Anime & Manga > Saiyuki
Segui la storia  |       
Autore: IShallWearMidnight    20/10/2004    3 recensioni
La Tokyo di oggi. La città che incarna i sogni e le speranze di molti, giovani o adulti che siano. Che invece, quando ogni faro effimero si è spento, non rimanga che il buio? Che, dietro alle vicende quotidiane che attraversano ogni giorno, un gruppo di adolescenti ben noti nascondano dentro di sé disillusione e disgusto? Ancora una volta, non avere nulla. Ancora una volta, non essere schiavo di nessuno. Ancora una volta, non avere legami. Ma vivere semplicemente per la tua vita è possibile se, quando chiudi gli occhi, qualcosa o qualcuno bisbiglia dal passato, o forse dal presente? O forse non puoi ignorare quei frammenti che ti trapassano il cuore, provenienti da quello specchio rotto che è il passato? La vita, alla fine, è davvero solo un inutile e disperato tentativo di resistenza?
@Iniziata la revisione dei capitoli. Capitoli rivisitati: 1/6, 11/13, 30/39@
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cho Hakkai, Genjo Sanzo Hoshi, Nuovo Personaggio, Sha Gojio, Son Goku
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
//Rebirth//

//Rebirth//

Capitolo 2 – Rain


Dire che era furioso sarebbe stato un tenero eufemismo.
A Sha Gojyo le rotelline funzionavano tutte, ma non poteva negare di avere, ogni tanto, qualche piccolo problema di controllo della rabbia. La scuola lo faceva incazzare, il traffico lo faceva incazzare, gli impiegati, tutti uguali con le loro valigette, lo facevano incazzare. Ecco. Poi c’erano cose che lo facevano incazzare ancora di più. E quel finocchietto biondo si era appena fregiato del titolo.
Era abituato a risse con gente da due soldi. Era abituato a zuffe anche da solo contro più aggressori.
Ma era la prima volta, lo giurava tutto, che veniva attaccato da una persona con quello sguardo. Fiero. Freddo. Furioso. Da tigre in gabbia che se la prende con chiunque, topi o leoni.
Mollò un calcio a un cassonetto dell’immondizia di fianco a lui. Il preside non era presente, e il vicepreside, un idiota da niente, aveva assunto un’espressione rassegnata, come se con lui non ci fosse più nulla da fare, come se avesse perso le speranze con persone come lui. Immondizia. Ecco come l’aveva trattato, quel merdoso.
Certo però che Sanzo…gli veniva una rabbia al solo ripensarci…Gli avrebbe spaccato la faccia, la prossima volta che l’avesse visto. Stronzo. Ma chi ti credi di essere?
Sbuffò, controllando velocemente l’orologio. Era ora di andare al lavoro. Certo, era una seccatura, ma l’indipendenza era ciò che aveva sempre desiderato, quando era più piccolo, e il lavoro faceva parte del pacchetto promozionale.
Amando molto moto (soprattutto la sua) e motori, aveva facilmente trovato lavoro in un’officina non troppo miserabile, e lo stipendio settimanale che riceveva gli permetteva di vivere una vita quasi decente. Ogni tanto si giocava qualche quattrino a poker, e modestamente vinceva molto spesso. Era discretamente bravo, a leggere nelle facce della gente, e il suo volto non tradiva alcuna emozione se lui non glielo concedeva.
Infilando le mani nelle tasche per controllarne il tremito, si diresse a passi ampi verso la moto. L’officina lo attendeva.

Shinobu si stava avviando verso il cortile della scuola. Aveva perso tempo a rivestirsi dopo la lezione di educazione fisica, e sperava che Jin e Koji non se ne fossero ancora andati. Gojyo abitava abbastanza vicino a casa sua, in un quartiere pieno di magazzini, in realtà, ma i suoi amici le davano uno strappo ogni tanto, anche se non era proprio di strada. La gente con il cosiddetto buonsenso ne sarebbe stata alla larga. Si dava il caso però, che per Shinobu il buonsenso comune poteva bellamente andare a farsi fottere. Non aveva motivo di temere loro più di un impiegato in giacca e cravatta e borsa in vitello, pronto a pagare una liceale appena messo piede nel quartiere di Shibuya.
Gojyo e i suoi amici avevano conoscenti praticamente ovunque. Bastava un sussurro nell’orecchio di un gestore, e sul loro tavolo comparivano magicamente gli alcolici, anche se erano tutti minorenni. Shinobu, che aveva preso a bere birra di nascosto fin dall’anno prima, era stata contenta di passare a roba più sostenuta, sia pure senza esagerare -per amore della verità, un paio di volte si era ubriacata pesantemente.
Non riusciva ancora a capacitarsi, in ogni caso, di come fosse riuscita a farsi accettare dai centauri. Bella non era, senza dubbio, non una ragazza da corteggiare sicuramente, e non aveva chissà che fantastiche doti, non era ricca, insomma, guardando oggettivamente la cosa non c’era nessun motivo perché dovessero sobbarcarsi una ragazzina. Probabilmente lo doveva al fatto che Gojyo, in fin dei conti, era il primo a stimarla e, immodestamente parlando, spesso riusciva a far fare loro un sacco di sane risate.
Cazzo! Non ho l’orologio! Devo averlo dimenticato in palestra!, imprecò sentendosi il polso sinistro stranamente leggero. Tornò sui suoi passi, rientrando nell’edificio sportivo: ecco, adesso sì che era quasi sicura che Jin e Koji se ne sarebbero andati. Attraversò la palestra vuota –erano andati via già tutti- e scese la rampa di scale che conduceva agli spogliatoi femminili. Non vide nessuno, in mezzo alle file di armadietti. Sbuffando, cercò la chiave nella cartella, sperando di aver dimenticato l’orologio dentro il suo, e di non averlo perso altrove. Si chinò sul pavimento –il suo armadietto era nella fila più bassa-, e introdusse la chiave nella serratura, ma prima che potesse scattare un rumore dietro le sue spalle la fece sobbalzare.
“Salve, Ori!”. Una ragazza dai capelli ricci, che la superava abbondantemente in altezza, l’aveva apostrofata con voce canzonatoria.
Ho idea che il mio orologio non lo vedrò più. Al diavolo l’orologio.
“Ciao, Akami”, sorrise, rialzandosi. Pensò che avrebbe fatto meglio a raccogliere i capelli, e fortunatamente aveva un elastico nero attorno al polso a mo’ di braccialetto, quindi lo usò. “Hai dimenticato qualcosa anche tu o devo a te la sparizione del mio orologio?”
La guardò. Avrebbe voluto evitare qualsiasi tipo di scontro, ma se l’altra l’avesse ingaggiato non sarebbe rimasta con le mani in mano. Una contro una. Credeva di poterla far piangere.
La ricciuta si strinse nelle spalle. “Può essere. Possiamo scambiare due parole?”
“Spiacente”, tagliò corto lei con voce neutra, certa che la cosa comunque non sarebbe finita lì. “Mi aspettano per andare a casa”, mentì.
“Ori”, disse l’altra con voce morbida, come se stesse parlando con una bambina. “Non mi ha fatto piacere che tu abbia spaccato un labbro alla mia amica Ikinose, pochi giorni fa”
La risposta di Shinobu fu uno sbuffo sarcastico. “La tua amica Ikinose mi ha mollato un cazzotto tale che, se mi avesse preso in faccia invece che nel collo, mi avrebbe spaccato uno zigomo. Ha usato un mollettone di ferro per tirapugni”
“Ikinose aveva
le sue ragioni”
“Ikinose è una troia gelosa. Si fa sbattere almeno da tre ragazzi attualmente, o meglio, è ciò che va dicendo in giro, ma le brucia perché Hakkai le ha detto no. Non so in che modo io sia implicata nella cosa, e quando gliel’ho chiesto la sua risposta è stata il famoso cazzotto”
Akami mollò un pugno a un armadietto. “Ori, mi hai rotto i coglioni con i tuoi discorsetti sarcastici. Ikinose non vede perché tu debba trascorrere ogni minuto libero con Cho o Son, o in alternativa con Sha, quando è libero. Non risulta che tu sia la ragazza di nessuno dei tre, e ci mancherebbe”
Shinobu fu incerta se ridere o arrabbiarsi. Alla fine decise per la prima, e ragliò un riso che dovette fare inferocire l’altra. “Questi saranno anche cazzi miei. Nessuno si è mai permesso di dirmi come devo comportarmi, e certo non ascolterò le provocazioni di galline dal cervello striminzito come voi. Aria, tesoro, devo andare a casa.”
Chiedersi il perché della sua impopolarità era inutile. Il bell’aspetto di Hakkai, di Gojyo e anche di Goku aveva fatto sì che nel liceo T si fossero formati tanti ridicoli club, sostenuti da altrettanto ridicole ragazzine che naturalmente non vedevano di buon occhio chi si avvicinasse a una distanza minore di quella di sicurezza ai ragazzi in questione. Distanza non in senso fisico, ovviamente: perché nessuna poteva negare che Gojyo avesse l’agenda piena di appuntamenti.
“Okay, mi hai davvero stancata”. Akami si fece avanti, e Shinobu, inavvertitamente, mosse qualche passo indietro. Dalla porta che riconduceva alla rampa di scale per la palestra, dove avrebbe dovuto dirigersi, entrarono altre tre ragazze. Quella che conduceva il gruppetto, prendendola alle spalle, le diede uno spintone che la condusse violentemente proprio contro Akami, che la respinse con un calcio. Shinobu contrasse gli addominali e solo grazie a questo il dolore non fu terribile, ma la sua furia stava per raggiungere livelli inusitati. Il corridoio tra gli armadietti era stretto, e lei era circondata su due lati; Akami era davanti a lei, le altre due dietro, e una terza si era appostata davanti alla porta d’ingresso, controllando che non arrivasse nessuno.
Le due ragazze dietro di lei ridacchiarono. Akami si portò le braccia ai fianchi.
“Allora, Ori…hai finito di fare la spaccona, ora che nessuno ti guarda le spalle?”
Shinobu strinse le labbra in un sorriso sarcastico. “Lieta di sentirmelo dire da chi mi ha attirato in palestra da sola, e ora mi sta minacciando insieme ad altre tre”
“Sta’ zitta, troia. Quelle come te si chiamano gattemorte. Con quel faccino pulito e ingenuo, sempre pronte ad attaccarsi alla cintura di ragazzi che le proteggano, salvo poi tirar fuori le unghie per difendere il territorio quando non sono in vista ”
Ma ti ascolti ogni tanto, quando parli?”, sbottò Shinobu, tirandosi su le maniche della camicia. Presto sarebbe a dir poco esplosa. “Cammini con le cosce allargate, per quanto ti fai sbattere. E vieni a dare a me della troia?”
Si voltò verso le altre due, per rendere più chiaro il concetto. “Mi avete rotto i coglioni, tutte quante. Spero che sia l’ultima volta che lo ripeto. Occupatevi dei cazzi vostri
Erano
invidiose. Invidiose perché appariva sempre in compagnia di Gojyo, o di Goku, o di Hakkai. Porca miseria, ma si poteva essere più idioti? Che cazzo c’era da invidiare? Lei stessa si faceva schifo. La sua vita le faceva schifo.
Akami sbuffò teatralmente. Si tirò un po’ indietro, oltre la fila degli armadietti, e si chinò contro il muro. Shinobu vide che aveva afferrato il manico di legno di una ramazza. Senza alcun preavviso, si avvicinò, tirò indietro le braccia e fece per colpirla alla testa, ma Shinobu evitò il colpo scartando indietro. Sfortunatamente si sentì bloccare le spalle da una delle altre. Il secondo colpo non andò a vuoto, e la colpì subito sopra l’orecchio destro. Il dolore fu atroce, e sentì che iniziava già a zampillare sangue. E ne sarebbe presto arrivato un altro. Si chiese, in uno sprazzo di lucidità tra il dolore e la confusione per la botta, fin dove si sarebbero spinte. Non potevano ammazzarla. Ma avrebbero potuto conciarla per le feste con il bastone e dichiarare che era scivolata dalla rampa di scale.
Shinobu, divincolandosi con tutte le sue forze, si liberò della presa, assestando due violente gomitate in rapida successione al mento di quella che la bloccava, fortunatamente più alta di lei. Chinò la testa, e si lanciò contro Akami, che aveva nuovamente brandito il bastone, colpendola allo stomaco. Il dolore alla testa peggiorò di colpo, ma riuscì ugualmente a prenderle il bastone prima che potessero farlo Akami o la terza, impicciata da qualche chilo di carne più del necessario. Lo impugnò saldamente e, senza neanche voltarsi, lo mulinò all’indietro. La colpì sulla clavicola.
In quel momento la porta dello spogliatoio si aprì di scatto, colpendo la ragazza che ne stava a guardia. Shinobu si chiese confusamente se fosse un professore o altre ragazze pronte a dar manforte a quelle che l’avevano aggredita. Niente di tutto questo: ne entrò Ryuho Gojuin.
Gojuin era un albino, e se ne vedevano veramente pochi in giro: i capelli erano eccezionalmente chiari, e gli occhi rossicci, rari anche per uno come lui. Il loro colore poteva suggerire uno sguardo caldo, ma nulla di più lontano dal vero: erano glaciali. Era stata la prima cosa che aveva notato quando l’aveva visto.
Akami e le altre due che l’avevano aggredita, furenti e doloranti, urtarono entrambi, fuggendo su per la rampa di scale insieme alla quarta che sorvegliava la porta. Le loro voci, infastidite e furenti, continuarono a riecheggiare mentre attraversavano la palestra vuota.
Shinobu si accasciò al suolo, ansante, appoggiandosi alla fila di armadietti in metallo. Finalmente si concesse il lusso di massaggiarsi la ferita, da cui scaturiva un fiotto di sangue che scorreva lungo i capelli e le si infilava nel colletto, lungo il collo. Non era molto, ma era costante. Sperò di non aver bisogno di punti di sutura.
“Buongiorno, Gojuin”, lo salutò, massaggiandosi le tempie che ancora pulsavano. “Qual buon vento?”
“Ori…Mi era parso di sentire delle voci provenire dalla palestra”. Porse la mano, inizialmente incerta, verso la ragazza. “A quest’ora non dovrebbe esserci nessuno, quindi pensavo ad esterni…”
Gojuin era un ragazzo che frequentava il terzo anno. Non era uno studente particolarmente problematico, o meglio, nessuno aveva mai avuto da ridire sul suo comportamento, ma il suo sguardo vuoto e gelido e i suoi modi di fare freddi lo rendevano inavvicinabile a chiunque, professori, ragazzi e ragazze, che pure ammiravano il suo bell’aspetto: era infatti molto alto, un po’ più di Gojyo, aveva un bel fisico, un bel viso, e i suoi colori avevano un che di affascinante.
“Il tuo arrivo è stato provvidenziale”. Shinobu accettò la mano che lui le porgeva, tirandosi su appigliata alla sua stretta robusta. “Non so come sarebbe andata a finire”
“Per quel che ho visto, non te la stavi cavando male”
Shinobu rise, sorpresa, costringendosi a smettere quando sentì la testa rintronarle come un tamburo. Ryuho Gojuin era estremamente freddo e cortese, e non si aspettava una simile frase da parte sua. Si chinò a raccogliere il bastone, ed ebbe un leggero capogiro. Passò subito.
“Per favore, non riferire a nessuno quel che hai visto oggi. Non voglio inutili chiacchiere né confronti in presidenza”, gli chiese, riappoggiando il bastone al muro. Si chinò a raccogliere le sue cose. L’orologio non c’era, ma pazienza.
“Come vuoi”
“Grazie per l’involontaria intromissione, in ogni caso”
La conversazione, dopo quell’inizio incoraggiante, aveva
assunto il solito tono orribilmente formale. Shinobu si passò una mano tra i capelli per sistemarli alla meno peggio – somigliava molto ad una valchiria, in quel momento-, e fece una smorfia schifata quando li sentì appiccicosi di sangue.
“Di nulla. Ti accompagno in infermeria?”, si propose l’altro.
Shinobu scosse la testa. “No, grazie. Sto bene. Sono solo un po’ rintronata dalla botta alla testa, ma passerà”
Gojuin si strinse lievemente nelle spalle, quindi, inaspettatamente, le si avvicinò.
“Credo abbia smesso di sanguinare”, commentò studiandole la ferita. “Non è profonda”
Shinobu sorrise. “Meno male. Grazie”. Il respiro iniziava appena a regolarizzarsi. “E’ meglio che vada a casa, prima che succeda qualcos’altro”
Gojuin annuì compostamente, precedendola. “Arrivederci, Ori”
La ragazza sorrise tra sé e sé
. Si chiese se l’avesse riconosciuta, se ricordasse quell’episodio accaduto due anni prima. Non vi aveva mai fatto cenno, quelle poche volte che avevano conversato brevemente. Non le dispiaceva, Gojuin, chissà poi perché. Non amava eccessivamente i tipi freddi e scontrosi.
In ogni caso, non era quello momento per pensieri simili. Doveva andare a casa di qualcuno a medicarsi, non poteva di certo rientrare a casa in quello stato.
Andare da chi? Goku? No…
Era davvero strano: per quanto lo conoscesse da quasi due anni, non aveva la minima idea di dove abitasse né sapeva nulla della sua famiglia: una volta che gli aveva chiesto qualcosa, lui aveva assunto uno sguardo così abbattuto che non aveva osato aggiungere altro
.
E, se era per quello, non sapeva nulla nemmeno della famiglia di Gojyo, ne tanto meno di quella di Hakkai, che vivevano da soli. In effetti…erano tutte persone alquanto schive, sebbene non lo mostrassero in apparenza. Hakkai era cortese fino all’inverosimile, Goku appariva decisamente estroverso, quanto a Gojyo…Beh. Gojyo era uno spudorato dongiovanni.
Sarebbe andata da Hakkai. Probabilmente stava già studiando, ma poteva anche permettersi di disturbarlo.


Hakkai e le sue depressioni.
Direttamente proporzionali ai suoi sorrisi di cortesia.
Se qualcuno l’avesse visto in quel momento, probabilmente avrebbe stentato a riconoscervi l’Hakkai con la cravatta della divisa scolastica impeccabilmente annodata: steso sul divano con un braccio di traverso a proteggergli gli occhi dalla luce del lampadario, in preda a un mal di testa fastidioso che non aveva l’aria di voler tornare sui propri passi. Aveva iniziato a piovere, naturalmente, giusto perché il ticchettare delle gocce sui vetri potesse vezzeggiare calorosamente il pulsare sordo che provava alle tempie.
Sospirò, catalogando mentalmente il suo armadietto dei medicinali nella speranza di riscontrarvi un analgesico, che sicuramente gli avrebbe causato sonnolenza; e, tra quella e il mal di testa, non riusciva a decidere quale fosse il male peggiore.
Temeva, in realtà, che l’umidità di quei giorni fosse solo una delle cause del suddetto mal di testa; e che, piuttosto, ne fosse complice il peggioramento della sua insonnia, ora non più dovuta esclusivamente a sogni di un passato non troppo passato –ma molto reale-, ma anche a ossessive immagini che immancabilmente si dileguavano dalla sua memoria non appena apriva gli occhi. Volti, situazioni e voci che si ripetevano insopportabilmente, che gli martellavano un messaggio nelle tempie, come il sonno disturbato di chi è in preda alla febbre e non riesce a liberarsene. Sette volte, aveva contato, si erano verificati sogni di quel tipo, e tutti nelle ultime due settimane. Nulla da fare, per ricordare qualcosa. E i sogni lo lasciavano con una sensazione angosciante al petto.
Ma, almeno a quella, era abituato.
Si alzò, faticosamente, e si diresse verso la finestra; al passaggio, chiuse i libri di scuola: almeno per quel pomeriggio, di studiare non se ne parlava. Il martellare sul vetro si era fatto insopportabile, e decise di aprire la finestra: forse alla sua salute non avrebbe giovato, ma probabilmente al suo umore sì.
Aveva appena schiuso i vetri e assaporato le prime gocce di pioggia sul viso, che, ironicamente, un altro martellare alle tempie gli causò l’esplosione di piccoli lumini gialli dietro le palpebre: era il campanello. Hakkai lasciò la finestra aperta, sempre più persuaso ad assumere quell’analgesico che adesso gli faceva più gola che mai. Si ripromise di farlo dopo aver aperto la porta.
La vista di Shinobu oltre la soglia gli suggerì che avrebbe avuto bisogno dell’intera cassetta del pronto soccorso.


“Oh, non dovevi disturbarti a mettere il tè sul fuoco…non mi tratterrò tanto”
Hakkai richiuse la cassetta del pronto soccorso. Il suo analgesico aveva già iniziato a fare effetto, e la ferita di Shinobu l’aveva sistemata alla bell’e meglio. Non era profonda, fortunatamente.
Non mi disturbi affatto, e in realtà mi piacerebbe sapere che cosa ti è successo. E inoltre ti conviene smacchiare il colletto della camicia, o a tua madre prenderà un colpo”
“Hai ragione come sempre”, annuì lei. Hakkai notò che, per quanto si muovesse vivacemente, la sua voce ogni tanto era percorsa da un lieve tremore. Shinobu sedette sul divano, si slacciò tre bottoni sotto il collo, e si sfilò la camicia della divisa scolastica.
Hakkai, con un leggero sospiro, decise di andare a controllare anticipatamente l’acqua per il tè.
“Non vorrei assumere la parte del morigerato nonnino d’altri tempi”, disse
dalla cucina. “Ma non dovresti spogliarti così facilmente”
La sentì ridacchiare, probabilmente dal bagno
. Iniziò lo scroscio dell’acqua. “Non sei mica Gojyo. L’ultima persona da cui mi aspetterei un guizzo di malizia sei tu”
Hakkai sorrise mestamente al bollitore
.
“L’acqua è abbastanza calda”, annunciò, spegnendo il gas. “Sei riuscita a togliere il sangue dal colletto?”
“Quasi tutto”, rispose lei, e il ragazzo sentì l’acqua del lavandino smettere di scorrere.
Meno di un minuto dopo, erano entrambi seduti al tavolino del soggiorno, i libri di scuola accatastati in un angolo. Hakkai versò il tè in due tazze.
“Allora”, fece
portandosi la sua alle labbra. Dopo l’analgesico, era un vero toccasana per il suo mal di testa. “Adesso mi spieghi cos’è successo? Anzi, chi è stato?”
La ragazza posò la tazza sul tavolo dopo averla appena piluccata. Aggrottò le sopracciglia, come per minimizzare. “Niente di nuovo, Hakkai. Ho avuto uno scambio di vedute piuttosto vivace con alcune ragazze della scuola”
Sospiro di Hakkai. “Di nuovo Ikinose? O Maki?”
“Altre”, rispose Shinobu, prendendo la tazza tra le mani, cambiando idea a mezza strada e riappoggiandola sul ripiano in legno. La spinse verso il centro del tavolo. “Non ho iniziato io, sia chiaro”
“Non volevo accusarti”, si giustificò il ragazzo, deponendo anche lui la sua tazza di tè. Shinobu non ci avrebbe mai fatto caso, ma gli sembrò indelicato continuare a bere in un momento del genere. “Se dovesse servirti una mano…”, continuò, ma si interruppe quasi subito. Non c’era modo di aiutarla a risolvere quel tipo di problemi, e lei un aiuto di quel genere non l’avrebbe mai accettato.
“Hakkai”, mormorò lei con un sorriso triste. “Mi hai già dato tutto l’aiuto che potessi darmi: non volevo tornare a casa in quello stato. Per il resto…be’, non te la prendere, ma non credo che tu, o qualcun altro, possiate aiutarmi con questo genere di problemi”
Il ragazzo aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, ma Shinobu lo anticipò con un gesto della mano. “E adesso…scusami…ma ho idea che farò qualcosa di molto stupido”. Appoggiò il gomito al tavolo, e nascose il viso dietro la mano. Hakkai fissò lo sguardo sulla finestra ancora aperta, lasciando che si sfogasse.


“Ehi, Sagojyo!”. Il capo, un uomo piuttosto in carne, con le mani e la tuta blu perennemente sporche di olio nero, lo chiamò mettendo fuori la testa da sotto la macchina, una Subaru Impreza nera che aveva visto già qualche primavera.
Gojyo non lo sentì, in un primo momento. Si era preso due minuti di pausa non annunciata, e ne stava approfittando per fumare al davanzale, osservando le strade affollate oltre la finestra.
Luci di fari che si confondevano, rumori che alle sue orecchie apparivano indistinti.
Un po’ come il mondo. Un mondo che, al di fuori di se stesso, gli appariva distorto, confuso. Non aveva colori, non aveva suoni. Solo una massa informe di percezioni.
Quella pioggia che vedeva scorrere davanti a sé assumeva la forma di sbarre, che lo imprigionavano nella vita*.
Mph, dovrei fare il poeta, cazzo.
La cenere cadde dalla sigaretta.
“Gojyo?”
Al secondo appello, il ragazzo si riscosse
. Dormiva un po’ male, ultimamente. Il suo sonno era sempre stato più che soddisfacente, ma da un paio di settimane aveva la sensazione di sognare qualcosa di poco piacevole, che al risveglio non riusciva a richiamare alla memoria. E si ritrovava, durante il giorno, a cercare di ricordare ciò che la sveglia gli portava via.
“Dimmi, ojisan**.”, rispose facendo saltar via ciò che restava della sigaretta oltre il davanzale.
“Ti ho detto di passarmi quella chiave inglese!”, sbraitò l’altro, spazientito.
Il rosso sospirò e si avviò al bancone per prendere ciò che gli era stato richiesto.
Che c’è, Akage***, problemi di donne?”, gli chiese l’uomo sarcasticamente prendendogli dalle mani l’arnese metallico. “Dillo allo zio, cosa affligge i tuoi ormoni adolescenziali?”
“Ma
quali donne!”, rispose Gojyo, stizzito. Che gliene importava, a quel vecchio? I soliti buoni propositi ipocriti. La gente vuole farsi i cazzi tuoi per mostrarsi buona, brava e compassionevole, ma non appena ti serve una mano, scompare misteriosamente. E lui era sempre stato abituato a cavarsela da solo, fin da quando era piccolo.
Si portò le mani alla testa e si rifece il codino, che si era sciolto scivolato. Gli piacevano i propri capelli, erano di un rosso acceso e lunghi fino al mento. Guardò l’orologio: le nove meno un quarto; un quarto d’ora di lavoro, e il suo unico pensiero sarebbe stato come trascorrere la serata.
A casa a dormire, vista la serata. Con questa pioggia il mondo sembra schifosamente più nitido. E più orribile, di conseguenza.
Il turno di lavoro finì senza grandi emozioni, poco meno di quindici minuti dopo; Gojyo salutò il capo e si gettò la giacca su una spalla, uscendo dall’officina per prendere la moto.
Cazzo! Ma tu vedi che tempo di merda e siamo ad aprile!”


Tsk! Ci mancava solo che si mettesse a piovere!
Sanzo calciò la prima cosa che si trovò sottopiede, una confezione di cartone che in una vita precedente aveva probabilmente contenuto qualche schifido intruglio da fast food. Aveva l’insana abitudine di sfogare la sua rabbia contro gli oggetti più impensati, ma se riusciva a dirigerla verso un oggetto senziente, magari ben disposto a contraccambiare, ci trovava più soddisfazione. Lo stronzo con i capelli tinti di rosso, quella mattina, era stato un osso duro, decisamente.
Camminava sotto la pioggia, i capelli biondi già completamente bagnati.
Tutto va storto. Tutto, tutto.
Scosse la testa, schioccando la lingua sul palato anche se nessuno l’avrebbe sentito.
Che diavolo ci faceva lì? In che cazzo di mondo era capitato?
Incubi lo perseguitavano da quando si era trasferito in quella città: incubi che riguardavano qualcuno dagli occhi dorati di cui non ricordava nemmeno il nome.
E…una voce che lo chiamava.
Liberami…fammi esistere!
Stronzate. Stronzate su stronzate.
Anche appurato che quella voce esistesse realmente, lui viveva solo per se stesso.
Erano solo stupidi incubi dovuti al suo malumore che, sebbene costante, era sensibilmente peggiorato negli ultimi tempi.
Sogni e voci. Una meraviglia.
Oh, senza dimenticare quella dannata pioggia.
Lo faceva soffocare, lo opprimeva.
I fari delle auto, dei lampioni e delle insegne si riflettevano sulle gocce di pioggia che cadevano fitte, assumendo così quasi una consistenza corporea. Formavano quasi una cappa.
E lui…l’unica cosa che voleva, in queste giornate, era affondare la testa sotto un cuscino e rialzarla solo la mattina dopo. Ma nemmeno questo gli era permesso, a causa degli incubi ricorrenti.
Si era trasferito nella caotica Tokyo appena due settimane prima, con la speranza di riuscire a mantenersi da solo, almeno lì, e di vivere alla giornata.
Ma ci aveva rimesso la propria tranquillità e i propri sogni, in quella città infernale.
Ascoltami. Ti sto aspettando.
Alzò la testa di scatto: la voce dei suoi incubi lo perseguitava anche quando era sveglio?
“Mi sto bevendo il cervello…”, sussurrò amaramente, sogghignando.
Non fare finta di non sentirmi. Per favore, vieni!
Sanzo si guardò intorno: la gente gli passava accanto, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo.
Gente troppo indaffarata dalla propria vita e dai propri problemi per soffermarsi sugli altri.
Ma lui aveva imparato a cavarsela da solo.
Non aveva bisogno di nessuno.
Ho bisogno di te…Ti chiamerò ancora, e ancora. Vieni…
Basta…basta!,
concluse il ragazzo affrettando il passo per allontanarsi da tutta quella folla per strada, che lo rendeva nervoso.
Imboccò, senza neanche accorgersene, un vicolo quasi avvolto nell’oscurità. Solo la luce fioca di un lampione che a malapena funzionava illuminava un po’ quella stradina deserta.
Sanzo affrettò ancora di più il passo. Si ritrovò a correre.
Improvvisamente, incespicò in qualcosa, cadendo sul selciato.
“Ahi!”, si lamentò una voce nel buio.
Sanzo si volse.
Si ritrovò faccia a faccia con un ragazzino che stava accoccolato per terra, sferzato dalla pioggia, completamente zuppo. Chissà da quanto tempo era lì seduto.
Gli occhi ametista di Sanzo si incontrarono con quelli del ragazzo, che tra l’altro era sicuro di aver già visto a scuola.
Occhi dorati.
“Tu…maledetto!”


Continua…
[leggermente riveduta e corretta in data 18/97/09]

*: Capelli rossi
**. ‘Zio
***. Baudelaire, ovviamente xD

 

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Saiyuki / Vai alla pagina dell'autore: IShallWearMidnight