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Autore: The queen of darkness    29/09/2013    2 recensioni
Quando la vita presenta ghirigori stranissimi prima di donare una felicità assoluta.
( questa storia è stata precedentemente cancellata per motivi di formattazione. Vi chiedo di portare pazienza; i capitoli verranno ricopiati e la storia procederà con lo sviluppo ideato precedentmente. scusate per il disagio.)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Eva non si mise a riflettere su quanto stava facendo, semplicemente, agì.
Indossò in fretta e furia il proprio giubotto antiproiettile, mise una pistola nella fondina e si assicurò di avere in tasca il proprio tesserino. Non era ancora un’agente a tutti gli effetti ma, grazie al suggerimento di Hotch di seguire ugualmente dei corsi preparatori, lo sarebbe diventata presto, e aveva già affrontato i primi esami al poligono di tiro, in modo da aver raggiunto una certa dimestichezza con le armi.
Sperò che la pistola che aveva preso non fosse stata l’arma di servizio di una qualche matricola, altrimenti si sarebbe sentita doppiamente in colpa di quella presa in prestito a sorpresa.
Incontrò Emily nel corridoio, e accellerò il passo. La collega la guardò ad occhi spalancati, ma si riebbe presto dallo stupore: quasi correndo riuscì a starle dietro senza nessuna difficoltà.
-Eva?! Si può sapere dove pensi di andare?
La ragazza sospirò impercettibilmente. Sicuramente, quando le aveva detto che andava al bagno, Emily non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere. Le dispiaceva rischiare di mettere nei guai anche la sua nuova amica, ma valeva la pena rischiare; si sarebbe presa tutta la responsabilità.
-Non posso stare ferma a guardare – disse, superando una porta e attraversando un ennesimo corridoio, - devo fare qualcosa. Se gli agenti sono ancora dentro all’appartamento, allora è possibile che sia già troppo tardi.
-Hotch è stato molto chiaro, su questo punto – le ricordò l’altra, - aveva detto che noi dovevamo rimanere in centrale.
La ragazza sbuffò sonoramente. –A fare che cosa? C’è un serial killer con una bomba in mezzo ad nugolo di agenti, Emily! Cosa possiamo fare di utile rimanendo qui?
La collega, con lo sguardo, ammise che Eva aveva ragione. Forse era stata troppo impulsiva, magari pure scorretta, ma non aveva tutti i torti, e l’ordine di Dawson sarebbe sicuramente arrivato in un momento fatale, e ci sarebbe voluto un po’ prima che gli uomini lasciassero la casa. Poteva benissimo darsi che fossero morti da pochi minuti, o forse appena messo piede nella casa.
D’altro canto, però, Prentiss non sapeva se dare completa fiducia alla nuova arrivata. In fondo, come aveva potuto capire che era stata messa una bomba senza tentennare nemmeno un secondo? E se si fosse rivelato tutto un grosso sbaglio?
Combattuta, Emily la trattenne per un braccio, richiamandola alla ragione.
-Eva… fermati. Non puoi risolvere niente, facendo così. Dawson ha diramato l’allarme tramite ricetrasmittente, è solo questione di minuti prima che qualcuno risponda all’emergenza.
Gli occhi castani di Eva brillarono in modo poco rassicurante. L’italiana abbassò il capo, mestamente, parlando in un sussurrato mormorio.
-Lo so, ma…
Non concluse la frase, angosciata; era l’incarnazione della disperazione, e fu questo ad intenerire l’altra agente: anche lei in quel momento si sentiva impotente, e avrebbe voluto fare qualsiasi cosa pur di fermare uno scempio che sembrava inevitabile. Hotch e Morgan erano schizzati via dalla centrale con uno dei SUV, ma non avevano ancora ricevuto nessuna notizia da loro.
Era terribile dover stare in attesa, girandosi i pollici, con una situazione tanto drammatica come scenario, ma Emily aveva imparato che raramente era consigliabile disobbedire agli ordini di Hotch, soprattutto perché lui li dava pensando come prima cosa al benessere dei suoi sottoposti. Mai una sua decisione si era rivelata azzardata in modo catastrofico, in tutta la sua carriera, e questo la portava ad un’incondizionata fiducia nei suoi confronti.
Addolcì il tono, convinta di averla persuasa. –Dài, vieni, togliti questa roba di dosso.
La donna annuì, pianissimo, e l’amica l’accompagnò al bagno. Appena la porta si richiuse alle sue spalle, però, Eva elaborò una strategia. Le dispiaceva aver finto di aver capito davanti ad Emily, ma il tempo e l’obbedienza erano lussi che non poteva permettersi, non in quell’istante.
Analizzò l’intera stanza con occhi critici, e alla fine si convinse a trascinare uno sgabello sotto alla finestra, poco più grande di una feritoria per l’aria, di forma rettangolare. Sbirciò al di fuori, e notò un muro di fronte per delimitare il claustrofobico vicolo, con tanto di cassonetto posto appena sotto al suo naso. Calcolò approssimativamente che le sue spalle ci sarebbero potute passare, anche se scomodamente.
Slacciò il giubbotto, buttandolo oltre il vetro aperto, e lo sentì atterrare con un tonfo sui rifiuti. Velocemente, posò incerta un piede sul ripiano traballante, e prese lo slancio.
Fu doloroso; sbattè la spalla sinistra contro la cornice appuntita e rovinò la camicia, ma sgusciando e ignorando la botta al fianco potè allungare le mani dall’altra parte e puntellarsi sul cassonetto. Forse uscire  con la testa davanti non era stata una buona idea, ma non poteva più tornare indietro.
Si morse violentemente il labbro: piegando il ginocchio l’aveva sbattuto contro l’apertura, rischiando di rompere il vetro. Diede un’ultima spinta, e cadde sul cumulo di sacchi neri e maleodoranti. Rimase ferma per qualche secondo, stordita. Il mondo girava vorticosamente davanti ai suoi occhi, nelle tempie rombava il sangue affluito alla testa, e le sue membra erano tutte ammaccate.
Distesa su quel suo malgrado comodo giaciglio, capì fino in fondo cosa volesse dire essere gettate nella spazzatura: il dolore, la puzza, le sensazioni, la vergogna, l’umiliazione. Era come se qualcuno l’avesse trasformata in una bambola rotta, inservibile, e sentì quasi di meritarsi quell’involontario castigo.
Farsi forza non fu facile. Fu il pensiero di Reid, che la aspettava in un ufficio non troppo lontano da quel vicolo, a convincerla ad uscire da lì. Tastò intorno ai propri fianchi e recuperò il giubotto antiproiettile: aveva un odore pestilenziale e una buccia di banana spalmata sulla scritta FBI, ma per il resto non sembrava essere troppo lurido per essere indossato. Trattenne il fiato e se lo agganciò addosso.
Uscire da lì divenne un’impresa titanica, ma ritrovandosi con i piedi per terra riprese a pensare più lucidamente. Per prima cosa, controllò che nelle tasche ci fossero ancora il tesserino e le chiavi del SUV, che Morgan le aveva dato appena arrivati con la frase “me le terresti un attimo mentre telefono a Garcia?”. Evidentemente si era dimenticato di chiedergliele indietro.
“Bene” pensò, sopresa di tanta fortuna. Zoppicò fino al parcheggio: le auto federali erano tutte uguali, e non si ricordava la targa.
-Merda – esclamò, a denti stretti. Il suo sguardo volò da un veicolo all’altro ma, a parte quelli della centrale, era impossibile indovinare quale fosse dei due il fortunato possessore della chiave che aveva in mano.
Provò a schiacciare il bottone di apertura automatica, ma il comando doveva essere scarico, visto che non ci furono reazioni visibili. Tentò una seconda volta, ma nulla.
Imprecando ancora, si diresse verso l’altro e inserì la chiave nella chiusura della portiera del guidatore. Fallendo miseramente, trovò la fortuna nell’altro.
Era una guidatrice abbastanza abile, ma non le piacevano le macchine grandi, e non ne aveva mai guidata una. Le pareva che star seduta sopra a quel sedile sproporzionato fosse innaturale, per un guidatore; il volante le sembrava minaccioso.
“Hai già perso abbastanza tempo, stupida!” si disse, e mise in moto. Partì senza accendere i lampeggianti, visto che ignorava come si facesse, e sfrecciò fuori dal parcheggio nell’esatto momento in cui Emily, preoccupata, bussava alla porta del bagno.
 
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-Come sarebbe a dire, tesoro? – chiese Garcia, preoccupata.
Eva sospirò per l’ennesima volta, portandosi il telefono più vicino alle labbra. Aveva sottovalutato la botta all’anca: continuava a dolerle anche stando seduta, e da sotto alla camicia si intravedeva una macchia violacea.
-Garcia, è importante – ripetè, svoltando – lo so che potrà sembrare strano, ma ho bisogno di sapere l’indirizzo di un magazzino, un capanno, una casa sull’albero, qualsiasi cosa che appartenga a Michaels o che sia intestata a lui. Per favore.
L’informatica lasciò passare un lungo silenzio. Non era per effettuare la ricerca, poiché le tastiere in sottofondo non emmettevano nessun ticchettio, bensì sembrava piuttosto un tipo di pausa riflessiva, ansiosa, tipica di chi è in pena per la sorte di un proprio famigliare.
Eva non poteva continuare a girare a vuoto, ne era consapevole, e aveva bisogno immediatamente di un punto di riferimento. Se non si era diretta al condominio, era perché aveva avuto il presentimento che il profilo non fosse completo; Glenn non era un kamikaze, non era un suicida. Non sarebbe mai morto neppure per ribadire la propria superiorità, visto che avrebbe voluto gustarsi fino in fondo la gloria delle proprie azioni.
Questo l’aveva portata a pensare che si trovasse fuori città, in compagnia della vittima, e in quel caso ci sarebbero state poche speranze di trovare la ragazza viva. Sicuramente la bomba era dentro casa sua, ma questo non voleva necessariamente dire che anche lui fosse presente.
Alla fine, l’altra donna si decise a parlare, combattuta. –Tesorino, non so davvero se…
-Garcia – la interruppe, usando un tono di voce molto pacato, - mi dispiace davvero tanto doverti chiedere una cosa simile, ma non lo farei se non fosse urgente. Un folle ha fra le mani una ragazza innocente, e Dio solo sa cosa può averle fatto fino a questo momento; sono sicura al cento per cento che non si trovi lì, in quella casa, adesso, e ora potrebbe già essere troppo tardi. Mi prendo tutta la responsabilità di questa cosa, davvero. Però ho bisogno di avere un riferimento.
L’informatica non disse nulla, e la giovane agente pregò di aver toccato le corde giuste. Era sicura che lo spirito altruista di Penelope avrebbe preso il sopravvento sul protocollo, e sperava di averla rassicurata dicendole che se ne sarebbe caricata le conseguenze; d’altronde, ma questo lei non poteva saperlo, appena possibile avrebbe lasciato la squadra, e quindi uno sgarbo al sistema di quel genere avrebbe avuto ripercussioni su di lei fino ad un certo punto.
Sicuramente Garcia stava ponderando la situazione da un punto di vista il più oggettivo possibile, ma non c’era tempo; era ovvio che Michaels sapeva di essere stato identificato, ed era altrettanto certo che avrebbe fatto di tutto per eliminare i fardelli inutili, come ad esempio una ragazza terrorizzata.
Prima che dovesse ricordarle di avere poco tempo a disposizione, la donna si mise al lavoro. Si sentì un fruscio dall’altro capo del telefono e il rumore di tasti freneticamente premuti. Garcia tirò su con il naso.
-Glenn Michaels è un nome fittizio – esordì, - o meglio, non è nato chiamandosi così. Il verme, prima, era Glenn Randall, ma dopo la morte del padre ha assunto il cognome da nubile della madre; se ti stai chiedendo perché, posso solo dire le parole-chiave “ospedale” e “maltrattamenti”, improvvisamente cessati con la scomparsa del signor Randall.
Eva fece una smorfia, ma non disse niente.
-C’è… un posto. È abbastanza isolato, ma non saprei dirti la sua funzione precisa; era del padre, diversi anni fa, ma dopo è stata acquistata da una terza persona… Michaels se ne è riappropriato pochi mesi fa.
-Quando sono cominciati gli omicidi – riflettè Eva. Trovava straordinario come tutti i tasselli andassero al proprio posto.
-Potresti descrivermi il posto, per favore? – chiese subito dopo.
-Assomiglia ad una baracca, ma vicino ci sono dei magazzini a noleggio; ultimamente l’attività è fallita, e quindi la proprietà è rimasta completamente isolata. È uno spazio poco più grande di un garage costruito con i rimasugli dei materiali di produzione della ditta. È soprendente che qualcuno abbia addirittura pagato per averlo.
Sicuramente, il viso della collega era contratto in un’espressione disgustata. Nella sua mente, la giovane agente cercò di visualizzare il posto, e ci riuscì con sorprendente chiarezza.
-Chi era quello che ha comprato il posto da Randall? – domandò.
Un nuovo zampettare, un breve silenzio assorto. Poi, Eva udì un “non è possibile” sussurrato a mezza voce, accompagnato da un’esclamazione indefinibile di sorpresa.
-Garcia? Tutto a posto? – chiese, preoccupata.
Sentì la donna annuire. –Non ci crederai mai: era di Laure Dawson.
La ragazza ebbe una folgorazione improvvisa. Non seppe descrivere precisamente cosa la fece arrivare alla conclusione, ma era stata una consapevolezza così nitida e fulminea che le pareva impossibile non reputarla vera a priori.
Adesso, le cose, assumevano un senso, nonostante non avrebbe saputo esprimere a parole il disegno che aveva costruito nel proprio cervello. Fece inversione bruscamente, rischiando un frontale con un altro SUV, mentre Garcia scandiva un indirizzo appena superato.
-Grazie, Penelope! – esclamò, eccitata. Prima che l’altra potesse risponderle, però, aveva già scaraventato il telefono sul sedile del passeggero, accanto alla pistola, e si stava dirigendo a tutta velocità verso il capanno del signor Randall.
 
//
 
-Come sarebbe a dire sparita? – chiese Hotch, duramente.
Emily si mise le mani nel capelli e imprecò. –Non lo so! – articolò, - Era in bagno e dopo dieci minuti già era scomparsa!
Il capo non disse nient’altro, ma la sua collera era evidente dalla piega severa delle labbra. Tornato in centrale assieme a Morgan, visto che gli artificieri avevano fatto un ottimo lavoro, aveva avuto l’amara sorpresa: ora, con un potenziale killer a piede libero e una vittima tutt’ora dispersa, la perdita di un’agente non sembrava davvero una buona notizia.
Rossi si accarezzò pensosamente la barba ispida. Quando aveva visto quella strana luce negli occhi della ragazza, aveva subito immaginato che il protocollo le sarebbe stato stretto. Non che agisse spinta dal desiderio di insorgere contro le regole, al contrario, ma aveva quest’animo così profondamente legato alla giustizia che, almeno secondo il suo parere, doveva per forza agire sul campo, invece che stare a guardare.
Fu l’unico che non si dimostrò adirato dalla novità, ma che osservasse con un minimo di raziocinio la cosa in termini pacati.
-Ha stoffa, Hotch – disse, - ha capito che l’assassino non era in casa ancor prima di noi.
-Questo non cambia la sua trasgressione – gli ricordò il superiore, - e, anzi, aggrava solo le cose; adesso abbiamo due possibili ostaggi in mano a Michaels e non sappiamo nemmeno da dove cominciare.
-Perché vi trattate come se foste tutti incompetenti? – sopraggiunse Laure Dawson.
Emily si voltò, sopresa, perché non l’aveva sentita arrivare. Sembrava tranquilla e composta come sempre, anche se al posto del maglione indossava una giacca leggera con una piccola macchia accanto al taschino.
Visto che nella stanza nessuno aveva ribattuto nulla, la donna spiegò: -Non sapete da dove cominciare a cercarli? Mi sembra impossibile; siete i migliori profiler d’America e, se una vostra agente ha avuto un’intuizione prima di voi, allora forse dovreste solo fare uno sforzo di immaginazione. Da quanto lavora per voi? Due giorni?
C’era una punta così freddamente cinica che stridette con l’immagine di persona tranquilla e devota al senso del dovere, ma fu solo un attimo; tornò la persona ragionevole di sempre, con il viso velato da un mezzo sorriso perenne, nell’arco di un secondo.
-Miss Dawson ha ragione – intervenne Morgan. Incorciò le braccia appoggiandosi ad una scrivania.
-Dobbiamo rivalutare la situazione. Il profilo non è cambiato, gli mancava solamente una parte. E questa parte è la pochissima voglia di Michaels di immolarsi per la propria causa.
-Avremmo dovuto pensarci – ammise Emily, abbassando il capo.
Non si sentiva affatto ingannata da Eva, anzi, al suo posto avrebbe agito allo stesso modo. Condivideva con lei il disagio dell’ultima arrivata, del membro più recente della squadra, e spesso, nonostante la cordialità di tutti gli altri agenti, aveva avuto l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua, e per questo poteva comprendere meglio degli altri cosa avesse mosso la ragazza.
Tuttavia capiva il rischio di quello che aveva appena compiuto, e si sentiva stupida per non aver riflettuto davvero sulle azioni che avrebbe potuto compiere una volta lasciata da sola. Aveva rispettato la regola del non fare il profilo ai colleghi e aveva comunque fallito. Per questo era una sua priorità ritrovarla viva, ovunque essa fosse.
Perdere un’agente era l’ultima delle cose che avrebbe fatto bene ad Hotch, soprattutto con tutte le pressioni della Strauss. Erano tutti perfettamente consapevoli di quello che stavano affrontando, e di dover procedere con la necessaria cautela.
-Lo stiamo facendo adesso – le ricordò Morgan, prima di cominciare a spremersi le meningi per risolvere la situazione.
-Se non usava il secondo appartamento per uccidere le vittime, allora aveva sicuramente bisogno di un altro covo – intervenne timidamente Reid.
Da quando Eva era sparita si era fatto da parte, e se ne stava pensoso in un angolo, con le mani a coprirgli la bocca in una posa riflessiva. Non aveva spiccicato parola nemmeno davanti alla notizia, e sul suo volto imperturbabile si era scavato un solco spaventato fra le sopracciglia, e aveva osservato le conseguenze con occhi spauriti.
Emily lo osservò attentamente, ma era troppo stanca per arrivare ad una conclusione accettabile, così lasciò subito perdere.
-Giusto – convenne Rossi. –In questo caso sarebbe meglio chiedere a Garcia.
-Ma certo! – esclamò Morgan, battendosi una mano in fronte. –Anche Eva deve aver chiesto a lei dove recarsi, altrimenti come avrebbe potuto saperlo? Sicuramente Garcia sa già dove sta andando adesso.
Prese il cellulare in mano, ma l’atmosfera della stanza fu bruscamente spezzata da un trillo proveniente da una scrivania. Laure Dawson, che era la più vicina, guardò l’apparecchio con lo stesso sguardo che avrebbe rivolto ad una creatura aliena, e tenne le braccia incrociate. Osservando il suo profilo, sembrava davvero molto più vecchia della sua età effettiva, nonostante il viso visto frontalmente la facesse apparire, al contrario, molto giovane.
Hotch lanciò un’occhiata significativa ai membri della propria squadra. Si avvicinò al telefono: numero sconosciuto. Comunicò quest’ultima informazione con una smorfia eloquente e, nell’immobilità generale, alzò la cornetta con studiata lentezza.
JJ, mentre il capo si posò l’oggetto all’orecchio, colse il guizzo muscolare che aveva fatto fremere Spencer. Sembrava sinceramente in ansia e, se prima era impossibile indovinare cosa stesse pensando, adesso era evidente che era angosciato.
-Agente speciale Aaron Hotchner – disse l’uomo, freddamente.
Dall’altro capo del telefono ci fu un lungo silenzio. Il pulsante dell’altoparlante brillava di una luce rossa poco rassicurante.
Prima che le parole arrivassero, i loro animi si colmarono di greve attesa. Ognuno si aspettava una frase diversa, e nel silenzio immobile della stanza sembrava quasi di poter udire i pensieri l’uno dell’altra. Alla fine, però, trionfarono le preoccupazioni peggiori che avessero mai potuto avere, pronunciate con una voce distorta e canzonatoria.
-Agente Hotchner, credo proprio che per la sua Eva oggi sia un giorno molto, molto sfortunato.  
 
  
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