner.
Entra in scena qui il personaggio di Naminè e... Boh, sì, succede quel che succede.


Scusate per la pateticità dell'analisi, ma proprio non me la sento.
Che dirvi... La scuola è iniziata, mi devo abituare al cambiamento degli insegnanti, certo, ma direi che è andato tutto piuttosto bene.
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e, in caso abbiate letto, vi prego di recensire, poiché siamo in un sito in cui il confronto è ESSENZIALE.
Detto ciò, passo e chiudo.
Alla prossima.
E.P.R.

 

   
 
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