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Autore: Valpur    25/03/2008    5 recensioni
Lui è il Grande Nord. È neve e ghiaccio, è terra sterile priva di luce e colori come la sua Finlandia quando cala il sole.
Ma il suo sangue è caldo, la sua mente troppo vivace...
Jarva si fa troppe domande: nei luoghi più bui di Londra non troverà le risposte che cerca, ma solo la seduzione della paura.
[Ultimo capitolo online.]
Genere: Thriller, Sovrannaturale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti
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Jarva rimase ancora qualche istante a parlare con Morgan del caso

 

Jarva rimase ancora qualche istante a parlare con Morgan del caso. La vicinanza del ragazzo sembrava ancorarlo più saldamente alla realtà e dargli sollievo dalla strana sensazione provata poco prima.

Era ormai buio quando l’albino chiuse la porta dello studio con un sospiro.

I corridoi dell’università erano deserti. Rumore di passi proveniva da una zona in ombra poco distante, oltre un angolo.

Morgan intrecciò le dita dietro la schiena e stese le braccia, stirandosi come un gatto. Dietro di lui, Jarva guardò brevemente fuori dalla grande finestra rivolta verso il parco. Gli alberi erano avvolti da una dolce oscurità, illuminata, all’orizzonte, dalle luci arancioni e dorate di Londra.

Le giornate si stanno allungando, dovrei iniziare a fare attenzione, si disse osservandosi le mani candide.

La voce di Morgan ruppe il silenzio.

“Sei sicuro di stare bene?” chiese un’ennesima volta. Jarva chiuse gli occhi e sbuffò leggermente.

“Se ti ho detto di sì ogni due minuti nell’ultima mezz’ora forse è perché davvero è tutto a posto, non trovi?” rispose in tono più acido del solito.

Morgan non si scompose.

“Dico sul serio: sembri molto scosso. La signora…”

“La signora Adele è una delle persone meno inquietanti che abbia mai conosciuto, quindi, per l’ultima volta, smettila di farmi questo tipo di domande!”

“Scusa, è solo che… ecco, non è che forse ultimamente ti stai concentrando troppo sul lavoro? Hai lo sguardo stanco…”

Jarva abbozzò un sorriso freddo.

“Ho gli occhi che si stancano facilmente. Un altro difetto di fabbricazione, non posso farci nulla”.

S’incamminarono in silenzio.

“… Comunque secondo me lavori troppo”, ripeté Morgan imbronciandosi.

L’albino sollevò gli occhi al cielo. Gli veniva da ridere, ma non rispose nulla.

“Senti”, disse Morgan all’improvviso, fermandosi a pochi metri dall’uscita. “Hai programmi per stasera? Potremmo uscire a bere qualcosa!”

“Come, scusa?”

“Dai, pensaci un attimo: sei qui da tempo ormai, dovresti esserti fatto degli amici… Io invece sospetto che tu non abbia mai messo il naso fuori casa se non per venire a lavorare. Ho ragione?”

“Non sono affari tuoi” rispose bruscamente Jarva. Troppo bruscamente: dal suo tono trapelò un’amarezza che non avrebbe mai ammesso di provare.

Morgan sorrise.

“Credo di aver indovinato… Cosa ti costa? Usciamo, ci facciamo due chiacchiere, un paio di birre e…”

Tacque all’improvviso, abbassando lo sguardo.

Jarva lo osservò a lungo.

“Perché vuoi essermi amico?” chiese sottovoce.

Morgan rialzò il viso, e l’albino si sentì trapassato da quegli occhi così limpidi. Deglutì e cercò di sostenerne lo sguardo, fallendo.

“Mi sembra un peccato che una persona interessante come te sia sempre da sola…”

Jarva ghignò a quell’affermazione.

“Quindi per pietà?”

Morgan avvampò; sul viso lentigginoso passò un’espressione ferita.

“No! No, assolutamente… Ecco, in realtà è perché qualcosa, in te, mi ricorda me stesso; non mi è facile trovare qualcuno che sia capace di comunicarmi qualcosa, mentre tu… sei diverso”.

Il rossore delle guance si fece più intenso.

“Comunque non importa”, riprese Morgan in tono più burbero. “Sarai stanco, non fa niente”.

Si sistemò la borsa a tracolla e marciò verso la porta.

Jarva rimase come inebetito a fissarlo.

Nella testa gli ronzavano mille interrogativi.

Cosa vuole quel ragazzino da me? Non starà forse mentendo? Crede di potermi usare in qualche modo?

Stringendo le palpebre, Taneli cancellò in un istante tutti quei quesiti. Osservò per qualche istante i capelli neri di Morgan che danzavano sulle sue spalle ad ogni passo… gli si scaldò il cuore.

“Alle nove può andare?” gridò, sorpreso da se stesso.

Morgan si voltò; il suo viso non cercava nemmeno di celare una repentina espressione di gioioso stupore. Sembrava risplendere.

“Alle… nove? Qui? Poi ti porto in un posto dove fanno della birra che… vedrai, vedrai!”

Lo salutò con un gesto della mano e un sorriso radioso; quindi sparì oltre la porta.

Jarva rimase in piedi in mezzo al corridoio, sentendosi vagamente stupido e parecchio soddisfatto, se non quasi felice.

 

Si erano incontrati alle nove e mezza –il ritardo era scontato- davanti all’università; Morgan era arrivato su una vecchia macchina nera, coperta di ammaccature e graffi.

“Un’auto vissuta”, aveva detto il giovane quando Jarva, sedendosi, si era lamentato di una molla che sbucava dal sedile e puntava dritta verso una zona anche troppo sensibile.

Morgan guidava come un pazzo.

“Mi faresti diventare tutti i capelli bianchi, se non lo fossero già”, aveva scherzato Jarva aggrappandosi alla maniglia di sicurezza e sforzandosi di far conversazione tra un sorpasso azzardato e una curva fatta col freno a mano tirato.

Alla fine, dopo qualche decina di minuti incredibilmente rischiosi, avevano raggiunto la periferia di Londra. Qui, tra capannoni in disuso e case popolari, lampeggiava incerta l’insegna al neon di un pub che doveva aver visto giorni migliori.

Una volta entrati, Jarva si trovò a considerare che il locale era perfettamente intonato con la figura di Morgan.

Era piccolo e abbastanza buio, con le pareti sovraccariche di quadri e foto di ogni tipo… addirittura un settore di muro era dedicato ai pensieri dei clienti, scritti con mille calligrafie diverse sull’intonaco bianco. Nonostante il caos che sembrava regnare sovrano, però, l’atmosfera era calda ed accogliente, la birra ottima.

Dopo pochi istanti fu chiaro che Morgan era un cliente affezionato: tutti lo salutavano, tutti lo conoscevano.

Per qualche minuto Jarva si sentì di troppo, mentre il suo compagno era impegnato in un’accesa discussione con due giovani vestiti totalmente di nero, con giacche di pelle lunghe a sfiorare il pavimento. Sembravano un po’su di giri, ma nessuno dei due diede segno di trovare l’aspetto dell’albino particolarmente sconvolgente. Certamente non era più insolito di quello dei ragazzi dai capelli multicolori, dal visi incipriati come attori del Settecento o dalle carni perforate da barre di metallo o dipinte da enormi tatuaggi.

“Che posto… caratteristico”, disse Jarva accendendosi una sigaretta.

“Per me è come una seconda casa; ci vengo da quando avevo sedici anni, e qui nessuno mi ha mai giudicato sbagliato. Questi”, aggiunse, indicando con un ampio gesto la folla bizzarra, “sono i miei fratelli e le mie sorelle”.

“Sono colpito”, considerò Jarva sollevando un sopracciglio. Aspirò una boccata di fumo e rimase in silenzio.

Dopo poco Morgan si sporse verso di lui.

“Mi sa che hai fatto colpo”, sussurrò con un sorriso complice indicando con la testa un punto imprecisato.

Jarva si voltò cautamente.

Due ragazzine a stento maggiorenni, strette in abiti decisamente troppo succinti, confabulavano con le teste vicine, lanciando all’albino sguardi di palese approvazione.

Una delle due tentò un ammiccamento; Jarva lo ignorò deliberatamente e tornò a voltar loro le spalle.

“Pessime. A parte che se ci provassi probabilmente finirei in galera, decisamente non sono il tipo di persona che mi interessa”.

Morgan si oscurò un poco ma continuò a sorridere.

“Ah no? E che tipo di ragazza preferisci?”

Jarva lo fissò negli occhi, quasi con sfida.

“Ho forse specificato il sesso?”

Calò il gelo.

“In effetti… no”, balbettò Morgan; nella penombra le guance gli cambiarono colore, virando verso il porpora.

Jarva spense la sigaretta nel rozzo posacenere e sorseggiò la sua birra scura; si passò la lingua sulle labbra per pulirle dalla schiuma e proseguì.

“Sono sempre stato così, che io ricordi. Non esistono uomini o donne, esistono solo persone interessanti, dotate di fascino e carisma e -perché no- di un aspetto gradevole… e persone insulse sotto tutti i punti di vista. Mi risulta molto più semplice pensarla così piuttosto che in termini di ‘orientamento sessuale’”.

Morgan era allibito.

“Quindi tu… anche tu…”

“Se mi fai passare per checca isterica ti tiro il posacenere”.

“No, no figurati, no!” biascicò l’altro, a disagio. “Però me lo sentivo, in qualche modo, che tu eri…”

“Mi trovi effeminato?” domandò con glaciale cordialità Jarva.

“No! Insomma, la smetti? Stavo dicendo… quando ti ho detto che in te rivedevo me stesso forse era anche per questo…”

“Quindi sei gay?” chiese, spietato, l’albino.

Morgan era prossimo al panico. Bevve un sorso di birra… un altro… solo dopo aver svuotato il boccale riprese a parlare.

“Non sono gay. Non tanto, almeno. ‘Indeciso’ sarebbe un termine calzante, credo; la maggior parte della gente preferisce l’etichetta di ‘bisessuale’, ma è un po’restrittivo, non trovi?”

Jarva annuì.

“So cosa provi. Lo so perfettamente, Morgan…”

La cameriera arrivò con altra birra.

“Come fai ad accettarlo così pacatamente?” chiese Morgan.

Jarva fece spallucce.

“Cosa dovrei fare? Dannarmi l’anima per essere diverso? Sarebbe come cercare di non essere albino. Posso tingermi i capelli, mettermi delle lenti colorate, ma il sole continuerà a bruciarmi la pelle… Mi accetto come sono. Nella mia condizione, anche fisica, è l’unico modo per sopravvivere a se stessi”.

“Ti ammiro molto”, disse sinceramente Morgan. Era già a metà del secondo boccale da litro di birra. “Dico davvero. Sei in gamba”.

“Anche tu sei meno peggio di quanto credessi”, rispose con un sogghigno Jarva.

La birra continuò a scorrere con troppa facilità nelle gole. Morgan reggeva discretamente l’alcol, ma Jarva era un bevitore da competizione. Dopo un paio d’ore era passato al whisky, trangugiandone un bicchiere dietro l’altro, come se non ci fosse un domani.

Verso mezzanotte Morgan era visibilmente alticcio; Jarva aveva la vista annebbiata, ma il contegno era sempre lo stesso. L’alcol rendeva più sciolta la parlata e più labili le inibizioni, mentre il locale si faceva più silenzioso.

“Tutti. Conosco tutti, qui dentro” disse Morgan agitando un braccio e colpendo un innocente passante. “Il barman, per esempio. Ha dei traffici loschi che…”

“Non credo di volerlo sapere”, lo interruppe Jarva con una mezza risata. “Quando bevo mi dimentico che certe cose non dovrei saperle!”

Morgan rise apertamente. Allungò una mano sul tavolo e, per caso, sfiorò le dita di Jarva.

Ci fu un attimo di imbarazzo incredibilmente vivido.

Morgan si azzittì di colpo. Aveva gli occhi lucidi e le labbra socchiuse, e il cuore di Jarva ebbe un sussulto. Sotto la crosta di ghiaccio che era il suo corpo candido si accese qualcosa.

L’albino deglutì, ma non spostò la mano. Forse avrebbe potuto…

La porta si aprì all’ingresso di due nuovi clienti, e in quel momento la tensione si spezzò.

Jarva si voltò di scatto, richiamato da una strana sensazione, come se una nota stridente si fosse intromessa nell’armonia di un brano.

Morgan tossicchiò e si sistemò meglio sulla sedia, fingendo indifferenza, ma Jarva aguzzò la vista.

Sì, erano entrate due persone. Un uomo e una donna. Nella penombra erano stranamente nitidi se confrontati alle sagome scure degli altri avventori.

Jarva si sporse di più, stringendo le palpebre.

Sembravano giovani, e indubbiamente erano molto belli. L’uomo era piuttosto alto, dalle spalle larghe e dalla corporatura atletica; i capelli scuri e mossi ricadevano a sfiorare la fronte, di un pallore quasi splendente. Sorrideva, ma gli occhi erano freddi.

Gli occhi…

Jarva li osservò più attentamente. Neri, dalle ciglia folte, penetranti…

L’uomo si voltò verso di lui e lo guardò intensamente. Sembrava irriderlo.

Sorpreso di vedermi, dottor Jarva?

L’albino trasalì. Lo aveva solo immaginato, oppure…?

Divertito, il misterioso individuo si chinò verso la compagna. Non aprì bocca, ma Jarva fu convinto che le avesse detto qualcosa, perché quando questa si voltò si mise a ridere.

E Jarva sentì una goccia di sudore gelato scorrergli per la schiena.

Quei capelli scuri, la carnagione dorata, la risata a bocca chiusa…

La donna dell’aereo. La donna del racconto della signora Watson.

L’albino sentì il cuore balzargli fino in gola; gli tremavano le mani.

Non può essere la stessa persona, non ci credo! E quell’uomo… anche lui conosce il mio nome! Perché? Perché?

“Jarva…” chiamò incerto Morgan. L’albino sembrò non sentirlo.

Scosso da brividi incontrollabili fissò per un istante il compagno.

“Guardali, Morgan! Guardali, e dimmi cosa vedi!”

“Eh?”

Jarva osservò di nuovo la coppia. Si tenevano per mano come due mortali, ma i loro passi sembravano fermarsi a qualche millimetro dalla superficie del pavimento. L’uomo aveva un’espressione ardente e appassionata che strideva con il viso levigato, mentre la donna sembrava scrutare nel cuore di Jarva come se ne traesse un sadico divertimento. Alla fine annuì, stringendo la mano del compagno.

“Jarva, cosa dovrei vedere?” chiese Morgan tirando la manica dell’albino.

“Loro!” gridò questi, alzandosi in piedi e indicando un angolo vuoto.

“Loro chi?”

Jarva si voltò.

I due esseri erano spariti.

La sala iniziò a vorticargli attorno.

“Erano lì, Morgan. Erano lì, li ho visti… non sono come te e me, non camminano come noi e… conoscono il mio nome!”

Stava alzando la voce e gesticolava convulsamente. Morgan lo guardò sconcertato.

“Jarva, calmati, ti prego… di chi stai parlando?”

“La… la donna, la donna era sull’aereo! E l’altro… io l’ho visto, ho visto i suoi occhi al cimitero! Credimi, Morgan, ti prego credimi!”

Morgan si alzò. Jarva era in preda al delirio: si agitava, respirava a fatica e aveva gli occhi iniettati di sangue.

Sei ubriaco, ti porto a casa…”

“Non sono ubriaco!”

Il barista alzò la voce.

“Dicono tutti così!”

Morgan lo zittì con un’occhiata acida.

“Dai, Jarva”, disse, cercando di calmarlo.

“Erano… loro… non sono umani!”

“Devi venire con me ora: coraggio, appoggiati a me…”

Gli passò un braccio sotto le spalle e cercò di tenerlo in piedi. Pesava molto meno di quanto sembrasse.

“Jarva, ti prego, collabora: non sono molto sobrio…”

Morgan si frugò in tasca e lasciò una manciata di sterline sul tavolo; quindi uscì, trascinandosi dietro l’albino delirante e prossimo alle lacrime.

Il viaggio in auto fu un lungo incubo.

Morgan stentava a tenere in mano il volante, e Jarva, ancora sconvolto, blaterava parole senza senso. Più volte sembrò sul punto di vomitare, costringendo il povero guidatore a pause repentine nelle piazzole.

Dopo quella che parve un eternità l’attempata macchina di Morgan inchiodò davanti alla porta dell’appartamento di Jarva. Il giovane gli sfiorò la fronte per svegliarlo e si accorse che scottava.

“Cosa ti è successo?” sussurrò, scuotendolo.

Jarva aprì piano gli occhi. Non era ancora completamente lucido.

“Su, alzati… sei a casa, ora”.

Ci vollero alcuni minuti perché Jarva riuscisse a scendere dalla macchina e trovasse le chiavi di casa.

Quando finalmente aprì la porta fu investito dal silenzio pesante dell’edificio vuoto.

Tornò ad aver paura; ancora appoggiato allo stipite si voltò verso Morgan… lo vide seduto sul cofano, con la testa tra le mani.

Così vero. Così rassicurante.

“Morgan…”

Il giovane alzò lo sguardo.

“Non voglio rimanere solo stanotte…”

L’albino tenne la porta aperta; lentamente, Morgan gli si fece incontro. Jarva ne percepì il profumo e il tepore; girò due volte la chiave nella toppa, quindi si apprestò a seguirlo su per le scale.

 

   
 
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