Jarva rimase ancora qualche
istante a parlare con Morgan del caso. La vicinanza del ragazzo sembrava
ancorarlo più saldamente alla realtà e dargli sollievo dalla strana sensazione
provata poco prima.
Era ormai buio
quando l’albino chiuse la porta dello studio con un sospiro.
I corridoi dell’università
erano deserti. Rumore di passi proveniva da una zona in ombra poco distante,
oltre un angolo.
Morgan intrecciò le dita
dietro la schiena e stese le braccia, stirandosi come un gatto. Dietro di lui,
Jarva guardò brevemente fuori dalla grande finestra
rivolta verso il parco. Gli alberi erano avvolti da una dolce oscurità,
illuminata, all’orizzonte, dalle luci arancioni e
dorate di Londra.
Le giornate si stanno allungando, dovrei iniziare a
fare attenzione, si disse
osservandosi le mani candide.
La voce di Morgan ruppe il
silenzio.
“Sei sicuro di stare bene?”
chiese un’ennesima volta. Jarva chiuse gli occhi e sbuffò leggermente.
“Se ti ho detto di sì ogni
due minuti nell’ultima mezz’ora forse è perché davvero è tutto a posto, non trovi?” rispose in tono più acido del
solito.
Morgan non si scompose.
“Dico sul serio: sembri
molto scosso. La signora…”
“La signora Adele è una
delle persone meno inquietanti che abbia mai conosciuto, quindi, per l’ultima
volta, smettila di farmi questo tipo di domande!”
“Scusa, è solo che… ecco,
non è che forse ultimamente ti stai concentrando troppo sul lavoro? Hai lo
sguardo stanco…”
Jarva abbozzò un sorriso
freddo.
“Ho gli occhi che si
stancano facilmente. Un altro difetto di fabbricazione, non posso farci nulla”.
S’incamminarono in silenzio.
“… Comunque secondo me lavori troppo”, ripeté Morgan imbronciandosi.
L’albino sollevò gli occhi
al cielo. Gli veniva da ridere, ma non rispose nulla.
“Senti”, disse Morgan
all’improvviso, fermandosi a pochi metri dall’uscita. “Hai programmi per
stasera? Potremmo uscire a bere qualcosa!”
“Come, scusa?”
“Dai, pensaci un attimo: sei
qui da tempo ormai, dovresti esserti fatto degli amici… Io invece sospetto che
tu non abbia mai messo il naso fuori casa se non per venire a lavorare. Ho
ragione?”
“Non sono affari tuoi”
rispose bruscamente Jarva. Troppo bruscamente: dal suo tono trapelò un’amarezza
che non avrebbe mai ammesso di provare.
Morgan sorrise.
“Credo di aver indovinato…
Cosa ti costa? Usciamo, ci facciamo due chiacchiere, un paio di birre e…”
Tacque all’improvviso,
abbassando lo sguardo.
Jarva lo osservò a lungo.
“Perché vuoi essermi amico?”
chiese sottovoce.
Morgan rialzò il viso, e
l’albino si sentì trapassato da quegli occhi così limpidi. Deglutì e cercò di
sostenerne lo sguardo, fallendo.
“Mi sembra un peccato che
una persona interessante come te sia sempre da sola…”
Jarva ghignò a quell’affermazione.
“Quindi per pietà?”
Morgan avvampò; sul viso
lentigginoso passò un’espressione ferita.
“No! No, assolutamente…
Ecco, in realtà è perché qualcosa, in te, mi ricorda me stesso; non mi è facile
trovare qualcuno che sia capace di comunicarmi qualcosa, mentre tu… sei
diverso”.
Il rossore delle guance si
fece più intenso.
“Comunque non importa”,
riprese Morgan in tono più burbero. “Sarai stanco, non fa niente”.
Si sistemò la borsa a
tracolla e marciò verso la porta.
Jarva rimase come inebetito
a fissarlo.
Nella testa gli ronzavano
mille interrogativi.
Cosa vuole quel ragazzino da me? Non starà forse
mentendo? Crede di potermi usare in qualche modo?
Stringendo le palpebre,
Taneli cancellò in un istante tutti quei quesiti.
Osservò per qualche istante i capelli neri di Morgan che danzavano sulle sue
spalle ad ogni passo… gli si scaldò il cuore.
“Alle nove può andare?”
gridò, sorpreso da se stesso.
Morgan si voltò; il suo viso
non cercava nemmeno di celare una repentina espressione di gioioso stupore.
Sembrava risplendere.
“Alle… nove? Qui? Poi ti
porto in un posto dove fanno della birra che… vedrai, vedrai!”
Lo salutò con un gesto della
mano e un sorriso radioso; quindi sparì oltre la porta.
Jarva rimase in piedi in
mezzo al corridoio, sentendosi vagamente stupido e parecchio soddisfatto, se
non quasi felice.
Si erano incontrati alle
nove e mezza –il ritardo era scontato- davanti all’università; Morgan era
arrivato su una vecchia macchina nera, coperta di ammaccature e graffi.
“Un’auto vissuta”, aveva
detto il giovane quando Jarva, sedendosi, si era
lamentato di una molla che sbucava dal sedile e puntava dritta verso una zona
anche troppo sensibile.
Morgan guidava come un
pazzo.
“Mi faresti diventare tutti
i capelli bianchi, se non lo fossero già”, aveva scherzato Jarva aggrappandosi
alla maniglia di sicurezza e sforzandosi di far conversazione tra un sorpasso
azzardato e una curva fatta col freno a mano tirato.
Alla fine, dopo qualche
decina di minuti incredibilmente rischiosi, avevano raggiunto la periferia di
Londra. Qui, tra capannoni in disuso e case popolari, lampeggiava incerta
l’insegna al neon di un pub che doveva aver visto giorni migliori.
Una volta
entrati, Jarva si trovò a
considerare che il locale era perfettamente intonato con la figura di Morgan.
Era piccolo e abbastanza
buio, con le pareti sovraccariche di quadri e foto di ogni tipo… addirittura un
settore di muro era dedicato ai pensieri dei clienti, scritti con mille
calligrafie diverse sull’intonaco bianco. Nonostante il caos che sembrava
regnare sovrano, però, l’atmosfera era calda ed accogliente, la birra ottima.
Dopo pochi istanti fu chiaro
che Morgan era un cliente affezionato: tutti lo
salutavano, tutti lo conoscevano.
Per qualche minuto Jarva si
sentì di troppo, mentre il suo compagno era impegnato in un’accesa discussione
con due giovani vestiti totalmente di nero, con giacche di pelle lunghe a
sfiorare il pavimento. Sembravano un po’su di giri, ma nessuno dei due diede
segno di trovare l’aspetto dell’albino particolarmente sconvolgente. Certamente
non era più insolito di quello dei ragazzi dai capelli multicolori, dal visi incipriati come attori del Settecento o dalle carni
perforate da barre di metallo o dipinte da enormi tatuaggi.
“Che posto… caratteristico”,
disse Jarva accendendosi una sigaretta.
“Per me è come una seconda
casa; ci vengo da quando avevo sedici anni, e qui
nessuno mi ha mai giudicato sbagliato. Questi”, aggiunse, indicando con un
ampio gesto la folla bizzarra, “sono i miei fratelli e le mie sorelle”.
“Sono colpito”, considerò
Jarva sollevando un sopracciglio. Aspirò una boccata di fumo e rimase in
silenzio.
Dopo poco Morgan si sporse
verso di lui.
“Mi sa che hai fatto colpo”,
sussurrò con un sorriso complice indicando con la testa un punto imprecisato.
Jarva si voltò cautamente.
Due ragazzine a stento
maggiorenni, strette in abiti decisamente troppo succinti, confabulavano con le
teste vicine, lanciando all’albino sguardi di palese
approvazione.
Una delle due tentò un
ammiccamento; Jarva lo ignorò deliberatamente e tornò a voltar loro le spalle.
“Pessime. A parte che se ci
provassi probabilmente finirei in galera, decisamente non sono il tipo di
persona che mi interessa”.
Morgan si oscurò un poco ma continuò a sorridere.
“Ah no? E che tipo di
ragazza preferisci?”
Jarva lo fissò negli occhi,
quasi con sfida.
“Ho forse specificato il
sesso?”
Calò il gelo.
“In effetti… no”, balbettò
Morgan; nella penombra le guance gli cambiarono colore, virando verso il porpora.
Jarva spense la sigaretta
nel rozzo posacenere e sorseggiò la sua birra scura; si passò la lingua sulle
labbra per pulirle dalla schiuma e proseguì.
“Sono sempre stato così, che
io ricordi. Non esistono uomini o donne, esistono solo
persone interessanti, dotate di fascino e carisma e -perché no- di un aspetto
gradevole… e persone insulse sotto tutti i punti di vista. Mi risulta molto più
semplice pensarla così piuttosto che in termini di ‘orientamento sessuale’”.
Morgan era allibito.
“Quindi tu… anche tu…”
“Se mi fai passare per
checca isterica ti tiro il posacenere”.
“No, no
figurati, no!” biascicò l’altro, a disagio. “Però me lo sentivo, in qualche
modo, che tu eri…”
“Mi trovi effeminato?”
domandò con glaciale cordialità Jarva.
“No! Insomma, la smetti?
Stavo dicendo… quando ti ho detto che in te rivedevo
me stesso forse era anche per questo…”
“Quindi sei gay?” chiese, spietato, l’albino.
Morgan era prossimo al
panico. Bevve un sorso di birra… un altro… solo dopo aver svuotato il boccale riprese a parlare.
“Non sono gay. Non tanto,
almeno. ‘Indeciso’ sarebbe un termine calzante, credo;
la maggior parte della gente preferisce l’etichetta di ‘bisessuale’, ma è un
po’restrittivo, non trovi?”
Jarva annuì.
“So cosa provi. Lo so
perfettamente, Morgan…”
La cameriera arrivò con
altra birra.
“Come fai ad accettarlo così
pacatamente?” chiese Morgan.
Jarva fece spallucce.
“Cosa dovrei fare? Dannarmi
l’anima per essere diverso? Sarebbe come cercare di non essere albino. Posso
tingermi i capelli, mettermi delle lenti colorate, ma il sole continuerà a
bruciarmi la pelle… Mi accetto come sono. Nella mia condizione, anche fisica, è
l’unico modo per sopravvivere a se stessi”.
“Ti ammiro molto”, disse
sinceramente Morgan. Era già a metà del secondo boccale da litro di birra.
“Dico davvero. Sei in gamba”.
“Anche tu sei meno peggio di quanto credessi”, rispose con un sogghigno
Jarva.
La birra continuò a scorrere
con troppa facilità nelle gole. Morgan reggeva discretamente l’alcol, ma Jarva era un bevitore da competizione. Dopo un
paio d’ore era passato al whisky, trangugiandone un bicchiere dietro l’altro,
come se non ci fosse un domani.
Verso mezzanotte Morgan era
visibilmente alticcio; Jarva aveva la vista annebbiata, ma il contegno era
sempre lo stesso. L’alcol rendeva più sciolta la parlata e più labili le
inibizioni, mentre il locale si faceva più silenzioso.
“Tutti. Conosco tutti, qui
dentro” disse Morgan agitando un braccio e colpendo un innocente passante. “Il
barman, per esempio. Ha dei traffici loschi che…”
“Non credo di volerlo
sapere”, lo interruppe Jarva con una mezza risata. “Quando bevo mi dimentico
che certe cose non dovrei saperle!”
Morgan rise apertamente.
Allungò una mano sul tavolo e, per caso, sfiorò le dita di Jarva.
Ci fu un attimo di imbarazzo
incredibilmente vivido.
Morgan si azzittì di colpo.
Aveva gli occhi lucidi e le labbra socchiuse, e il cuore di Jarva ebbe un
sussulto. Sotto la crosta di ghiaccio che era il suo corpo candido si accese
qualcosa.
L’albino deglutì, ma non
spostò la mano. Forse avrebbe potuto…
La porta si aprì
all’ingresso di due nuovi clienti, e in quel momento la tensione si spezzò.
Jarva si voltò di scatto,
richiamato da una strana sensazione, come se una nota stridente si fosse
intromessa nell’armonia di un brano.
Morgan tossicchiò e si
sistemò meglio sulla sedia, fingendo indifferenza, ma
Jarva aguzzò la vista.
Sì, erano entrate due
persone. Un uomo e una donna. Nella penombra erano stranamente nitidi se
confrontati alle sagome scure degli altri avventori.
Jarva si sporse di più,
stringendo le palpebre.
Sembravano giovani, e
indubbiamente erano molto belli. L’uomo era piuttosto alto, dalle spalle larghe
e dalla corporatura atletica; i capelli scuri e mossi ricadevano a sfiorare la
fronte, di un pallore quasi splendente. Sorrideva, ma gli occhi erano freddi.
Gli occhi…
Jarva li osservò più
attentamente. Neri, dalle ciglia folte, penetranti…
L’uomo si voltò verso di lui
e lo guardò intensamente. Sembrava irriderlo.
Sorpreso di vedermi, dottor Jarva?
L’albino trasalì. Lo aveva
solo immaginato, oppure…?
Divertito, il misterioso
individuo si chinò verso la compagna. Non aprì bocca, ma
Jarva fu convinto che le avesse detto qualcosa, perché quando questa si voltò
si mise a ridere.
E Jarva sentì una goccia di
sudore gelato scorrergli per la schiena.
Quei capelli scuri, la
carnagione dorata, la risata a bocca chiusa…
La donna dell’aereo. La donna del racconto della
signora Watson.
L’albino sentì il cuore
balzargli fino in gola; gli tremavano le mani.
Non può essere la stessa persona, non ci credo! E quell’uomo… anche lui conosce il mio nome! Perché? Perché?
“Jarva…” chiamò incerto
Morgan. L’albino sembrò non sentirlo.
Scosso da brividi incontrollabili
fissò per un istante il compagno.
“Guardali, Morgan! Guardali,
e dimmi cosa vedi!”
“Eh?”
Jarva osservò di nuovo la
coppia. Si tenevano per mano come due mortali, ma i loro passi sembravano
fermarsi a qualche millimetro dalla superficie del pavimento. L’uomo aveva
un’espressione ardente e appassionata che strideva con il viso levigato, mentre
la donna sembrava scrutare nel cuore di Jarva come se ne traesse un sadico
divertimento. Alla fine annuì, stringendo la mano del compagno.
“Jarva, cosa dovrei vedere?”
chiese Morgan tirando la manica dell’albino.
“Loro!” gridò questi, alzandosi
in piedi e indicando un angolo vuoto.
“Loro chi?”
Jarva si voltò.
I due esseri erano spariti.
La sala iniziò a vorticargli
attorno.
“Erano lì, Morgan. Erano lì,
li ho visti… non sono come te e me, non camminano come noi e… conoscono il mio
nome!”
Stava alzando la voce e
gesticolava convulsamente. Morgan lo guardò sconcertato.
“Jarva, calmati, ti prego…
di chi stai parlando?”
“La… la donna, la donna era
sull’aereo! E l’altro… io l’ho visto, ho visto i suoi occhi al cimitero!
Credimi, Morgan, ti prego credimi!”
Morgan si alzò. Jarva era in
preda al delirio: si agitava, respirava a fatica e aveva gli occhi iniettati di
sangue.
“Sei
ubriaco, ti porto a casa…”
“Non sono ubriaco!”
Il barista alzò la voce.
“Dicono tutti così!”
Morgan lo zittì con
un’occhiata acida.
“Dai, Jarva”, disse,
cercando di calmarlo.
“Erano… loro… non sono umani!”
“Devi venire con me ora:
coraggio, appoggiati a me…”
Gli passò un braccio sotto
le spalle e cercò di tenerlo in piedi. Pesava molto meno di quanto sembrasse.
“Jarva, ti prego, collabora:
non sono molto sobrio…”
Morgan si frugò in tasca e
lasciò una manciata di sterline sul tavolo; quindi uscì, trascinandosi dietro
l’albino delirante e prossimo alle lacrime.
Il viaggio in auto fu un
lungo incubo.
Morgan stentava a tenere in
mano il volante, e Jarva, ancora sconvolto, blaterava parole senza senso. Più
volte sembrò sul punto di vomitare, costringendo il povero guidatore a pause
repentine nelle piazzole.
Dopo quella
che parve un eternità l’attempata macchina di Morgan inchiodò davanti alla
porta dell’appartamento di Jarva. Il giovane gli sfiorò la fronte per
svegliarlo e si accorse che scottava.
“Cosa ti è successo?”
sussurrò, scuotendolo.
Jarva aprì piano gli occhi.
Non era ancora completamente lucido.
“Su, alzati… sei a casa, ora”.
Ci vollero alcuni minuti
perché Jarva riuscisse a scendere dalla macchina e trovasse le chiavi di casa.
Quando finalmente aprì la
porta fu investito dal silenzio pesante dell’edificio vuoto.
Tornò ad aver paura; ancora
appoggiato allo stipite si voltò verso Morgan… lo vide seduto sul cofano, con
la testa tra le mani.
Così vero. Così
rassicurante.
“Morgan…”
Il giovane alzò lo sguardo.
“Non voglio rimanere solo
stanotte…”
L’albino tenne la porta
aperta; lentamente, Morgan gli si fece incontro. Jarva ne percepì il profumo e
il tepore; girò due volte la chiave nella toppa, quindi si apprestò a seguirlo
su per le scale.