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Autore: Hagne    21/09/2013    1 recensioni
Tratto dal primo capitolo:
"I fantasmi del passato erano mostri difficili da addomesticare, creature d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse, pesanti e dure con le quali vincolarli"
[ Seguito di " A Demon's Fate"]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: Cross-over, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything '
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Capitolo 10
“I can feel That its time for me to face it
Can I take it?
Though this might just be the ending
Of the life I held so dear
But I wont run, there’s no turning back from here “
[…]
“Stand my ground, I wont give in
No more denying, I got to face it
Wont close my eyes and hide the truth inside
I just know theres no escape
Now once it sets its eyes on you
But I wont run, have to stare it in the eye
All I know for sure is I'm trying
I will always stand my ground”

[ Stand My Ground – Within Temptation]





Sapersi osservata, sola e vulnerabile in mezzo a tutta quella neve chiazzata di sangue, senza una presenza amica abbastanza vicina a ricordarle che qualcuno per lei c’era avrebbe dovuto intimidirla, avrebbe dovuto spaventarla, ma non c’era mai stato posto per la paura in quella terra.
Lì, provarne era sinonimo di debolezza, e i Giganti di Ghiaccio aberravano ogni forma di fragilità fisica e mentale più della morte stessa, perché persino  morire era un atto di forza se si era morti combattendo, senza provare timore per la propria fine, una fine che sarebbe toccata ad uno di loro.
Ed Astrid sapeva che Knut non aveva creduto, neanche per un istante, che potesse essere lei la vincitrice della lotta per il potere che avrebbe deciso il loro destino.
Il terreno scelto per lo scontro era disposto su una delle cime montuose più alte di Jötunheimr, uno spiazzo arido  circondato da spuntoni che sarebbero potuti servire come lame di pietra da affondare nel corpo dell’avversario, lì dove  persino il ghiaccio che Astrid sentiva gelarle le piante dei piedi avrebbe potuto divenire un’arma da usare contro di lei.
  Perché avrebbe potuto perdere l’equilibrio con tutto quel sangue che gocciolava lungo le sue mani, mani che non avrebbero potuto avere una presa salda su qualunque cosa  fosse risultata  utile per reggersi in piedi, per non cadere in ginocchio, ma se anche l’avesse avuta, se anche un aiuto dall’ambente vi fosse stato, non lo avrebbe usato, non quando sapeva che ogni Gigante di Ghiaccio avrebbe visto in quel suo gesto un segno di debolezza, di sconfitta, un atto che una regina, la loro regina non avrebbe osato compiere.

Perché cercare aiuto non era nella loro natura, contare su altro all’infuori di se stessi, non era nella loro natura.
E loro aspettavano solo di trovare un motivo per giustificare la loro diffidenza, per la recalcitranza che lo  sguardo di Sunniva tentava di smorzare, minacciando con un ringhio chi incitava Knut a strapparle le braccia e gettarla di sotto, ma si sarebbe fatta bastare  il suo sguardo e le fiamme che ancora le lambivano il viso e il petto per gridare al mondo che lei non avrebbe risparmiato colpi, che non avrebbe avuto pietà, in quella lotta, come lei sapeva che Knut non ne avrebbe avuta per lei.
Perché  così sarebbe dovuto essere, così le loro leggi dicevano, ma  non c’erano regole da seguire in quel  combattimento, niente proibizioni su quale parte del corpo risparmiare dai colpi, come non ci sarebbe stato il fischio di inizio a metterla in guardia, e lei ne era cosciente, perché quell’avviso mancato  lo vide giungere come  il primo pugno con il quale il Gigante di Ghiaccio le si avventò contro.
Indietreggiare fu necessario per evitare che la mano della creatura le fracassasse la gabbia toracica, ma fuggire da quei colpi non era tra le opzioni  possibili, non era un gesto da Gigante di Ghaccio, men che mano da regina, perciò Astrid si trovò ad irrigidire i muscoli delle braccia da calare sull’arto che Knut era pronto a ritirare per caricare un altro colpo, un colpo che lei non gli permise di rivolgerle.
Quando l’ombra gigantesca della sua schiena la inghiottì, si elevò un coro di ruggiti attorno a lei mentre gli occhi delle creature osservavano con malcelata sorpresa come il loro capo, il più forte tra loro si trovasse fermo a mezz’aria, sollevato dalle mani che la piccola creatura, la compagna del vecchio Re gli aveva serrato attorno all’avambraccio per staccarlo da terra e tentare di impedirgli movimento alcuno.
Ma Astrid non aveva tenuto conto della caparbietà di quelle creature, di Knut, , e quando lo vide gettare  indietro la testa per colpirla, lei si trovò ad atterrare  malamente verso il limite del precipizio sul quale senza fiato  si trovò stesa a metà.
E Knut non le diede tempo di rialzarsi, di riprendere fiato, di provare a fuggire, perché le si rovesciò sopra come una valanga di muscoli che le immobilizzarono braccia e gambe, lasciandola con il collo teso per lo sforzo di non rovesciare la testa sul vuoto che le soffiava tra i capelli l’aria gelida delle sue profondità.
Sunniva lanciò un grido di rabbia nell’assistere a quella scena, provando a muoversi nella direzione della sua signora che continuava ad essere schiacciata da Knut.
Knut che non l’aveva mai accettata, capita come aveva fatto lei, lui che non poteva capire quanto la piccola creatura che tutti loro faticavano ad accettare, la minuscola ombra che su di loro aveva vegliato materna fin dal loro arrivo, in silenzio, senza farsi vedere, si era già conquistata un posto nel loro mondo.
Lei che non era una misera femmina straniera, nè la  compagna del vecchio Re, ma la loro regina, quella per cui Sunniva era pronta ad inimicarsi la sua stessa razza, pur di proteggerla, pur di farle capire che qualcuno a seguirla ci sarebbe stata anche senza dimostrazioni di una forza che lei aveva, una forza  di fronte alla quale chiunque, persino Knut, sarebbe impallidito.
Una forza che però Astrid aveva adoperato per  tamponare la ferita che  le parole di Loki le avevano scavato nel petto.
Parole che lei aveva sempre temuto di sentire, di ricevere da lui, e pensava di essersi preparata al peggio, di aver acquisito abbastanza  autocontrollo da poter accettare tutto, da potersi impedire di crollare ancora, così da  non permettere a Galactus di giocare con la sua mente.
Ma era col suo cuore, che quel mostro aveva giocato, con quello di Loki che aveva riempito di dubbi, di paura, e di risentimento per se stesso e lei.
Soprattutto per lei.
- Questa è la nostra  terra – berciò il Gigante di Ghiaccio con rabbia, la voce pregna di quel disgusto che per lei, per la sua conformazione fisica che gridava debolezza  e la sua diversità non aveva mai perduto occasione di esternare – e tu  qui non sarai mai  la benvenuta, figlia di Yssgradrill.
Un rantolo sommesso le sfuggì dalle labbra quando la creatura fece scivolare una mano attorno al suo collo, stringendo le dita tozze nel tentativo di soffocarla, ma erano state quelle parole, quell’ennesimo rifiuto a farle salire le lacrime agli occhi mentre le incitazioni a finirla, a uccidere la straniera si alzavano nell’aria come un canto di guerra.
Una guerra contro di lei, contro il nemico.
Ma Astrid non aveva mai voluto essere il nemico di nessuno.
Lei  voleva essere solo capita, e aveva passato la vita a cercare di compiacere gli altri, di adattarsi ai loro costumi, alle loro usanze, andando contro se stessa, sempre, contro se stessa.
E tutto ciò che aveva avuto in cambio, tutto quello che aveva ricevuto era stato solo disprezzo e lo schianto di una porta che di aprirsi per lei, di lasciarla passare  non ne aveva mai avuto ragione, né volontà.
E lei, lei avrebbe voluto urlargli che loro erano tutto ciò che le rimaneva, che lui, era tutto ciò che le rimaneva, che i Giganti di ghiaccio erano ciò che le restava  della  famiglia che aveva costruito con Loki, l’unico contatto con un mondo che aveva perduto, l’anello della catena attorno alla quale le sue dita insanguinate erano disperatamente aggrappate.
Ed erano loro, a tenerla ancora in piedi, perché era la sua ultima battaglia, l’ultima che poteva ancora vincere per riconquistare un pezzo di  Loki, un frammento che  loro, i Giganti, rappresentavano, in quanto suoi simili, in quanto suoi pari.
Loro erano ciò che le rimaneva di lui, l’ultimo appiglio al quale potersi aggrappare per non arrendersi, per non decidere di averne abbastanza di tutto quello, di lasciare la presa e cadere una volta per tutte, senza provare più a frenare la discesa.
E lei aveva bisogno di quello, aveva bisogno di loro, di ognuno di loro.
Di essere accettata, voluta,  e accolta come una di loro.
Aveva bisogno persino di Knut, lui che più di tutti le ricordava lui e quel mondo costruito con la  forza e governato dall’ orgoglio.
Un orgoglio che lei aveva ammirato da lontano, che per prima aveva messo da parte,  un orgoglio che ora Knut, per lei, avrebbero dovuto mettere da parte.
E lei glielo chiese con la mano che serrò attorno a quella rozza del Gigante, glielo bisbigliò con la voce rotta dal dolore e dal pianto, sperando di poterlo convincere che lei non voleva comandarli, che non aveva mai voluto essere loro nemica.
Avrebbe voluto spiegargli che loro erano il suo ultimo legame con Loki, chi le impediva di crollare, chi lei avrebbe potuto amare come avrebbero meritato se solo  le avessero permesso di essere qualcosa per loro.
Non una regina, non una tiranna, ma una madre, quella che non era mai potuto essere, quella che Yehouda le aveva impedito di diventare,  ma quella che per loro, per i suoi figli, per il popolo dell’uomo che amava sarebbe potuta essere, se glielo avessero lasciato fare.
Ma se c’era una cosa che Astrid aveva imparato in quegli anni, era che dai Giganti di ghiaccio non si poteva pretendere nulla, non il rispetto, non la comprensione, e che l’unico modo per riceverlo era chiederlo con la forza bruta.
E così fece.
Quando Knut si trovò a fissare il cielo terso di   Jötunheimr seppe  di essere stato appena battuto.
Ancora una volta.
E il pensiero di poter essere marchiato di nuovo, di dover sopportare la vergogna di sapersi sconfitto lo convinse che la morte sarebbe stata la scelta migliore, che l’avrebbe pretesa da quelle mani che lo schiacciavano a terra.
Le mani di una femmina.
Una piccola e stupida femmina che non apparteneva neanche alla loro razza.
Una creatura che in passato aveva denigrato, respinto con rabbia, una minuscola e sciocca creatura che nella neve aveva continuato ad affondare pur di mostrargli di essere degna della sua considerazione, di avere il diritto di essere riconosciuta come loro pari, come uno di loro, ed ora, di fronte al suo popolo, lei lo era diventata.
Degna di ricevere rispetto, degna di ricoprire il ruolo che aveva sempre inseguito e che aveva infine raggiunto e stretto tra le dita.
E il suo primo compito di regina, secondo le loro leggi, secondo la sua stessa volontà, sarebbe stato quello di uccidere chi in battaglia aveva perduto il diritto sulla propria esistenza, su una vita della quale lei avrebbe potuto farne scempio umiliandolo di fronte ai suoi simili, o uccidendolo lentamente, per ripagarlo della crudeltà che le aveva rivolto, del dolore che le aveva inferto.
E avrebbe preferito la morte, perché il suo orgoglio non avrebbe retto ad un'altra umiliazione, perciò attese in silenzio, lo sguardo perduto nella vastità della sua terra per trovare qualcosa di familiare a cui aggrapparsi durante la caduta.
Ma ciò che sentì, ciò che percepì contro di sé  non fu la pressione di una mano affondata nel torace in cerca del cuore da strappargli, fu invece un peso diverso da quello che si aspettava, il tocco di una fronte abbandonata sul suo stomaco con stanchezza.
Perché  sul corpo del Gigante, sul petto che secondo le leggi lei avrebbe dovuto squarciare per prendergli il cuore e impedirgli l’onore di ricongiungersi con la madre terra, Astrid si svuotò di ogni cosa.
Sunniva la raggiunse in silenzio, attirando su di sé lo sguardo dei suoi simili che ora parevano smarriti, e confusi da tutto quello, ma lei non era smarrita, perché lei non aveva mai perso la fiducia nel cuore buono di quella creatura.
Un cuore grande e gentile che le aveva dato un posto in cui stare, e  quando lo riprese, quando affiancò la sua signora lasciò che Knut la guardasse da terra per qualche istante prima che una mano piccola e blu lo portasse ad abbassare lo sguardo.
Un gesto che prima lo avrebbe disgustato, per il quale avrebbe preferito cavarsi gli occhi per non vedere, ma quando lo fece, quando sentì le piccole dita seguire il segno della schiavitù, della sua prima e unica sconfitta, non riuscì a scostare lo sguardo dal mondo di luci che vedeva tremolare per disperdere calore.
Un tepore gentile e soffice come la carezza che  gli sfiorò il volto, un tocco che Astrid compì con gli occhi bordati dalle lacrime che lasciò cadere, raccogliendo  con le dita la vergogna di una creatura che di quel gesto ne fu sorpreso, confuso, ed infine turbato.
E quando il peso di quella vergogna smise di segnargli il cuore e il viso, quando sentì la pelle arricciata distendersi sotto quel tocco gentile, lo squarcio che il loro Re aveva inferto venne risanato e l’orgoglio ripagato dell’onta subita.
Perché era stato risparmiato, e Knut non riuscì a trovare nullo di sbagliato, nulla di errato nell’umanità con la quale aveva deciso di ridargli la sua libertà.
 Quando tentò di rialzarsi Astrid seppe con un sorriso amareggiato che non aveva più la forza di compiere un passo, ma c’era Sunniva accanto a lei, e lei l’avrebbe aiutata, perché era sua amica.
La sua un’unica amica.  
Eppure non fu la Gigante a raccogliere da terra la piccola regina stanca, ma  Knut.
Knut che ora fissava il cielo con una quiete, una pace che non gli aveva mai visto in viso  mentre si caricava  del suo esile peso e  la Gigante che lo fissava guardinga seguiva la sua risalita verso il cielo, come se temesse un atto scellerato verso di lei.
Ma ciò fece fu   sollevare la piccola creatura sulla propria spalla, cosicché risultasse più alta di lui, più alta delle montagne, più alte di ognuno di loro.
Perché quella che Knut reggeva con forza, quella che il suo ruggito animale acclamò mentre il primo pugno prendeva a battere sul suo  petto, la piccola creatura che Sunniva continuava a guardare con orgoglio era la loro regina.
La Regina dei Giganti di  Ghiaccio.
Quando Knut prese a discendere la montagna, quando tutti lo seguirono, Astrid si sentì smarrita, confusa, e disorientata da ciò che vedeva, che non capiva,   mentre  lo sguardo si perdeva sull’immensità di quel pianeta che ora, per la prima volta, senza un reale perchè, le appariva un po’ meno ostile, un po’ meno freddo, un po’ più suo.
Loro.
E si abbandonò contro la spalla del Gigante, incapace di fare altro se non guardare di fronte a sé e lasciare che il vento gelido di Jötunheimr le  asciugasse le lacrime e soffiasse su quella ferita che lentamente, sotto il suono di quei passi e il battito di quel cuore sotto la mano smise di sanguinare, smise di soffrire.
Perché c’erano quelle voci a dirle che una battaglia l’aveva vinta, che finalmente, la sua scelta era stata fatta, e che una risposta, finalmente, avrebbe potuto dare alla domanda della sua esistenza.
Chi era lei?
Regina di   Jötunheimr   sussurrò flebile, la voce incrinata dall’emozione che le fece sgranare gli occhi su un mondo che ora poteva chiamare casa, un pianeta che riecheggiava di un titolo che ogni Gigante di Ghiaccio ruggì nell’aria, per ricordare al mondo di tremare e ai popoli di ricordare chi fosse il più forte tra loro.
Perché c’era un nuovo sovrano, a sedere sul trono di  Jötunheimr, e non era né un uomo, né un Gigante di Ghiaccio.
Non era stato subito, né costretto, ma scelto.
Lei, era stata scelta.
Una donna.
Una regina.
La prima regina di  Jötunheimr.

°°°

 


Raccogliere da terra ciò che altri avevano abbandonato credendo di non averne più bisogno era un’azione che Loki sapeva di aver già compiuto molte volte in passato, da bambino.
Aveva memoria di qualche episodio in cui aveva atteso che Thor mettesse da parte il giocattolo che il padre degli dei gli aveva appena  donato per rubarlo e riporlo con cura nel piccolo nascondiglio ricavato in una delle nicchie del palazzo, la sua caverna delle meraviglie, tesori che aveva sì rubato, ma solo perché nessuno avrebbe potuto apprezzarli come avrebbe fatto lui.
Perché suo fratello aveva sempre avuto la  sciocca tendenza di annoiarsi facilmente di ciò che gli veniva concesso, una conseguenza della eccessiva  frequenza con cui tutti esaudivano ogni suo capriccio mentre lui trovava difficile non tenere a tutto ciò che gli veniva donato.
Un libro, una vecchia palla, ogni cosa, una volta passata nelle sue mani, diveniva una reliquia da conservare con cura, un’attenzione maniacale che con l’andare del tempo si era tramutato in un tratto distintivo del suo carattere.
Era diventato meticoloso e pedante, e quel suo bisogno di ordine, di perfezione aveva trovato sfogo nei piani di vendetta che aveva meditato e trasformato in azioni, una volta divenuto abbastanza grande da poter liberare la rabbia che lo aveva divorato e incattivito nella sua infanzia.
E come allora non aveva potuto fare a meno  di piegarsi sulle ginocchia mentre nessuno guardava per raccogliere da terra ciò che Galactus aveva lasciato cadere quando Astrid lo aveva spinto brutalmente nel portale.
Solo che quella volta non aveva rubato niente a nessuno, perchè si era invece riappropriato di ciò che era suo.
Quella ciocca di capelli era sua, non di quella creatura che per primo l’aveva rubata, non degli umani che si definivano la sua famiglia e che forse, l’avrebbero rivoluto indietro.
Ma non erano loro la sua famiglia, Astrid lo aveva detto chiaramente.
Erano loro due, la famiglia dell’altro, solo loro due.
Una famiglia alla quale  era stato lui a voltare le spalle per una volta, non il contrario.
Quella volta non erano stati gli altri a decidere di non credere in lui, non era stato tradito, non era stato respinto, ma era stato lui, quello che l’aveva lasciata sola.
Era stato lui a lasciarla indietro.
Mi hai mentito.
Chiudere gli occhi non sarebbe servito a cancellare il dolore di quello sguardo vitreo.
Smettere di pensarci non gli avrebbe permesso di dimenticare la voce rotta dal pianto che le aveva stretto la gola.
Rinchiudere quella ciocca nella prigione crudele delle sue dita non gli avrebbe permesso di bloccare il tremore di quelle spalle minute.
Perché lei non avrebbe smesso di tremare e piangere e bisbigliare con voce tradita un’accusa dalla quale non aveva saputo come difendersi, lui che di averla ferita non lo aveva capito, di averla appena  uccisa, non lo aveva capito.
Si era preoccupato solo del suo dolore, si era sempre curato del suo dolore, senza rivolgere uno sguardo a chi lo circondava, senza tener contro della sofferenza, della disperazione che era stato lui a causare, una sofferenza che  tutti si  meritavano di ricevere da lui, ma lei, lei non se lo meritava.
Lei non avrebbe dovuto essere vittima del suo rancore, non aveva motivo di odiarla come odiava suo padre, come odiava Thor  e chiunque aveva professato il proprio amore per lui.
Il motivo per cui lo avevano perseguitato come un criminale, il perché fosse rimasto rinchiuso nelle profondità di Asgard senza avere la possibilità di rivedere mai la luce del sole.

Perché lo amavano.
Ma se davvero lo avessero amato, se davvero il padre degli dei avesse nutrito un poco dell’amore che lui stesso aveva tentato di soffocare, allora lo avrebbe perdonato, e capito, avrebbe provato ad ascoltarlo, a sentire le sue ragioni.
Perché era per lui, che aveva compiuto ogni gesto, era  sempre stato per lui.
Per renderlo fiero, per sapersi degno dell’ affetto elemosinato fin da bambino.
E dopo tutto quello che aveva fatto per lui, dopo aver compito gesta degne di un vero Re, dell’unico Re, lui aveva scelto Thor, sempre Thor.
E lo aveva lasciato andare, lo aveva lasciato cadere con quello sguardo che aveva continuato ad ammonirlo  fino alla fine.
Ma lei, lei  lo aveva amato davvero.
Astrid, sua moglie, la sua famiglia, non aveva fatto altro che sorridergli e tenerlo stretto quando la notte calava, quando i pochi ricordi riconquistati si mescolavano alle illusioni create dalla sua mente, incubi dai quali si svegliava urlando.
E quando accadeva, quando riusciva a liberarsi da tutte quelle mani che tentavano di trascinarlo giù, non c’era sua madre a calmare i suoi ansiti, non c’era suo padre, né suo fratello, ma lei.
Lei che era sempre lì ad aspettare  che il suo respiro si calmasse, che il suo dolore si placasse e che il suo sguardo sperduto  si accorgesse di lei.
Dei suoi occhi colmi d’amore che gli avrebbero dato qualcosa di sicuro e familiare a cui aggrapparsi.
Della voce che non avrebbe smesso di bisbigliargli parole di conforto.
Delle  braccia strette attorno alle sue spalle per tenerlo vicino a trasmettergli un po’ di calore.
Di quel sorriso che ora, dietro le palpebre chiuse vedeva sformarsi sotto la forza di quell’urlo che lo costrinse a gemere dal dolore mentre le mani correvano a coprirgli le orecchie e il viso.
Per non vedere.
Per non sentire.
Per non soffrire per quei ricordi che neanche adesso riusciva a riprendersi.
E lo avrebbe voluto, lo desiderava più di ogni cosa, più di quanto avesse mai desiderato  ricevere l’approvazione di Odino,  più di quanto avesse mai voluto  essere riconosciuto come unico e vero Re di Asgard.
Lui rivoleva quei ricordi.
Voleva sentirsi felice come sapeva lei lo aveva fatto sentire, voleva tornare ad essere il  dio di cui lei si era innamorata,  l’uomo che Astrid aveva trovato dietro la paura e l’orrore.
Rivoleva lei.
Quando le porte della sua camera si aprirono sotto la spinta esigente delle sua mani, quando abbandonò il letto sul quale si era lasciato cadere senza più voce, il silenzio che fino ad allora aveva cullato i suoi pensieri venne spezzato dalle urla che echeggiavano per il palazzo, voci animate che parlavano di eserciti da schierare per  marciare verso la fine dell’universo dove Galactus e i suoi alleati li attendevano per lo scontro finale.
E più Loki si avvicinava alla sala del trono, più la sicurezza di dover correre da lei, di doverle chiedere perdono per lasciare che lui la toccasse e la  rendesse introvabile per chiunque  eccetto che per lui si fece soffocante, tanto che quando si trovò alle spalle degli umani non ne fu pienamente  cosciente fino a quando non udì qualcuno chiamarlo.
Perché di lui qualcuno si accorse.
- Loki?
Pepper si affrettò a raggiungere il dio non appena lo vide voltarsi al suo richiamo, un nome che la donna aveva sussurrato per non attirare l’attenzione del marito e di Fury, di nessuno degli uomini che per quella venuta non avrebbe provato altrettanto sollievo.
Ma ritrovarlo lì, ancora in piedi, l’aveva confortata con il  pensiero di non dover raccogliere i pezzi di un cuore diverso dal proprio, di non dover consolare qualcun altro oltre se stessa, perché non ne avrebbe avuto la forza.
- Hanno deciso di attaccare domani all’alba – gli spiegò frettolosa, così da  non lasciar cadere il silenzio, così da  non permettere ad entrambi di sprofondare nella commiserazione che sarebbe sopraggiunta una volta che  avesse taciuto.
E Loki dovette comprendere lo stesso bisogno di mantenere un contatto con il mondo esterno per non crollare, perché si decise a raggiungerla a metà strada, lo sguardo fisso sugli uomini sul piede di guerra che vedeva accalorarsi gli uni con gli altri.
- Domani?
- Si – assentì Pepper, non trovando la forza di distogliere lo sguardo da lui, perché in qualche modo contorto il dio la faceva sentire vicina a sua figlia, ed ora lei aveva bisogno di sapersi saldamente legata a lei, nonostante la lontananza.
E il suo anello di congiuntura era Loki.
Loki che guardava ma non vedeva veramente, che la ascoltava, ma non la capiva, perché i suoi occhi cercavano un'altra figura che non era lei.  
- E Astrid?
Dire quel nome gli costò fatica, e più fiato di quello che aveva creduto, perché aveva dovuto scacciare l’amarezza della bile che gli aveva impiastricciato la lingua, ma bastò dirlo, bastò trovare il coraggio di ripetere quel nome per avvertire la dolcezza invadergli il palato come se avesse trangugiato un fiotto di miele.
E a lui,  che le cose dolciastre non erano mai piaciute, si scoprì incredibilmente toccato dalla sensazione di piacere che gli pizzicò ogni nervo teso come una mano corsa a lisciare ogni sua ruga d’espressione, ogni smorfia contrita, ogni linea ferita.
Una mano piccola, dalle dita sottili che la sua memoria gli ricordò di aver già sentito in passato, sul proprio viso, prima di chiudere gli occhi e abbandonarsi al buio.
Un buio che ritrovò dietro le palpebre ma che nel pensare a lei non gli fece paura, perché ad aspettarlo trovò una risata, dolce e morbida come un bacio soffiato sopra l’orecchio.
- Oh,  Astrid tornerà – la sentì sussurrare al suo fianco con un filo di voce mentre un sorriso nostalgico che lui non poteva vedere tendeva il viso dell’umana con una familiarità che avrebbe colto, se l’avesse guardata.
- Per quanto la cosa abbia sempre irritato mio marito,  lei è sempre riuscita a  trovare  il modo di tornare da te.



°°°




Non ricordava che respirare fosse un’azione così difficile da compiere, che costringere i suoi polmoni a dilatarsi per incamerare aria fosse così faticoso e spossante, ma lo era, e Astrid cominciava a capire il perché di alcuni tratti comportamentali di Loki.
Il modo sospetto in cui il suo petto riusciva a risultare così incredibilmente controllato persino nel compiere un gesto naturale come la respirazione che sarebbe dovuta risultare più rumorosa e visibile, mentre la sua non lo era.
O la cura con la quale  le sue labbra si schiudevano per lasciar passare solo un filo d’aria, non un po’, non di più, ma una quantità sufficiente a scivolare tra lo spazio inesistente concesso da quella bocca, dando come l’impressione che lui non stesse respirando veramente,  che non avesse bisogno di farlo per sopravvivere come gli altri, come tutti, persino gli dei.
Suo padre in passato aveva detto la sua, al riguardo, spiegando che quello del dio era solo un modo per inquietare chi gli stava vicino con una delle molteplici e grottesche abilità che gli permettevano di trovarsi alle spalle del nemico come un’ombra minacciosa e incorporea, ma ugualmente letale.
E se i suoi genitori fossero stati lì con lei, se suo padre l’avesse guardata, Astrid era certa che ognuno di loro avrebbe espresso il proprio sconcerto nel vederla imitare un tratto distintivo del dio.
Ma faticava davvero a respirare normalmente, e non per volontà di emulare l’uomo che amava, di essergli ancora più vicina, ancora più coinvolta, ma perché doveva sforzarsi di non occludere la trachea con più aria di quella che sarebbe riuscita a far passare per le vie respiratorie ostruite dal ghiaccio che aveva rivestito i suoi organi interni.
- Come ti senti?
Ruotare il busto per seguire quella voce le costò fatica, perché non si sentiva più leggera e veloce come prima, non con quella sensazione di costante spossatezza che rendeva i suoi movimenti così stanchi, affaticati, falsamente eleganti.
Ma era solo fatica quella le appesantiva il cuore e lo sguardo che Semjace incrociò, persa nella contemplazione silenziosa del mutamento fisico dal quale sua figlia era stata colta impreparata quando i primi segnali di cambiamento l’aveva informata del reale peso delle sue scelte.
E l’onere della spessa corona che Sunniva le aveva posto sul capo sotto lo sguardo dei Giganti, di Jotunheim, era stato ben più gravoso di quanto previsto, di quanto pensato.
Perché, quando l’intricata struttura di ghiaccio e brina cristallizzata era venuta a contatto con l’epidermide, quando il suo intero corpo aveva provato a rigettarlo come un organo incompatibile, un corpo estraneo, il gelo le era penetrato nelle ossa assieme alle spirali di ghiaccio che sotto la pelle tenere della tempia si erano insinuate come nuove vene che invece del sangue facevano circolare ghiaccio, divenendo un tutt’uno con i capelli ora divenuti di un colore più tenue, più freddo.
- Io – provò ad articolare, sforzandosi di risultare il più chiara possibile nonostante sentisse la lingua pesante –  io mi sento stanca.
Ed era vero, ma quella stanchezza non l’aveva mai provata o  sentita prima,  perché non era stata  scatenata da  nessuno sforzo fisico.
Era più che altro un affaticamento mentale che la rigidità dei suoi arti congelati rendeva ancora più palese per chi la guardava, per chi probabilmente sembrava estremamente posata, come Loki pensò accigliata, ripensando all’indolenza con cui compiva ogni azione, un’indolenza che molti, troppi avevano scambiato per un gesto di superiorità da parte sua.

Lui che  risultava algido nella sua postura composta,  e parlava solo quando lo riteneva opportuno, si muoveva solo quando lo considerava necessario.
- Non è come pensi,  la fatica che senti è  causata dall’assestamento con cui il tuo corpo sta cercando di abituarsi al cambiamento. Né Loki né i Giganti di Ghiaccio ne sono affetti. È la loro natura, ma non la tua.
- Oh – un’esclamazione quasi sciocca la sua, ma Astrid non sapeva come reagire, come abituarsi ai cambiamenti a cui il suo corpo stava andando in contro.
Mutamenti che non interessavano solo la sua essenza rarefatta come il respiro di ghiaccio che soffiava pesantemente dalle labbra, ma anche l’involucro della sua anima, quel corpo che tornò a guardare attraverso le mura di cristallo della sala del trono.
E quando le ciglia imperlate di brina le permisero di notare il rosso borgogna che le affogava l’iride, quando si strofinò le braccia per liberarle dallo strato di ghiaccio che l’aveva rese un po’ più pallide e traslucide come un velo impalpabile, Astrid sentì un moto di orgoglio per ciò che vedeva, per ciò che era diventata.
Perché la se stessa dallo sguardo velato e le labbra blu acceso sembrava felice.
Felice di ciò che vedeva, delle somiglianze che ora la rendevano una Gigante di Ghiaccio.
La regina dei Giganti di Ghiaccio.
E ora, neanche avere la pelle rosea come quella degli umani le importava più.
Cercare di sembrare come loro, non le importava più, perché ora anche lei apparteneva ad una specie, ad una razza, ad un popolo con cui condividere le proprie caratteristiche, la propria bellezza, e quella che ora rendeva lei  eterea e fuggente come un soffio di vento  la rendeva fiera della scelta presa.
Il frusciare di vesti e il tocco leggero sulla spalla la convinse a spostare lo sguardo dalla corona che non avrebbe più potuto sfilare dal  capo per quanto forte avesse tirato al viso metallico di sua madre, un viso segnato da una felicità che la portò a schiudere un sorriso emozionato.
- Sei felice? – la sentì sussurrare con un filo di voce, e c’era così tanto bisogno di sapere, così tanto desiderio di saperla finalmente felice, dopo tutto quel tempo, da bordarle gli occhi di lacrime che vide tramutarsi in piccoli cristalli di ghiaccio che, a contatto con il suolo, tintinnarono assieme  alla sua risata commossa.
- Si madre, sono felice.
Ed era vero.

Era felice, davvero  felice, e non per qualcun altro, ma per se stessa, per il posto che finalmente si era riuscita a ritagliare nell’universo, nel mondo.
Ed era su quel trono, tra quelle terre, in mezzo ai Giganti che sarebbe dovuta stare, non tra gli umani, non tra gli dei, non in una teca di vetro, ma lì, proprio lì.
La carezza con cui  sua madre le sfiorò lo zigomo le fu data con dita tremanti, dita che Astrid afferrò con delicatezza, rigirandosi tra le sue braccia per guardarla in viso e gridarle con gli occhi che aveva vinto.
Una vittoria per la quale riuscì a non pensare a nient’altro che a quella bolla di felicità che le solleticava il cuore ferito, un cuore che avrebbe riparato, pezzo per pezzo, ora che sapeva di avere un posto in cui tornare, una volta che tutto fosse finito.
E avrebbe voluto correre da Loki per raccontargli che l’avevano accettata, che i suoi simili, il suo popolo, l’avevano accettata come Regina, come loro regina, e che insieme avrebbero potuto costruire qualcosa di bello, qualcosa per cui lei avrebbe combattuto, così da  realizzare il sogno di ognuno di loro.
Perché c’era ancora una guerra da finire, e uno scontro da iniziare ora che di scappare non c’era più la possibilità.
La battaglia più difficile, quella che forse l’avrebbe vista perdente, ma anche vincitrice.

Non vi era certezza quella volta, neanche per lei, e la cosa non la spaventava, Galactus, non la spaventava più.
Avrebbe trovato il modo di sconfiggerlo, di rendere impotente ciò che non poteva essere distrutto, lo avrebbe trovato, ma quella risposta fu sua madre a dargliela, come dono per ciò che era riuscita a raggiungere, a conquistare.
Un compito che Astrid non aveva preso coscienza di aver assolto.
La matita di un grande disegno che Yssgradrill e gli spiriti del passato avevano finalmente finito di guidare.


Continua...


 

 
  
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