//Rebirth//
Capitolo 2 – Rain
Dire che era furioso sarebbe stato un tenero
eufemismo.
A Sha Gojyo le rotelline funzionavano tutte, ma non poteva negare di avere,
ogni tanto, qualche piccolo problema di controllo della rabbia. La scuola lo faceva incazzare, il traffico lo faceva incazzare, gli
impiegati, tutti uguali con le loro valigette, lo facevano incazzare. Ecco. Poi
c’erano cose che lo facevano incazzare ancora di più. E
quel finocchietto biondo si era appena fregiato del titolo.
Era abituato a risse con gente da due soldi. Era abituato a zuffe anche da solo
contro più aggressori.
Ma era la prima volta, lo giurava tutto, che veniva
attaccato da una persona con quello sguardo. Fiero. Freddo. Furioso. Da tigre in gabbia che se la prende con chiunque, topi o leoni.
Mollò un calcio a un cassonetto dell’immondizia di
fianco a lui. Il preside non era presente, e il vicepreside, un idiota da
niente, aveva assunto un’espressione rassegnata, come se con lui non ci fosse
più nulla da fare, come se avesse perso le speranze con persone come lui.
Immondizia. Ecco come l’aveva trattato, quel merdoso.
Certo però che Sanzo…gli veniva una rabbia al solo ripensarci…Gli avrebbe
spaccato la faccia, la prossima volta che l’avesse visto. Stronzo. Ma chi
ti credi di essere?
Sbuffò, controllando velocemente l’orologio. Era ora di andare al lavoro.
Certo, era una seccatura, ma l’indipendenza era ciò che aveva sempre
desiderato, quando era più piccolo, e il lavoro faceva parte del pacchetto
promozionale.
Amando molto moto (soprattutto la sua) e motori, aveva facilmente trovato
lavoro in un’officina non troppo miserabile, e lo stipendio settimanale che riceveva gli permetteva di vivere una vita quasi decente.
Ogni tanto si giocava qualche quattrino a poker, e modestamente vinceva molto
spesso. Era discretamente bravo, a leggere nelle facce della gente, e il suo
volto non tradiva alcuna emozione se lui non glielo
concedeva.
Infilando le mani nelle tasche per controllarne il tremito, si diresse a passi
ampi verso la moto. L’officina lo attendeva.
Shinobu
si stava avviando verso il cortile della scuola. Aveva perso tempo a rivestirsi
dopo la lezione di educazione fisica, e sperava che
Jin e Koji non se ne fossero ancora andati. Gojyo abitava abbastanza vicino a
casa sua, in un quartiere pieno di magazzini, in realtà, ma i suoi amici le
davano uno strappo ogni tanto, anche se non era proprio di strada. La gente con
il cosiddetto buonsenso ne sarebbe stata alla larga. Si dava il caso però, che
per Shinobu il buonsenso comune poteva bellamente andare a farsi fottere. Non aveva motivo di temere loro più di un impiegato
in giacca e cravatta e borsa in vitello, pronto a pagare una liceale appena
messo piede nel quartiere di Shibuya.
Gojyo e i suoi amici avevano conoscenti praticamente
ovunque. Bastava un sussurro nell’orecchio di un gestore, e sul loro tavolo
comparivano magicamente gli alcolici, anche se erano tutti minorenni. Shinobu,
che aveva preso a bere birra di nascosto fin dall’anno prima, era stata
contenta di passare a roba più sostenuta, sia pure senza esagerare -per amore
della verità, un paio di volte si era ubriacata pesantemente.
Non riusciva ancora a capacitarsi, in ogni caso, di come fosse
riuscita a farsi accettare dai centauri. Bella non era, senza
dubbio, non una ragazza da corteggiare sicuramente, e non aveva chissà che
fantastiche doti, non era ricca, insomma, guardando oggettivamente la cosa non
c’era nessun motivo perché dovessero sobbarcarsi una ragazzina. Probabilmente
lo doveva al fatto che Gojyo, in fin dei conti, era il primo a stimarla e,
immodestamente parlando, spesso riusciva a far fare
loro un sacco di sane risate.
Cazzo! Non ho l’orologio! Devo averlo dimenticato in palestra!, imprecò
sentendosi il polso sinistro stranamente leggero. Tornò sui suoi passi, rientrando
nell’edificio sportivo: ecco, adesso sì che era quasi sicura che Jin e Koji se
ne sarebbero andati. Attraversò la palestra vuota –erano
andati via già tutti- e scese la rampa di scale che conduceva agli
spogliatoi femminili. Non vide nessuno, in mezzo alle file di
armadietti. Sbuffando, cercò la chiave nella cartella, sperando di aver
dimenticato l’orologio dentro il suo, e di non averlo perso altrove. Si chinò
sul pavimento –il suo armadietto era nella fila più bassa-, e introdusse la
chiave nella serratura, ma prima che potesse scattare un rumore dietro le sue
spalle la fece sobbalzare.
“Salve, Ori!”. Una ragazza dai capelli ricci, che la superava abbondantemente
in altezza, l’aveva apostrofata con voce canzonatoria.
Ho idea che il mio orologio non lo vedrò più. Al
diavolo l’orologio.
“Ciao, Akami”, sorrise, rialzandosi. Pensò che avrebbe fatto meglio a
raccogliere i capelli, e fortunatamente aveva un elastico nero attorno al polso
a mo’ di braccialetto, quindi lo usò. “Hai dimenticato qualcosa anche tu o devo
a te la sparizione del mio orologio?”
La guardò. Avrebbe voluto evitare qualsiasi tipo di scontro, ma se l’altra
l’avesse ingaggiato non sarebbe rimasta con le mani in mano.
Una contro una. Credeva di poterla far piangere.
La ricciuta si strinse nelle spalle. “Può essere. Possiamo scambiare due
parole?”
“Spiacente”, tagliò corto lei con voce neutra, certa che la cosa comunque non sarebbe finita lì. “Mi aspettano per andare a
casa”, mentì.
“Ori”, disse l’altra con voce morbida, come se stesse parlando con una bambina.
“Non mi ha fatto piacere che tu abbia spaccato un labbro alla mia amica
Ikinose, pochi giorni fa”
La risposta di Shinobu fu uno sbuffo sarcastico. “La tua amica Ikinose mi ha
mollato un cazzotto tale che, se mi avesse preso in faccia invece che nel
collo, mi avrebbe spaccato uno zigomo. Ha usato un mollettone
di ferro per tirapugni”
“Ikinose aveva le sue ragioni”
“Ikinose è una troia gelosa. Si fa sbattere almeno da tre ragazzi attualmente, o meglio, è ciò che va dicendo in giro, ma le brucia
perché Hakkai le ha detto no. Non so in che modo io sia implicata
nella cosa, e quando gliel’ho chiesto la sua risposta è stata il famoso
cazzotto”
Akami mollò un pugno a un armadietto. “Ori, mi hai rotto i coglioni con i tuoi
discorsetti sarcastici. Ikinose non vede perché tu debba trascorrere ogni
minuto libero con Cho o Son, o in alternativa con Sha,
quando è libero. Non risulta che tu sia la ragazza di
nessuno dei tre, e ci mancherebbe”
Shinobu fu incerta se ridere o arrabbiarsi. Alla fine decise per la prima, e
ragliò un riso che dovette fare inferocire l’altra. “Questi saranno anche cazzi
miei. Nessuno si è mai permesso di dirmi come devo comportarmi, e certo
non ascolterò le provocazioni di galline dal cervello striminzito come voi.
Aria, tesoro, devo andare a casa.”
Chiedersi il perché della sua impopolarità era inutile. Il bell’aspetto di
Hakkai, di Gojyo e anche di Goku aveva fatto sì che
nel liceo T si fossero formati tanti ridicoli club, sostenuti da altrettanto
ridicole ragazzine che naturalmente non vedevano di buon occhio chi si
avvicinasse a una distanza minore di quella di sicurezza ai ragazzi in
questione. Distanza non in senso fisico, ovviamente: perché nessuna poteva
negare che Gojyo avesse l’agenda piena di appuntamenti.
“Okay, mi hai davvero stancata”. Akami si fece avanti,
e Shinobu, inavvertitamente, mosse qualche passo indietro. Dalla porta che
riconduceva alla rampa di scale per la palestra, dove avrebbe dovuto dirigersi,
entrarono altre tre ragazze. Quella che conduceva il gruppetto, prendendola
alle spalle, le diede uno spintone che la condusse violentemente proprio contro
Akami, che la respinse con un calcio. Shinobu contrasse gli
addominali e solo grazie a questo il dolore non fu terribile, ma la sua
furia stava per raggiungere livelli inusitati. Il corridoio tra gli armadietti
era stretto, e lei era circondata su due lati; Akami era davanti a lei, le
altre due dietro, e una terza si era appostata davanti alla porta d’ingresso,
controllando che non arrivasse nessuno.
Le due ragazze dietro di lei ridacchiarono. Akami si portò le braccia ai
fianchi.
“Allora, Ori…hai finito di fare la spaccona, ora che nessuno ti guarda le
spalle?”
Shinobu strinse le labbra in un sorriso sarcastico. “Lieta di sentirmelo dire
da chi mi ha attirato in palestra da sola, e ora mi sta minacciando insieme ad altre tre”
“Sta’ zitta, troia. Quelle come te si chiamano gattemorte. Con quel
faccino pulito e ingenuo, sempre pronte ad attaccarsi alla cintura di ragazzi
che le proteggano, salvo poi tirar fuori le unghie per difendere il territorio quando non sono in vista ”
“Ma ti ascolti ogni tanto, quando parli?”, sbottò Shinobu, tirandosi
su le maniche della camicia. Presto sarebbe a dir poco esplosa. “Cammini con le
cosce allargate, per quanto ti fai sbattere. E vieni a
dare a me della troia?”
Si voltò verso le altre due, per rendere più chiaro il concetto. “Mi avete
rotto i coglioni, tutte quante. Spero che sia l’ultima volta
che lo ripeto. Occupatevi dei cazzi vostri”
Erano invidiose. Invidiose perché appariva sempre in
compagnia di Gojyo, o di Goku, o di Hakkai. Porca miseria, ma
si poteva essere più idioti? Che cazzo c’era da
invidiare? Lei stessa si faceva schifo. La sua vita le faceva schifo.
Akami sbuffò teatralmente. Si tirò un po’ indietro, oltre la
fila degli armadietti, e si chinò contro il muro. Shinobu vide che aveva
afferrato il manico di legno di una ramazza. Senza
alcun preavviso, si avvicinò, tirò indietro le braccia e fece per colpirla alla
testa, ma Shinobu evitò il colpo scartando indietro.
Sfortunatamente si sentì bloccare le spalle da una delle altre. Il secondo
colpo non andò a vuoto, e la colpì subito sopra l’orecchio destro. Il dolore fu
atroce, e sentì che iniziava già a zampillare sangue. E
ne sarebbe presto arrivato un altro. Si chiese, in uno sprazzo di lucidità tra
il dolore e la confusione per la botta, fin dove si sarebbero spinte. Non
potevano ammazzarla. Ma avrebbero potuto conciarla per
le feste con il bastone e dichiarare che era scivolata dalla rampa di scale.
Shinobu, divincolandosi con tutte le sue forze, si liberò della presa,
assestando due violente gomitate in rapida successione al mento di quella che
la bloccava, fortunatamente più alta di lei. Chinò la testa, e si lanciò contro
Akami, che aveva nuovamente brandito il bastone,
colpendola allo stomaco. Il dolore alla testa peggiorò di colpo, ma riuscì
ugualmente a prenderle il bastone prima che potessero
farlo Akami o la terza, impicciata da qualche chilo di carne più del
necessario. Lo impugnò saldamente e, senza neanche voltarsi, lo mulinò
all’indietro. La colpì sulla clavicola.
In quel momento la porta dello spogliatoio si aprì di scatto, colpendo la
ragazza che ne stava a guardia. Shinobu si chiese
confusamente se fosse un professore o altre ragazze pronte a dar manforte a
quelle che l’avevano aggredita. Niente di tutto questo: ne entrò
Ryuho Gojuin.
Gojuin era un albino, e se ne vedevano veramente pochi in giro: i capelli erano
eccezionalmente chiari, e gli occhi rossicci, rari anche per uno come lui. Il
loro colore poteva suggerire uno sguardo caldo, ma nulla di più lontano dal vero: erano glaciali. Era stata la prima cosa
che aveva notato quando l’aveva visto.
Akami e le altre due che l’avevano aggredita, furenti e doloranti, urtarono
entrambi, fuggendo su per la rampa di scale insieme alla quarta che sorvegliava
la porta. Le loro voci, infastidite e furenti, continuarono a riecheggiare mentre attraversavano la palestra vuota.
Shinobu si accasciò al suolo, ansante, appoggiandosi alla fila di armadietti in metallo. Finalmente si concesse il lusso di
massaggiarsi la ferita, da cui scaturiva un fiotto di sangue che scorreva lungo
i capelli e le si infilava nel colletto, lungo il
collo. Non era molto, ma era costante. Sperò di non aver bisogno di punti di sutura.
“Buongiorno, Gojuin”, lo salutò, massaggiandosi le tempie che ancora pulsavano.
“Qual buon vento?”
“Ori…Mi era parso di sentire delle voci provenire dalla palestra”. Porse la
mano, inizialmente incerta, verso la ragazza. “A quest’ora non dovrebbe esserci
nessuno, quindi pensavo ad esterni…”
Gojuin era un ragazzo che frequentava il terzo anno. Non era uno studente
particolarmente problematico, o meglio, nessuno aveva
mai avuto da ridire sul suo comportamento, ma il suo sguardo vuoto e gelido e i
suoi modi di fare freddi lo rendevano inavvicinabile a chiunque, professori,
ragazzi e ragazze, che pure ammiravano il suo bell’aspetto: era infatti molto
alto, un po’ più di Gojyo, aveva un bel fisico, un bel viso, e i suoi colori
avevano un che di affascinante.
“Il tuo arrivo è stato provvidenziale”. Shinobu accettò la mano che lui le
porgeva, tirandosi su appigliata alla sua stretta robusta. “Non so come sarebbe
andata a finire”
“Per quel che ho visto, non te la stavi cavando male”
Shinobu rise, sorpresa, costringendosi a smettere quando
sentì la testa rintronarle come un tamburo. Ryuho Gojuin era estremamente
freddo e cortese, e non si aspettava una simile frase da parte sua. Si chinò a
raccogliere il bastone, ed ebbe un leggero capogiro. Passò subito.
“Per favore, non riferire a nessuno quel che hai visto
oggi. Non voglio inutili chiacchiere né confronti in presidenza”, gli chiese, riappoggiando il bastone al muro. Si chinò a
raccogliere le sue cose. L’orologio non c’era, ma pazienza.
“Come vuoi”
“Grazie per l’involontaria intromissione, in ogni caso”
La conversazione, dopo quell’inizio incoraggiante, aveva assunto il
solito tono orribilmente formale. Shinobu si passò una mano tra i capelli per
sistemarli alla meno peggio – somigliava molto ad una
valchiria, in quel momento-, e fece una smorfia schifata quando li sentì
appiccicosi di sangue.
“Di nulla. Ti accompagno in infermeria?”, si propose
l’altro.
Shinobu scosse la testa. “No, grazie. Sto bene. Sono solo un po’ rintronata
dalla botta alla testa, ma passerà”
Gojuin si strinse lievemente nelle spalle, quindi, inaspettatamente, le si avvicinò.
“Credo abbia smesso di sanguinare”, commentò studiandole la ferita. “Non è
profonda”
Shinobu sorrise. “Meno male. Grazie”. Il respiro iniziava appena a
regolarizzarsi. “E’ meglio che vada a casa, prima che succeda qualcos’altro”
Gojuin annuì compostamente, precedendola. “Arrivederci, Ori”
La ragazza sorrise tra sé e sé. Si chiese se l’avesse
riconosciuta, se ricordasse quell’episodio accaduto due anni prima. Non
vi aveva mai fatto cenno, quelle poche volte che avevano conversato brevemente.
Non le dispiaceva, Gojuin, chissà poi perché. Non amava eccessivamente i tipi
freddi e scontrosi.
In ogni caso, non era quello momento per pensieri
simili. Doveva andare a casa di qualcuno a medicarsi, non
poteva di certo rientrare a casa in quello stato.
Andare da chi? Goku? No…
Era davvero strano: per quanto lo conoscesse da quasi due anni, non aveva la
minima idea di dove abitasse né sapeva nulla della sua famiglia: una volta che
gli aveva chiesto qualcosa, lui aveva assunto uno sguardo così abbattuto che
non aveva osato aggiungere altro.
E, se era per quello, non sapeva nulla nemmeno della famiglia di Gojyo, ne tanto meno di quella di Hakkai, che vivevano da soli. In
effetti…erano tutte persone alquanto schive, sebbene non lo mostrassero in
apparenza. Hakkai era cortese fino all’inverosimile, Goku appariva decisamente estroverso, quanto a Gojyo…Beh. Gojyo era uno
spudorato dongiovanni.
Sarebbe andata da Hakkai. Probabilmente stava già studiando, ma poteva anche
permettersi di disturbarlo.
Hakkai e le sue depressioni.
Direttamente proporzionali ai suoi sorrisi di cortesia.
Se qualcuno l’avesse visto in quel momento, probabilmente avrebbe stentato a
riconoscervi l’Hakkai con la cravatta della divisa scolastica impeccabilmente
annodata: steso sul divano con un braccio di traverso a proteggergli gli occhi
dalla luce del lampadario, in preda a un mal di testa
fastidioso che non aveva l’aria di voler tornare sui propri passi. Aveva
iniziato a piovere, naturalmente, giusto perché il ticchettare delle gocce sui
vetri potesse vezzeggiare calorosamente il pulsare sordo che provava alle
tempie.
Sospirò, catalogando mentalmente il suo armadietto dei medicinali nella
speranza di riscontrarvi un analgesico, che sicuramente gli avrebbe causato
sonnolenza; e, tra quella e il mal di testa, non riusciva a decidere quale
fosse il male peggiore.
Temeva, in realtà, che l’umidità di quei giorni fosse solo
una delle cause del suddetto mal di testa; e che, piuttosto, ne fosse complice
il peggioramento della sua insonnia, ora non più dovuta esclusivamente a sogni
di un passato non troppo passato –ma molto reale-, ma anche a ossessive
immagini che immancabilmente si dileguavano dalla sua memoria non appena apriva
gli occhi. Volti, situazioni e voci che si ripetevano insopportabilmente, che
gli martellavano un messaggio nelle tempie, come il
sonno disturbato di chi è in preda alla febbre e non riesce a liberarsene.
Sette volte, aveva contato, si erano verificati sogni di quel tipo, e tutti
nelle ultime due settimane. Nulla da fare, per ricordare qualcosa. E i sogni lo lasciavano con una sensazione angosciante al
petto.
Ma, almeno a quella, era abituato.
Si alzò, faticosamente, e si diresse verso la finestra; al passaggio, chiuse i
libri di scuola: almeno per quel pomeriggio, di studiare non se ne parlava. Il
martellare sul vetro si era fatto insopportabile, e decise
di aprire la finestra: forse alla sua salute non avrebbe giovato, ma
probabilmente al suo umore sì.
Aveva appena schiuso i vetri e assaporato le prime gocce di pioggia sul viso,
che, ironicamente, un altro martellare alle tempie gli causò
l’esplosione di piccoli lumini gialli dietro le palpebre: era il campanello.
Hakkai lasciò la finestra aperta, sempre più persuaso ad assumere
quell’analgesico che adesso gli faceva più gola che mai. Si ripromise di farlo
dopo aver aperto la porta.
La vista di Shinobu oltre la soglia gli suggerì che avrebbe
avuto bisogno dell’intera cassetta del pronto soccorso.
“Oh,
non dovevi disturbarti a mettere il tè sul fuoco…non mi tratterrò tanto”
Hakkai richiuse la cassetta del pronto soccorso. Il suo analgesico aveva già
iniziato a fare effetto, e la ferita di Shinobu l’aveva sistemata alla bell’e meglio. Non era profonda, fortunatamente.
“Non mi disturbi affatto, e in realtà mi piacerebbe
sapere che cosa ti è successo. E inoltre ti conviene
smacchiare il colletto della camicia, o a tua madre prenderà un colpo”
“Hai ragione come sempre”, annuì lei. Hakkai notò che, per quanto si muovesse
vivacemente, la sua voce ogni tanto era percorsa da un lieve tremore. Shinobu
sedette sul divano, si slacciò tre bottoni sotto il collo, e si sfilò la
camicia della divisa scolastica.
Hakkai, con un leggero sospiro, decise di andare a
controllare anticipatamente l’acqua per il tè.
“Non vorrei assumere la parte del morigerato nonnino d’altri tempi”, disse
dalla cucina. “Ma non dovresti spogliarti così facilmente”
La sentì ridacchiare, probabilmente dal bagno. Iniziò lo scroscio
dell’acqua. “Non sei mica Gojyo. L’ultima persona da cui mi
aspetterei un guizzo di malizia sei tu”
Hakkai sorrise mestamente al bollitore.
“L’acqua è abbastanza calda”, annunciò, spegnendo il gas. “Sei
riuscita a togliere il sangue dal colletto?”
“Quasi tutto”, rispose lei, e il ragazzo sentì l’acqua del lavandino smettere
di scorrere.
Meno di un minuto dopo, erano entrambi seduti al tavolino del soggiorno, i
libri di scuola accatastati in un angolo. Hakkai versò il tè
in due tazze.
“Allora”, fece portandosi la sua alle labbra. Dopo l’analgesico, era un
vero toccasana per il suo mal di testa. “Adesso mi spieghi
cos’è successo? Anzi, chi è stato?”
La ragazza posò la tazza sul tavolo dopo averla appena piluccata. Aggrottò le
sopracciglia, come per minimizzare. “Niente di nuovo, Hakkai. Ho avuto uno
scambio di vedute piuttosto vivace con alcune ragazze della scuola”
Sospiro di Hakkai. “Di nuovo Ikinose? O Maki?”
“Altre”, rispose Shinobu, prendendo la tazza tra le mani, cambiando idea a
mezza strada e riappoggiandola sul ripiano in legno.
La spinse verso il centro del tavolo. “Non ho iniziato io, sia chiaro”
“Non volevo accusarti”, si giustificò il ragazzo, deponendo anche lui la sua
tazza di tè. Shinobu non ci avrebbe mai fatto caso, ma
gli sembrò indelicato continuare a bere in un momento del genere. “Se dovesse
servirti una mano…”, continuò, ma si interruppe quasi
subito. Non c’era modo di aiutarla a risolvere quel tipo di problemi, e lei un
aiuto di quel genere non l’avrebbe mai accettato.
“Hakkai”, mormorò lei con un sorriso triste. “Mi hai già dato tutto l’aiuto che
potessi darmi: non volevo tornare a casa in quello
stato. Per il resto…be’, non te la prendere, ma non credo che tu, o qualcun
altro, possiate aiutarmi con questo genere di
problemi”
Il ragazzo aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, ma Shinobu lo anticipò
con un gesto della mano. “E adesso…scusami…ma ho idea
che farò qualcosa di molto stupido”. Appoggiò il gomito al tavolo, e nascose il
viso dietro la mano. Hakkai fissò lo sguardo sulla finestra ancora aperta,
lasciando che si sfogasse.
“Ehi, Sagojyo!”. Il capo, un uomo piuttosto in carne, con le mani e la tuta blu
perennemente sporche di olio nero, lo chiamò mettendo
fuori la testa da sotto la macchina, una Subaru Impreza nera che aveva visto
già qualche primavera.
Gojyo non lo sentì, in un primo momento. Si era preso due minuti di pausa non
annunciata, e ne stava approfittando per fumare al davanzale, osservando le
strade affollate oltre la finestra.
Luci di fari che si confondevano, rumori che alle sue
orecchie apparivano indistinti.
Un po’ come il mondo. Un mondo che, al di fuori di se stesso,
gli appariva distorto, confuso. Non aveva colori, non
aveva suoni. Solo una massa informe di percezioni.
Quella pioggia che vedeva scorrere davanti a sé
assumeva la forma di sbarre, che lo imprigionavano nella vita*.
Mph, dovrei fare il poeta, cazzo.
La cenere cadde dalla sigaretta.
“Gojyo?”
Al secondo appello, il ragazzo si riscosse. Dormiva un po’ male,
ultimamente. Il suo sonno era sempre stato più che soddisfacente, ma da un paio
di settimane aveva la sensazione di sognare qualcosa di poco piacevole, che al
risveglio non riusciva a richiamare alla memoria. E si
ritrovava, durante il giorno, a cercare di ricordare ciò che la sveglia gli
portava via.
“Dimmi, ojisan**.”, rispose facendo saltar via ciò che restava della sigaretta
oltre il davanzale.
“Ti ho detto di passarmi quella chiave inglese!”, sbraitò l’altro, spazientito.
Il rosso sospirò e si avviò al bancone per prendere ciò che gli era stato
richiesto.
“Che c’è, Akage***, problemi di donne?”, gli chiese
l’uomo sarcasticamente prendendogli dalle mani l’arnese metallico. “Dillo allo
zio, cosa affligge i tuoi ormoni adolescenziali?”
“Ma quali donne!”, rispose Gojyo, stizzito. Che
gliene importava, a quel vecchio? I soliti buoni propositi ipocriti. La gente
vuole farsi i cazzi tuoi per mostrarsi buona, brava e compassionevole, ma non
appena ti serve una mano, scompare misteriosamente. E lui era sempre stato
abituato a cavarsela da solo, fin da quando era
piccolo.
Si portò le mani alla testa e si rifece il codino, che si era sciolto
scivolato. Gli piacevano i propri capelli, erano di un rosso
acceso e lunghi fino al mento. Guardò l’orologio: le nove meno un
quarto; un quarto d’ora di lavoro, e il suo unico
pensiero sarebbe stato come trascorrere la serata.
A casa a dormire, vista la serata. Con questa pioggia il mondo sembra
schifosamente più nitido. E più orribile, di
conseguenza.
Il turno di lavoro finì senza grandi emozioni, poco meno di quindici minuti
dopo; Gojyo salutò il capo e si gettò la giacca su una spalla, uscendo
dall’officina per prendere la moto.
“Cazzo! Ma tu vedi che tempo di merda e siamo ad
aprile!”
Tsk! Ci mancava solo che si mettesse a piovere!
Sanzo calciò la prima cosa che si trovò sottopiede, una confezione di cartone
che in una vita precedente aveva probabilmente contenuto qualche schifido
intruglio da fast food. Aveva l’insana abitudine di
sfogare la sua rabbia contro gli oggetti più impensati, ma se riusciva a
dirigerla verso un oggetto senziente, magari ben disposto a contraccambiare, ci
trovava più soddisfazione. Lo stronzo con i capelli tinti di
rosso, quella mattina, era stato un osso duro, decisamente.
Camminava sotto la pioggia, i capelli biondi già completamente bagnati.
Tutto va storto. Tutto, tutto.
Scosse la testa, schioccando la lingua sul palato anche se
nessuno l’avrebbe sentito.
Che diavolo ci faceva lì? In che cazzo di mondo era
capitato?
Incubi lo perseguitavano da quando si era trasferito
in quella città: incubi che riguardavano qualcuno dagli occhi dorati di cui non
ricordava nemmeno il nome.
E…una voce che lo chiamava.
Liberami…fammi esistere!
Stronzate. Stronzate su stronzate.
Anche appurato che quella voce esistesse realmente,
lui viveva solo per se stesso.
Erano solo stupidi incubi dovuti al suo malumore che, sebbene costante, era
sensibilmente peggiorato negli ultimi tempi.
Sogni e voci. Una meraviglia.
Oh, senza dimenticare quella dannata pioggia.
Lo faceva soffocare, lo opprimeva.
I fari delle auto, dei lampioni e delle insegne si riflettevano sulle gocce di
pioggia che cadevano fitte, assumendo così quasi una consistenza corporea.
Formavano quasi una cappa.
E lui…l’unica cosa che voleva, in queste giornate, era
affondare la testa sotto un cuscino e rialzarla solo la mattina dopo. Ma nemmeno questo gli era permesso, a causa degli incubi
ricorrenti.
Si era trasferito nella caotica Tokyo appena due settimane prima, con la
speranza di riuscire a mantenersi da solo, almeno lì, e di vivere alla
giornata.
Ma ci aveva rimesso la propria tranquillità e i propri
sogni, in quella città infernale.
Ascoltami. Ti sto aspettando.
Alzò la testa di scatto: la voce dei suoi incubi lo perseguitava anche quando
era sveglio?
“Mi sto bevendo il cervello…”, sussurrò amaramente, sogghignando.
Non fare finta di non sentirmi. Per favore, vieni!
Sanzo si guardò intorno: la gente gli passava accanto,
senza degnarlo nemmeno di uno sguardo.
Gente troppo indaffarata dalla propria vita e dai propri
problemi per soffermarsi sugli altri.
Ma lui aveva imparato a cavarsela da solo.
Non aveva bisogno di nessuno.
Ho bisogno di te…Ti chiamerò ancora, e
ancora. Vieni…
Basta…basta!,
concluse il ragazzo affrettando il passo per allontanarsi da tutta quella folla
per strada, che lo rendeva nervoso.
Imboccò, senza neanche accorgersene, un vicolo quasi avvolto nell’oscurità.
Solo la luce fioca di un lampione che a malapena funzionava illuminava un po’
quella stradina deserta.
Sanzo affrettò ancora di più il passo. Si ritrovò a correre.
Improvvisamente, incespicò in qualcosa, cadendo sul selciato.
“Ahi!”, si lamentò una voce nel buio.
Sanzo si volse.
Si ritrovò faccia a faccia con un ragazzino che stava
accoccolato per terra, sferzato dalla pioggia, completamente zuppo. Chissà da quanto tempo era lì seduto.
Gli occhi ametista di Sanzo si incontrarono con quelli
del ragazzo, che tra l’altro era sicuro di aver già visto a scuola.
Occhi dorati.
“Tu…maledetto!”
Continua…
[leggermente riveduta e corretta in data 18/97/09]
*:
Capelli rossi
**. ‘Zio’
***. Baudelaire, ovviamente xD