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Autore: Eloise_Hawkins    30/09/2013    7 recensioni
La guerra non si è ancora conclusa: mentre Harry Potter cerca disperatamente gli ultimi Horcrux, Voldemort conquista Hogwarts, ora sua roccaforte. La popolazione magica vive nel terrore, nascondendosi in piccoli gruppi e cercando di sopravvivere nonostante le continue incursioni dei Mangiamorte.
In questo clima di terrore e violenza, l’Ordine della Fenice, o almeno ciò che ne rimane, come la creatura da cui prende il nome tenta di risorgere dalle sue ceneri, accogliendo sotto la sua ala protettiva chiunque ne abbia bisogno ma, soprattutto, chiunque sia disposto a combattere.
Hermione Granger milita tra le fila del Bene, prima combattente in ogni battaglia. La sua concentrazione, però, vacilla quando Draco Malfoy, pur avendola riconosciuta nonostante il suo travestimento, la lascia libera di scappare. Perchè? E cosa nasconde lo sguardo grigio di quel ragazzo?
La guerra è ormai alle porte: un'ultima possibilità, una sola speranza, per chi nella vita ha fatto solo scelte sbagliate. E, forse, per chi ha ancora la possibilità di commetterle.
Ispirato a "Espiazione", di Ian McEwan
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger, Luna Lovegood, Neville Paciock, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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6.





Cicatrici








 

Hermione trasse un respiro profondo, gli occhi chiusi e una lacrima a disegnarle il profilo della gota arrossata. Il riposo era un eccesso che non si poteva concedere ma in quel momento, mentre premeva con forza la mano sul lato destro del torace, ne sentiva il bisogno. Abbassò il capo e osò lanciare un’occhiata alla ferita pulsante, per constatarne la gravità: una grossa trave di ferro sbucava, come un macabro bruco da una mela, dal fiore scarlatto che era la sua pelle. Un rantolo di dolore e paura le sfuggì dalle labbra, mentre un’altra lacrima si univa alle altre.

La giovane strega abbandonò la testa contro il tronco dell’albero accanto al quale si era accasciata, ormai priva di forze. La mano destra era ancora stretta intorno alla bacchetta; la sinistra, poggiata malamente sulla ferita nel tentativo di fermare l’emorragia nonostante l’acuminato arnese, tremava bruscamente.

Hermione trasse un respiro profondo, e poi un altro: ormai era una prassi quotidiana, non un lavoro di cervello, tentare di trovare in se stessi un equilibrio capace di difendere dal dolore e dalla paura.

Intorno a sé udì gli schiocchi delle Materializzazioni dei suoi amici. Li contò mentalmente, nella speranza di contarne tredici – in tredici erano partiti, in tredici dovevano tornare – e nel tentativo di rimanere lucida e cosciente.

Uno. Due. Cinque. Nove. Dieci. Undici. Dodici. A ogni schiocco un respiro, di sollievo, di bisogno. Dodici.

Un minuto, due minuti, cinque minuti, dieci minuti. Ancora dodici. Poi, il tredicesimo. Hermione sorrise e si concesse il suo meritato riposo. Mentre chiudeva gli occhi, le sembrò di vedere due lampi grigi in quel doloroso sollievo che era abbandonarsi al sonno.

 

***

 

Quando Hermione aprì gli occhi, la prima percezione che avvertì fu la mancanza alla mano destra, troppo vuota. Scattò a sedere con gli occhi spalancati dal terrore, perchè non era più abituata a trovarsi sprovvista di bacchetta. Senza arma e difesa si sentiva vulnerabile. La spezzò il dolore che provò all’altezza del torace, e fu costretta a stendersi di nuovo, un gemito a sfuggirle dalle labbra.

« Va tutto bene, Hermione » Gli occhi enormi di Luna sembravano due fari nella semioscurità della tenda, due luci di speranza, di salvezza.

« Ginny? » Hermione aveva la bocca asciutta, la gola secca e la voce le tremava. Chiuse gli occhi, nella speranza che almeno quella sensazione di vorticare incessante si spegnesse.

« Sta bene » rispose con pacatezza Luna.

« Neville? » chiese ancora la ragazza. L’amica esitò un attimo di troppo, ed Hermione si ritrovò con gli occhi spalancati dal terrore su di lei.

« È già ripartito » la bionda tentò di nascondere l’amarezza e il disappunto dietro un sorriso di rassicurazione. « Vado a chiamare Abigail, mi ha detto di avvertirla non appena ti fossi svegliata. Non fare sforzi »

Hermione chiuse gli occhi e rimase stesa, immobile. Al di là delle palpebre, intuì la luce della torcia che si affievoliva e quella, molto più forte, del sole, che penetrava per un istante e poi si estingueva. I rumori dell’esterno giungevano attutiti: passi, voci, cinguetti e fruscii, era tutto ovattato dal rassicurante tepore della tenda. Il dolore, però, niente poteva spegnerlo: era un tamburo atroce e insopportabile.

« Sei sveglia? » Un sussurro lieve, preoccupato e incerto.

« Ginny? » La voce di Hermione tremò, di paura e sollievo, dolore e piacere. Con gli occhi chiusi, allungò una mano, nel buio, e quando l’amica la strinse si sentì improvvisamente meglio. Una lacrima calda le scivolò lungo la tempia.

« Stai bene? » pigolò la piccola Weasley, preoccupata. La giovane strega dovette appellarsi a tutta la forza che aveva in corpo per rispondere. “Fa male”, avrebbe voluto dire, “fa un male terribile”; invece ingoiò le lamentele e la sofferenza e annuì, perché sapeva che la voce l’avrebbe tradita.

« Avevi un polmone bucato. Quando Malfoy ti ha portata qui respiravi appena, Abigail ha detto che avevi le pleure allagate dal sangue, stavi affogando nel tuo sangue, eravamo così preoccupati, noi non riuscivamo a trovarti… » Ginny esplose in un pianto disperato. Mentre le parole le sfuggivano dalle labbra come una raffica di proiettili vaganti – parole incerte e vacillanti, voce tremante e timbro sfumato di terrore e panico e paura – Hermione riuscì a percepire solo una cosa, in quel discorso, nota stonata e nome fuori luogo. Allora aprì le palpebre, ma prima di poter chiedere l’immagine che le entrò negli occhi le gelò il sangue nelle vene e congelò ogni parola sulla punta della lingua.

« Che è successo? »

« … non hai idea di quanto ci ha messo, ore a medicarti… come? » Ginny sembrò accorgersi solo in quel momento dello sguardo dell’amica fisso su di lei. Abbassò gli occhi su Hermione solo per un istante, giusto il tempo di rendersi conto che la stava osservando con occhi colmi di terrore e dispiacere e compassione e pena, poi le strinse la mano e si concentrò su un particolare del tutto privo di importanza – la benda di Hermione, le lenzuola, una venatura del legno, qualsiasi cosa pur di non specchiarsi nella verità incontrovertibile di quello che era successo.

Hermione avrebbe dovuto capirlo dalla sua voce, che c’era qualcosa che non andava – quella voce così insicura e traballante non poteva appartenere a Ginevra Weasley – ma il dolore l’aveva distratta. L’avrebbe dovuto capire dalle sue lacrime – perché Ginny non aveva mai pianto, in due anni di guerra. Mai.

« Abigail mi ha detto di darti questo » Ginny slacciò la presa dalla mano dell’amica e si sporse per prendere una tazza, colma di un liquido maleodorante. « È un po’ occupata, adesso, Neville è appena tornato con la sua squadra e Adam ha qualcosa che non va, non si capisce bene… »

« Ginny, che cosa ti è successo? » Il ciarlare della ragazza non era una distrazione sufficiente; forse, era solo un’ulteriore conferma, rafforzativo necessario a porle di nuovo quella domanda.

« Non lo so, Hermione » La giovane emise un sospiro stanco, rassegnato. « Non mi ricordo. Ricordo solo qualcosa che mi colpiva in faccia, non ho visto cos’era. Non so se era un incantesimo o qualcos’altro. Mi ha riportata Fred. O George » Un lieve sorriso, amaro quanto la sua voce, che si spezzò piano, con la dolcezza di uno sguardo orbo, a metà. « Non ho ancora avuto il coraggio di guardarmi allo specchio » sussurrò piano, e finalmente guardò Hermione, ma senza vederla davvero, perché non poteva più farlo, non completamente, guardava Hermione ma con un occhio solo e senza guardarla negli occhi, perché le pupille di Hermione erano specchi e lei, specchi, non ne voleva vedere, non ancora, perché gli unici specchi che avrebbe voluto erano verdi, ma quegli specchi erano lontani, persi « E se… » un singhiozzo, il terrore a spezzare ogni singola cellula del suo essere « Io non… » La voce che perde colpi, tossisce e si ferma come un treno sfinito, esausto. « E se… » Perché non riusciva a dirlo, a pronunciare il suo nome o forse la sua paura.

Allora Hermione la prese per mano.

« A Harry non importa. Non gli importerà, lo sai. Sei bellissima, Ginny, lo sei sempre stata… » La presa calda non era rassicurazione sufficiente, per lei.

« Non sai mentire, Hermione » Era dura, adesso, la voce di Ginny, e ferma. L’unico occhio che lei poteva vedere era implacabile e rabbioso, duro e diretto com’era sempre stata lei – lei, che però non era più lei. Era bellissima, Ginny, ora non lo era più. Una cicatrice le deturpava irrimediabilmente il viso, tagliandole a metà l’occhio destro. La pupilla lattiginosa in quell’orbita turgida e sfregiata era stata il prezzo che aveva dovuto pagare per il suo amore – nel tentativo di tacere e aiutare.

Era bellissima, Ginny, ma ora non lo era più, ed Hermione non riusciva a non pensare che quella fosse una crudeltà forse peggiore della morte, perché non se lo meritava, perché la sua bellezza doveva rimanere intatta, perché forse sarebbe stato meglio se fosse successo a lei, che tanto non era dotata di un grande fascino.

« Abigail non ha potuto fare niente? » domandò piano Hermione, ingoiando un boccone amaro.

« È magia nera, e lei è troppo inesperta. Non ha saputo fare di meglio. La scheggia mi stava trafiggendo il cervello, è riuscita appena ad estrarla » Ginny chinò il capo, incapace di guardare il viso dell’amica, adesso. « Meglio cieca che morta, comunque » aggiunse asciutta, con un filo di voce, come se non ci credesse più di tanto.

« Mi dispiace » La voce di Hermione si spezzò. Un’altra lacrima, più dolorosa delle precedenti, in modo implacabile e inevitabile.

« Non è colpa tua » mormorò Ginny. Il suo tono era duro, ma sincero. Eppure, Hermione non poté fare a meno di pensare che non era vero. Aveva organizzato lei le squadre; lei aveva chiesto all’amica di affiancarla, per paura, perché le mancava la sicurezza se non aveva un’amica accanto – perché morire dentro gli occhi di Ginny sarebbe stato meglio che morire da sola. Era colpa sua perché era stata vigliacca, ed era stata vigliacca perché era più egoista che leale. Perché non era una vera Grifondoro.

« Bevi questa » disse l’amica dopo qualche minuto di silenzio. La sua affermazione aveva qualcosa di definitivo, perciò Hermione non aggiunse nient’altro: ci sarebbe stato tempo, per parlarne, per superare anche quel dolore.

Ma ci sarebbe stato davvero?

Non poté fare a meno di domandarselo, mentre con una smorfia di disgusto mandava giù quell’intruglio, e un calore piacevole le intorpidiva le membra.

Passò del tempo vuoto, durante il quale Hermione cercò di dominare il desiderio di abbandonarsi al sonno e alla sofferenza, e Ginny la guardava impensierita, chiusa in pensieri che erano solo suoi.

« Luna mi ha detto che Neville è ripartito » disse la maggiore dopo un po’, nel tentativo di non addormentarsi di nuovo, di spazzare via la colpevolezza e il dolore.

« È tornato pochi minuti fa. I Mangiamorte avevano rinchiuso alcuni maghi e Babbani dentro un casolare, nell’Essex, e si stavano divertendo » Ginny strinse i denti per dominare il senso di nausea che l’idea le provocava. La rabbia stillava da ogni parola. « Li hanno salvati quasi tutti, ma alcuni hanno preferito nascondersi altrove. Meglio per noi, meno bocche da sfamare » La durezza di quell’affermazione era così tanto in contrasto con la dolcezza dei lineamenti di Ginny, che Hermione non poté fare a meno di aprire gli occhi per assicurarsi che fosse ancora lei a parlare. La vista di quella cicatrice, però, la convinse a richiuderli di nuovo, prima che un conato di vomito le risalisse su per l’esofago. Il senso di colpa per non averla aiutata, salvata, per non essersi trovata lì al momento giusto, si mescolò all’acuto dispiacere per l’amica, che avrebbe dovuto sopportare, oltre alla guerra, anche quella battaglia psicologica per accettare se stessa nonostante quella cicatrice deturpante che lei, al momento, nemmeno riusciva a guardare. Era Ginny, che parlava, ma non era più lei.

« Che ha Adam? » domandò, cercando di appellarsi a frammenti di ricordi, alla poca lucidità che le era rimasta addosso.

« Non lo so. Neville dice che è stato colpito da un Imperius, ma qualcosa deve essere andato storto. È convinto di avere cinque anni, continua a ripetere di non voler aspettare Babbo Natale per mangiare le uova di cioccolato » L’evidente confusione sul viso di Ginny strappò a Hermione una risata di puro divertimento. Non doveva essere divertente, non doveva ridere; non poteva permettersi di prendersi gioco del malore di uno dei suoi compagni, ma quella smorfia perplessa sul viso dell’amica era quanto di più simile al passato avesse in quel momento, e il ricordo del Natale, della Pasqua, il pensiero che, nonostante tutto quello che stava succedendo là fuori, quelle verità esistessero anche dentro la testa di qualcun altro, nel passato di qualcun altro, la faceva sentire meglio.

Anche se Ginny non aveva idea di cosa fossero Babbo Natale e le uova di cioccolato, anche se inizialmente sembrò preoccupata da quella risata fuori luogo che pareva l’inizio di una precoce e preoccupante pazzia, non potè fare a meno di ridere anche lei. Ricordando, così, che c’era ancora qualcosa per cui ne valeva la pena.

 

***

 

Era una mattina pacifica, come non ne esistevano da troppo tempo. Il cielo, una placca d’argento sopra un deserto brullo, emanava i bagliori bianchi di un inverno senza clemenza. Un fruscio leggiadro viaggiava tra le fronde degli alberi; qualche foglia ocra si staccava dai lunghi rami ombrosi, volteggiava per qualche istante nell’aria e poi si posava sulla superficie ghiacciata del laghetto. Il lontano gracchiare di un corvo stemperava quell’atmosfera quieta.

L’aria era pulita, ma Hermione non riuscì a respirare a pieni polmoni, perché, nonostante le cure di Abigail, la Medimaga dell’accampamento, il dolore era ancora vivido e pulsante. Mentre si sedeva sulla riva del lago, accanto al biondo che ormai era una presenza fissa, si sentì stranamente serena. Non lo guardò negli occhi, presa com’era a fissare quel cielo terso, privo di pinnacoli di fumo o simboli di morte. Si chinò lentamente, emettendo un unico gemito soffocato, perché alcuni movimenti le provocavano ancora una certa sofferenza, poi, sempre con lo sguardo puntato verso la volta celeste, parlò.

« E così, ti devo la vita per la terza volta » Un lieve sorriso le arcuò le labbra. Con la coda dell’occhio, vide l’espressione immobile del ragazzo accanto a lui. Sembrava indifferente, disinteressato a quello che gli succedeva intorno e assolutamente  insensibile alla sua presenza. Non poteva sapere quanto amore stesse bruciando dentro di lui, in quel momento, né quanto quella piccola vicinanza lo facesse fremere, bravo com’era a nascondere le sue emozioni. « Attento, Malfoy. Sta diventando un vizio. La gente potrebbe anche pensare che sei dei buoni » continuò lei, sdrammatizzando con una risata cristallina che, però, le strappò una smorfia di sofferenza.

« Che vuoi? » sputò scontroso, scoccandogli un’occhiata priva di gentilezza. Hermione si voltò verso di lui e incrociò mitemente il suo sguardo.

« Niente. Sono venuta a ringraziarti » rispose con semplicità. Lui la guardò con una vaga incredulità, smorzata dalla smorfia beffarda sul volto: le sue labbra si arricciarono in un sorriso di compiacenza che fu solo l’ombra di un momento.

« Non l’ho fatto per te » disse asciutto. Tentare di negare sarebbe stato stupido, era certo che i suoi amici le avessero raccontato che era stato lui a trovarla. Quello che non le avevano detto – quello che non potevano sapere – era quanto tempo avesse perso a guardarla. Quando si era Materializzata lì, sulle rive di quel lago che era diventato il suo rifugio e la sua fuga, si era sentito ferito e offeso, invaso nel suo territorio. Poi aveva capito che era lei, e il fastidio si era trasformato in speranza, e poi in panico. Questo non gli aveva impedito, però, di rimanere per interminabili minuti ad osservarla.

Hermione era bellissima.

Draco non aveva mai avuto la possibilità di vederla così da vicino, né aveva mai nemmeno osato sperare sfiorarla. Ora che ne aveva l’occasione, era certo che la morte non gliel’avrebbe portata via: sarebbe stato troppo crudele. Così le aveva sfiorato la pelle, percorso gli zigomi, accarezzato le palpebre. Quando i suoi polpastrelli erano passati sopra le sue labbra, era stato il momento in cui il fremito si era trasformato in urgenza. Sentirsi il suo corpo addosso sarebbe stato tanto doloroso che, ne era certo, si sarebbe pentito di non averla lasciata morire lì; perciò aveva chiamato qualcuno, gli aveva detto con timbro monocorde dove si trovava e poi l’aveva guardata mentre andava via – via da lui, com’era giusto, com’era sempre stato.

« E per cosa, allora? » domandò Hermione strappandolo ai suoi pensieri – ai suoi ricordi, una fitta di dolore e un conato di vomito ogni volta che ci rifletteva. Lui scostò lo sguardo, nascose i suoi occhi alla vista indagatoria e impaziente della ragazza, ma non impiegò molto a rispondere.

Si trattava semplicemente di decidere: dire la verità o continuare a mentire. Se la seconda opzione avrebbe potuto, forse, donargli la pace, la prima era senz’altro la via più facile da seguire.

« Voglio quanto te che la guerra finisca »

Hermione corrugò la fronte, confusa da quella risposta. Stava per aprire la bocca, quando lui parlò di nuovo. « Lui dov’è? » chiese, inchiodandola con uno sguardo implacabile che sembrava frugare in ogni angolo della sua mente.

« Chi? » domandò la giovane, pur non avendo bisogno di conferme.

« Potter » Quel nome, sulle sue labbra, aveva un suono aspro, un sapore amaro. Hermione tacque. Le labbra di Draco si arcuarono in un sorriso di strafottente compiacenza. « Chissà che reazione avrà quando vedrà la sua amichetta. Ora sì che sono anime gemelle: entrambi orrendamente sfregiat- »

Il lampo che lo colpì in pieno petto lo lasciò senza fiato per diversi minuti. Quando alzò lo sguardo su Hermione, la cui bacchetta esalava un sottile filo di fumo, lei era in piedi, un’espressione furente nello sguardo ferito. Nei suoi occhi era riflessa una luce di disgusto pura, accesa da un dolore che non le apparteneva, da una rabbia che le accendeva il viso di un rossore stranamente attraente.

« Perché? » sibilò lei, senza fiato. « Perché lo fai? Perché devi per forza farti odiare? » La sua voce si alzò fino a diventare un urlo disperato, un appello che lui percepì con un fremito mascherato da sospiro.

Non rispose. Non chinò lo sguardo, perché non riusciva a staccare gli occhi di dosso da lei, così bella nella sua indomita fierezza di amica protettiva e leale; non chinò il capo perché non voleva essere vinto da lei ancora una volta, perché non voleva mostrarsi debole, o pentito, o colpito, o ferito. Anche se tutto di lei lo rendeva debole, o pentito, o colpito, o ferito.

La seguì con gli occhi, mentre lei si allontanava con una lacrima incastrata tra le ciglia e una strana sensazione a premere nel petto; la guardò andare via ancora una volta, stavolta per sempre, e si sentì uno stupido. Uno stupido con l’orgoglio intatto, ma pur sempre uno stupido.

Incrociò solo per un istante lo sguardo confuso e infuriato di Paciock, ma lo fuggì per timore di domande a cui non avrebbe saputo rispondere. Ignorò, invece, le occhiate furiose degli altri, semplicemente perché non gli importava nulla di loro.

Le parole di Hermione riecheggiavano nella sua testa con un’eco difficile a morire, tamburi di guerra trasportati dalla frustrazione.

Perché devi per forza farti odiare?

“Perché non posso farmi amare, Hermione”.

 

***

 

Ha occhi voraci, Draco, e sorrisi enigmatici e appena accennati.

Hermione aveva imparato a osservarlo, a volte persino a studiarlo, per cercare di comprenderlo, nel tentativo – vano – di diradare il mistero dei suoi comportamenti e delle sue parole.

Alcuni volevano lasciarlo andare, perché non sopportavano più di vederlo lì, con loro, a occupare un posto che non gli spettava, a sprecare cibo che non si guadagnava. La maggior parte non volevano quel Malfoy vicino.

Neville, con un sorriso sicuro di sé, affermava che quello non era più lo stesso Malfoy di prima.

Fred e George rispondevano che non sarebbe bastato un mese di prigionia a cambiarlo, perché quella non si poteva definire esattamente una prigionia.

Ginny spingeva per interrogarlo – perché voleva per sé il piacere di torturarlo, così da pagare vecchi debiti e saldare nuove vendette.

Hermione lo guardava e non sapeva cosa pensare.

Qualche volta pensava che, prima o poi, sarebbe riuscita a sopportarlo, forse persino a instaurare un rapporto civile con lui – magari, sarebbe anche successo, un giorno, che avrebbero riso insieme, che sarebbero diventati qualcosa di simile a degli amici. Ogni tanto ci pensava. Accarezzava l’idea con un sorriso, e le veniva da ridere a quella buffa idea. Sarebbe stato strano, ma aveva imparato che di normale, nella sua vita, non c’era più niente.

Draco era scostante come il tempo e lontano come la fine della guerra. Il suo ostinato mutismo era certo preferibile ai suoi insulti sprezzanti, ma Hermione non poteva fare a meno di pensare che la sua superbia nascondesse in realtà più di quanto lui stesso fosse disposto ad ammettere. Cicatrici che nascondeva con la stessa cura con cui si impegnava ad apparire forte.

Qualche volta pensava che lui fosse simile a lei. L’idea le balenava nella mente all’improvviso, poi la scacciava con la vergogna dei pensieri scomodi. Eppure, non poteva fare a meno di riflettere che, in fondo, la sua altezzosa indifferenza, quell’armatura di offese e rabbia che si era costruito intorno, era fin troppo simile allo schermarsi di Hermione dietro libri e saggezza acquisita. Modi diversi di difendersi e nascondersi, certo, ma pur sempre tentativi di celare l’essenza sotto forme diverse e più accettabili. Espedienti che servivano solo ad accettare le cicatrici di cui la loro anima era costellata.

 

Draco aveva smesso di pensare, invece. Le sue giornate scivolavano via, come parole di una liturgia antica, scompigliate dall’immaginazione e riordinate dal fedele compasso di una quotidianità conquistata a fatica. Riposavano immobili su se stessi, i giorni, esattamente in bilico tra ricordi e sogni.

« Continuerai a rimanere isolato ancora per molto? »

Ogni tanto ci provava, la Granger, a capirlo, a comprendere la natura dei suoi gesti e il mistero dei suoi occhi sempre fissi su di lei. Lui non faceva altro che arroccarsi dentro la sua brutale arroganza.

« Lasciami stare, Granger » Era la risposta che gli piaceva di più, tanto vera quanto menzognera. La guardava negli occhi, con quella voce sommessa e dura, una minaccia latente sepolta a fatica sotto una superficie di autocontrollo che svaporava ogni volta che lei gli voltava le spalle. Perché solo quando lei non guardava poteva concedersi l’eccesso di una frustrazione sempre nascosta, negata persino a se stesso. Solo quando lei non guardava, lui poteva guardarsi dentro, scoprendo ogni giorno una cicatrice diversa e più profondo, incisa nel suo cuore.

 

***

 

Neville non si era mai sentito così stanco, ma non voleva comunque concedersi il vizio del riposo. Mentre le ultime luci di un giorno da dimenticare sfioravano pigramente la superficie ghiacciata del lago, lui e Luna trasportavano, con una certa fatica, due grossi sacchi neri verso il centro dell’accampamento.

La bionda accanto a lui sbuffò per lo sforzo. Si fermò solo per raccogliere i capelli sulla spalla destra, giusto il tempo di guardarsi intorno.

« Può aiutarci lui » disse con tono pacato e vagamente soddisfatto, come se avesse appena scoperto uno dei suoi preziosi e strani mostriciattoli. Con l’indice piccolo e affusolato indicò una sagoma scura, accucciata ai piedi di un grosso albero. Neville, le dita appese a un grosso sacco nero che cercava di trascinare senza troppo successo, lo fissò come se fosse stato l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto chiedere un favore, ma la ragazza gli risparmiò lo sgradevole compito di domandargli aiuto.

« Ciao, Malfoy, ti dispiacerebbe darci una mano? » domandò Luna con gentilezza, senza mezzi termini né giri di parole.

Il ragazzo si limitò a scuotere le spalle, senza degnarsi di voltarsi verso di lei per darle una risposta diretta.

« Questi sacchi sono un po’ pesanti » insistette allora la giovane, gli occhi chiari puntati su di lui.

« Usa la magia » bofonchiò Draco, le braccia conserte e lo sguardo ostinatamente fisso sul lago dinnanzi a sé, come se non ritenesse Luna Lovegood una persona degna della sua attenzione.

« Cerchiamo di limitarla al minimo per preservare lo Statuto di Segretezza » intervenne Neville, con un’evidente nota di fastidio nella voce. Si avvicinò ai due quel tanto che bastava per sfiorare la mano di Luna e tirarla verso di sé, in silenzio, perché era chiaro che Malfoy non li avrebbe mai aiutati, e lo infastidiva quell’atteggiamento borioso e arrogante, specie se rivolto alla sua ragazza.

Draco emise una risata bassa e monocorde, poi con sguardo beffardo e derisorio piantò i suoi occhi chiari dritti in quelli di Luna.

« Siamo tutti maghi, qui » disse, un ghigno divertito sul viso pallido e affilato.

« Non tutti » Neville strinse gli occhi e sussurrò tra i denti quella rivelazione. Poi, con una certa, malcelata soddisfazione osservò la sorpresa dipingersi sul volto di Malfoy con pennellate scure e precise.

« Perché credi che ci sia un pozzo, qui? A parte per difenderci dai Gervoni Maculati, intendo » aggiunse Luna con semplicità, stringendosi nelle spalle. Poi, con un sorriso, prese per mano Neville e si allontanò.

 

***

 

Se c’era un momento della giornata che Hermione poteva permettersi di amare, era la sera, dopo cena, quando tutti si riunivano davanti al fuoco, e in quelle fiamme bruciava la consapevolezza di una guerra interminabile, il dolore dei morti, la colpa di un’impotenza destinata a generare dolore. Era il momento che preferiva perché dentro il fuoco ogni cosa sembrava fragile, e la speranza di una fine diventava vera. Era il momento che preferiva perché quando si stringevano tutti intorno al fuoco, poteva permettersi la pace di un sorriso e il pianto dei vinti. Forse, era il momento che le piaceva di più anche perché le ricordava le serate in Sala Comune, in un tempo che sembrava appartenere a un’altra vita.

Fred e George facevano i buffoni come sempre, strappando un sorriso persino a chi un sorriso sembrava non avercelo più. Il cicaleccio che accompagnava lo scoppiettio del fuoco, quel vociare a tratti allegro, a tratti timoroso – come se avessero paura di concedersi alla pace, di lasciarsi andare alla serenità – rendeva la fine della giornata più dolce. Al di là del dolore e della paura, c’era un mondo che Hermione poteva ancora amare. Lei lo sapeva, e quei momenti la aiutavano a ricordare.

Ginny, accanto a lei, guardava le fiamme senza davvero vederle. La luce scostante delle fiamme rendeva giustizia al suo viso ingiustamente sfigurato. Come per un bisogno insito e non detto, le sue dita scivolarono accanto a quelle di Hermione, fino a stringerle con forza, come a suggellare anche fisicamente il pensiero comune che le univa – perché se a una il fuoco ricordava la passione, all’altra rammentava capelli che sentiva il bisogno di toccare.

Quando, dopo molti minuti di silenzio, Ginny si alzò, lei non sentì il bisogno di trattenerla. Hermione, però, rimase immobile dov’era, cullata dal vociare che la circondava e rassicurata dal tepore del fuoco.

« Babbani » Una voce strisciante la fece sussultare. « Mi avete portato in un posto pieno di Babbani » Il suo tono era fortemente impregnato di disprezzo. Quando lei individuò la sua sagoma, discosta dagli altri di modo che solo lei potesse vederlo, ne fu sorpresa. Nell’oscurità incompleta il grigio dei suoi occhi era scuro e profondo, eppure una scintilla inquieta li accendeva.

« Chi te l’ha detto? » domandò a bassa voce Hermione, il tono calmo e gli occhi fissi su di lui.

« Lunatica » rispose Draco, accentuando l’ironia di quel soprannome con un disgusto fin troppo eccessivo.  Lei deglutì, ingoiando la collera leggera che il suo atteggiamento provocava, poi spostò lo sguardo sulle fiamme, offrendogli il profilo piccolo e gentile del naso e quello, più promettente, delle labbra opache.

« Stavate distruggendo tutto » La voce di Hermione sembrava provenire dai più profondi recessi della sua anima. « Non potevamo permettervi anche questo. Avevano bisogno di aiuto, di protezione; nient’altro potrebbe salvarli, non possono difendersi da qualcosa di cui non conoscono nemmeno l’esistenza » C’era una rabbia latente che vibrava nella sua voce, cupa e diaframmatica, eppure il suo viso sembrava sereno.

Per tutta risposta, Draco emise una bassa risata impregnata di sarcasmo.

« Lo sapevo » Il suo ghigno beffardo era visibile persino nel buio. « Sapevo che non potevate essere così tanti. Siete solo un pugno di morti di fame che sperano ancora di poter vincere » Un’altra risata, stavolta più cattiva. Le sopracciglia di Hermione si corrugarono appena, ma il suo viso rimase ostinatamente rivolto verso le fiamme, cosicché lui poteva vederne solo metà. « Ma non avete idea di quello di cui sono capaci » Il tono di Malfoy vibrò appena, ma abbastanza perché la ragazza cogliesse la nota di panico che ne aveva corrotto la voce. L’angolo della bocca di Hermione si arcuò in un sorriso.

« Appena un mese, Malfoy, e già non ti senti più parte di loro? » lo provocò, e questa volta piantò entrambi gli occhi su di lui.

Gli occhi di Hermione.

Draco non avrebbe potuto conoscere condanna peggiore che quello sguardo puntato su di lui, come un pugnale in pieno petto. Il ringhio roco che gli sfuggì dalle labbra sembrava il lamento di una bestia ferita, un’eco appena udibile nella notte.

« Come? » domandò, confuso, gli occhi improvvisamente incupiti da un velo di perplessità.

« Hai detto sono. “Quello di cui sono capaci” » recitò lei, con una punta di evidente soddisfazione nella voce.

« Sai cosa intendevo » ribatté Draco, nascondendo l’improvviso timore della voce dietro un petto gonfio e una spavalderia di carta.

« Anche noi abbiamo le nostri armi segrete, Malfoy » Hermione si voltò, regalandogli un sollievo di cui il ragazzo avrebbe dovuto esserle grato, se non fosse che sentiva addosso quello sguardo addosso, a frugare in ogni recesso della sua anima con la prepotenza di un amore scomodo.

Draco stava aprendo la bocca per ribattere, quando la voce di George risuonò alta e gioconda nell’accampamento.

« Ehi, Hermione, quel tipo ti importuna? » Entrambi avvertirono i rigidi sguardi dei presenti che si puntavano su di loro, ma se lei ne era abituata, lui avvertì, fastidioso, il bisogno di fuggire da quelle centinaia di occhi fissi su di lui.

« Non lo so » rispose lei, un sorriso a fior di labbra che non riusciva a trattenere. Si voltò verso di lui con uno sguardo limpido, privo di ogni pregiudizio o ombra, e quando parlò, anche la sua voce era trasparente. « Mi importuni? »

Draco le regalò un ultimo sguardo ferito, prima di sparire nel buio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Eloise.

 

   
 
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