6.
Cicatrici
Hermione
trasse un respiro profondo, gli occhi chiusi e una lacrima a disegnarle il
profilo della gota arrossata. Il riposo era un eccesso che non si poteva
concedere ma in quel momento, mentre premeva con forza la mano sul lato destro
del torace, ne sentiva il bisogno. Abbassò il capo e osò lanciare un’occhiata
alla ferita pulsante, per constatarne la gravità: una grossa trave di ferro
sbucava, come un macabro bruco da una mela, dal fiore scarlatto che era la sua
pelle. Un rantolo di dolore e paura le sfuggì dalle labbra, mentre un’altra
lacrima si univa alle altre.
La giovane strega abbandonò la testa contro il tronco
dell’albero accanto al quale si era accasciata, ormai priva di forze. La mano
destra era ancora stretta intorno alla bacchetta; la sinistra, poggiata
malamente sulla ferita nel tentativo di fermare l’emorragia nonostante
l’acuminato arnese, tremava bruscamente.
Hermione
trasse un respiro profondo, e poi un altro: ormai era una prassi quotidiana,
non un lavoro di cervello, tentare di trovare in se stessi un equilibrio capace
di difendere dal dolore e dalla paura.
Intorno a sé udì gli schiocchi delle Materializzazioni dei
suoi amici. Li contò mentalmente, nella speranza di contarne tredici – in
tredici erano partiti, in tredici dovevano tornare – e nel tentativo di
rimanere lucida e cosciente.
Uno. Due. Cinque. Nove. Dieci. Undici. Dodici. A ogni
schiocco un respiro, di sollievo, di bisogno. Dodici.
Un minuto, due minuti, cinque minuti, dieci minuti. Ancora
dodici. Poi, il tredicesimo. Hermione sorrise e si
concesse il suo meritato riposo. Mentre chiudeva gli occhi, le sembrò di vedere
due lampi grigi in quel doloroso sollievo che era abbandonarsi al sonno.
***
Quando Hermione aprì gli occhi, la
prima percezione che avvertì fu la mancanza alla mano destra, troppo vuota.
Scattò a sedere con gli occhi spalancati dal terrore, perchè
non era più abituata a trovarsi sprovvista di bacchetta. Senza arma e difesa si
sentiva vulnerabile. La spezzò il dolore che provò all’altezza del torace, e fu
costretta a stendersi di nuovo, un gemito a sfuggirle dalle labbra.
« Va tutto bene, Hermione » Gli
occhi enormi di Luna sembravano due fari nella semioscurità della tenda, due
luci di speranza, di salvezza.
« Ginny? » Hermione
aveva la bocca asciutta, la gola secca e la voce le tremava. Chiuse gli occhi,
nella speranza che almeno quella sensazione di vorticare incessante si
spegnesse.
« Sta bene » rispose con pacatezza Luna.
« Neville? » chiese ancora la ragazza. L’amica esitò un
attimo di troppo, ed Hermione si ritrovò con gli
occhi spalancati dal terrore su di lei.
« È già ripartito » la bionda tentò di nascondere l’amarezza
e il disappunto dietro un sorriso di rassicurazione. « Vado a chiamare Abigail, mi ha detto di avvertirla non appena ti fossi
svegliata. Non fare sforzi »
Hermione
chiuse gli occhi e rimase stesa, immobile. Al di là delle palpebre, intuì la
luce della torcia che si affievoliva e quella, molto più forte, del sole, che
penetrava per un istante e poi si estingueva. I rumori dell’esterno giungevano
attutiti: passi, voci, cinguetti e fruscii, era tutto ovattato dal rassicurante
tepore della tenda. Il dolore, però, niente poteva spegnerlo: era un tamburo
atroce e insopportabile.
« Sei sveglia? » Un sussurro lieve, preoccupato e incerto.
« Ginny? » La voce di Hermione tremò, di paura e sollievo, dolore e piacere. Con
gli occhi chiusi, allungò una mano, nel buio, e quando l’amica la strinse si
sentì improvvisamente meglio. Una lacrima calda le scivolò lungo la tempia.
« Stai bene? » pigolò la piccola Weasley,
preoccupata. La giovane strega dovette appellarsi a tutta la forza che aveva in
corpo per rispondere. “Fa male”, avrebbe voluto dire, “fa un male terribile”;
invece ingoiò le lamentele e la sofferenza e annuì, perché sapeva che la voce
l’avrebbe tradita.
« Avevi un polmone bucato. Quando Malfoy
ti ha portata qui respiravi appena, Abigail ha detto
che avevi le pleure allagate dal sangue, stavi affogando nel tuo sangue,
eravamo così preoccupati, noi non riuscivamo a trovarti… » Ginny
esplose in un pianto disperato. Mentre le parole le sfuggivano dalle labbra
come una raffica di proiettili vaganti – parole incerte e vacillanti, voce
tremante e timbro sfumato di terrore e panico e paura – Hermione
riuscì a percepire solo una cosa, in quel discorso, nota stonata e nome fuori
luogo. Allora aprì le palpebre, ma prima di poter chiedere l’immagine che le
entrò negli occhi le gelò il sangue nelle vene e congelò ogni parola sulla
punta della lingua.
« Che è successo? »
« … non hai idea di quanto ci ha messo, ore a medicarti… come?
» Ginny sembrò accorgersi solo in quel momento dello
sguardo dell’amica fisso su di lei. Abbassò gli occhi su Hermione
solo per un istante, giusto il tempo di rendersi conto che la stava osservando
con occhi colmi di terrore e dispiacere e compassione e pena, poi le strinse la
mano e si concentrò su un particolare del tutto privo di importanza – la benda
di Hermione, le lenzuola, una venatura del legno,
qualsiasi cosa pur di non specchiarsi nella verità incontrovertibile di quello
che era successo.
Hermione avrebbe
dovuto capirlo dalla sua voce, che c’era qualcosa che non andava – quella voce
così insicura e traballante non poteva appartenere a Ginevra Weasley – ma il dolore l’aveva distratta. L’avrebbe dovuto
capire dalle sue lacrime – perché Ginny non aveva mai
pianto, in due anni di guerra. Mai.
« Abigail mi ha detto di darti
questo » Ginny slacciò la presa dalla mano dell’amica
e si sporse per prendere una tazza, colma di un liquido maleodorante. « È un
po’ occupata, adesso, Neville è appena tornato con la sua squadra e Adam ha
qualcosa che non va, non si capisce bene… »
« Ginny, che cosa ti è successo? »
Il ciarlare della ragazza non era una distrazione sufficiente; forse, era solo
un’ulteriore conferma, rafforzativo necessario a porle di nuovo quella domanda.
« Non lo so, Hermione » La giovane
emise un sospiro stanco, rassegnato. « Non mi ricordo. Ricordo solo qualcosa
che mi colpiva in faccia, non ho visto cos’era. Non so se era un incantesimo o
qualcos’altro. Mi ha riportata Fred. O George » Un lieve sorriso, amaro quanto
la sua voce, che si spezzò piano, con la dolcezza di uno sguardo orbo, a metà.
« Non ho ancora avuto il coraggio di guardarmi allo specchio » sussurrò piano,
e finalmente guardò Hermione, ma senza vederla
davvero, perché non poteva più farlo, non completamente, guardava Hermione ma con un occhio solo e senza guardarla negli
occhi, perché le pupille di Hermione erano specchi e
lei, specchi, non ne voleva vedere, non ancora, perché gli unici specchi che
avrebbe voluto erano verdi, ma quegli specchi erano lontani, persi « E se… » un
singhiozzo, il terrore a spezzare ogni singola cellula del suo essere « Io non…
» La voce che perde colpi, tossisce e si ferma come un treno sfinito, esausto.
« E se… » Perché non riusciva a dirlo, a pronunciare il suo nome o forse la sua
paura.
Allora Hermione la prese per mano.
« A Harry non importa. Non gli importerà, lo sai. Sei
bellissima, Ginny, lo sei sempre stata… » La presa
calda non era rassicurazione sufficiente, per lei.
« Non sai mentire, Hermione » Era
dura, adesso, la voce di Ginny, e ferma. L’unico
occhio che lei poteva vedere era implacabile e rabbioso, duro e diretto com’era
sempre stata lei – lei, che però non era più lei. Era bellissima, Ginny, ora non lo era più. Una cicatrice le deturpava irrimediabilmente
il viso, tagliandole a metà l’occhio destro. La pupilla lattiginosa in
quell’orbita turgida e sfregiata era stata il prezzo che aveva dovuto pagare
per il suo amore – nel tentativo di tacere e aiutare.
Era bellissima, Ginny, ma ora non lo
era più, ed Hermione non riusciva a non pensare che
quella fosse una crudeltà forse peggiore della morte, perché non se lo
meritava, perché la sua bellezza doveva rimanere intatta, perché forse sarebbe
stato meglio se fosse successo a lei, che tanto non era dotata di un grande
fascino.
« Abigail non ha potuto fare
niente? » domandò piano Hermione, ingoiando un
boccone amaro.
« È magia nera, e lei è troppo inesperta. Non ha saputo fare
di meglio. La scheggia mi stava trafiggendo il cervello, è riuscita appena ad
estrarla » Ginny chinò il capo, incapace di guardare
il viso dell’amica, adesso. « Meglio cieca che morta, comunque » aggiunse
asciutta, con un filo di voce, come se non ci credesse più di tanto.
« Mi dispiace » La voce di Hermione
si spezzò. Un’altra lacrima, più dolorosa delle precedenti, in modo implacabile
e inevitabile.
« Non è colpa tua » mormorò Ginny.
Il suo tono era duro, ma sincero. Eppure, Hermione
non poté fare a meno di pensare che non era vero. Aveva organizzato lei le
squadre; lei aveva chiesto all’amica di affiancarla, per paura, perché le
mancava la sicurezza se non aveva un’amica accanto – perché morire dentro gli
occhi di Ginny sarebbe stato meglio che morire da
sola. Era colpa sua perché era stata vigliacca, ed era stata vigliacca perché
era più egoista che leale. Perché non era una vera Grifondoro.
« Bevi questa » disse l’amica dopo qualche minuto di
silenzio. La sua affermazione aveva qualcosa di definitivo, perciò Hermione non aggiunse nient’altro: ci sarebbe stato tempo,
per parlarne, per superare anche quel dolore.
Ma ci sarebbe
stato davvero?
Non poté fare a meno di domandarselo, mentre con una smorfia
di disgusto mandava giù quell’intruglio, e un calore piacevole le intorpidiva
le membra.
Passò del tempo vuoto, durante il quale Hermione
cercò di dominare il desiderio di abbandonarsi al sonno e alla sofferenza, e Ginny la guardava impensierita, chiusa in pensieri che
erano solo suoi.
« Luna mi ha detto che Neville è ripartito » disse la maggiore
dopo un po’, nel tentativo di non addormentarsi di nuovo, di spazzare via la
colpevolezza e il dolore.
« È tornato pochi minuti fa. I Mangiamorte
avevano rinchiuso alcuni maghi e Babbani dentro un
casolare, nell’Essex, e si stavano divertendo » Ginny strinse i denti per dominare il senso di nausea che
l’idea le provocava. La rabbia stillava da ogni parola. « Li hanno salvati
quasi tutti, ma alcuni hanno preferito nascondersi altrove. Meglio per noi,
meno bocche da sfamare » La durezza di quell’affermazione era così tanto in
contrasto con la dolcezza dei lineamenti di Ginny,
che Hermione non poté fare a meno di aprire gli occhi
per assicurarsi che fosse ancora lei a parlare. La vista di quella cicatrice,
però, la convinse a richiuderli di nuovo, prima che un conato di vomito le
risalisse su per l’esofago. Il senso di colpa per non averla aiutata, salvata,
per non essersi trovata lì al momento giusto, si mescolò all’acuto dispiacere
per l’amica, che avrebbe dovuto sopportare, oltre alla guerra, anche quella
battaglia psicologica per accettare se stessa nonostante quella cicatrice
deturpante che lei, al momento, nemmeno riusciva a guardare. Era Ginny, che parlava, ma non era più lei.
« Che ha Adam? » domandò, cercando di appellarsi a frammenti
di ricordi, alla poca lucidità che le era rimasta addosso.
« Non lo so. Neville dice che è stato colpito da un Imperius, ma qualcosa deve essere andato storto. È convinto
di avere cinque anni, continua a ripetere di non voler aspettare Babbo Natale
per mangiare le uova di cioccolato » L’evidente confusione sul viso di Ginny strappò a Hermione una
risata di puro divertimento. Non doveva essere divertente, non doveva ridere;
non poteva permettersi di prendersi gioco del malore di uno dei suoi compagni,
ma quella smorfia perplessa sul viso dell’amica era quanto di più simile al
passato avesse in quel momento, e il ricordo del Natale, della Pasqua, il
pensiero che, nonostante tutto quello che stava succedendo là fuori, quelle
verità esistessero anche dentro la testa di qualcun altro, nel passato di
qualcun altro, la faceva sentire meglio.
Anche se Ginny non aveva idea di
cosa fossero Babbo Natale e le uova di cioccolato, anche se inizialmente sembrò
preoccupata da quella risata fuori luogo che pareva l’inizio di una precoce e
preoccupante pazzia, non potè fare a meno di ridere
anche lei. Ricordando, così, che c’era ancora qualcosa per cui ne valeva la
pena.
***
Era una mattina pacifica, come non ne esistevano da troppo
tempo. Il cielo, una placca d’argento sopra un deserto brullo, emanava i
bagliori bianchi di un inverno senza clemenza. Un fruscio leggiadro viaggiava
tra le fronde degli alberi; qualche foglia ocra si staccava dai lunghi rami
ombrosi, volteggiava per qualche istante nell’aria e poi si posava sulla
superficie ghiacciata del laghetto. Il lontano gracchiare di un corvo
stemperava quell’atmosfera quieta.
L’aria era pulita, ma Hermione non
riuscì a respirare a pieni polmoni, perché, nonostante le cure di Abigail, la Medimaga
dell’accampamento, il dolore era ancora vivido e pulsante. Mentre si sedeva
sulla riva del lago, accanto al biondo che ormai era una presenza fissa, si
sentì stranamente serena. Non lo guardò negli occhi, presa com’era a fissare
quel cielo terso, privo di pinnacoli di fumo o simboli di morte. Si chinò
lentamente, emettendo un unico gemito soffocato, perché alcuni movimenti le
provocavano ancora una certa sofferenza, poi, sempre con lo sguardo puntato
verso la volta celeste, parlò.
« E così, ti devo la vita per la terza volta » Un lieve
sorriso le arcuò le labbra. Con la coda dell’occhio, vide l’espressione
immobile del ragazzo accanto a lui. Sembrava indifferente, disinteressato a
quello che gli succedeva intorno e assolutamente insensibile alla sua presenza. Non poteva
sapere quanto amore stesse bruciando dentro di lui, in quel momento, né quanto
quella piccola vicinanza lo facesse fremere, bravo com’era a nascondere le sue
emozioni. « Attento, Malfoy. Sta diventando un vizio.
La gente potrebbe anche pensare che sei dei buoni » continuò lei,
sdrammatizzando con una risata cristallina che, però, le strappò una smorfia di
sofferenza.
« Che vuoi? » sputò scontroso, scoccandogli un’occhiata priva
di gentilezza. Hermione si voltò verso di lui e
incrociò mitemente il suo sguardo.
« Niente. Sono venuta a ringraziarti » rispose con
semplicità. Lui la guardò con una vaga incredulità, smorzata dalla smorfia
beffarda sul volto: le sue labbra si arricciarono in un sorriso di compiacenza
che fu solo l’ombra di un momento.
« Non l’ho fatto per te » disse asciutto. Tentare di negare
sarebbe stato stupido, era certo che i suoi amici le avessero raccontato che
era stato lui a trovarla. Quello che non le avevano detto – quello che non
potevano sapere – era quanto tempo avesse perso a guardarla. Quando si era
Materializzata lì, sulle rive di quel lago che era diventato il suo rifugio e
la sua fuga, si era sentito ferito e offeso, invaso nel suo territorio. Poi
aveva capito che era lei, e il fastidio si era trasformato in speranza, e poi
in panico. Questo non gli aveva impedito, però, di rimanere per interminabili
minuti ad osservarla.
Hermione era
bellissima.
Draco non aveva mai
avuto la possibilità di vederla così da vicino, né aveva mai nemmeno osato
sperare sfiorarla. Ora che ne aveva l’occasione, era certo che la morte non
gliel’avrebbe portata via: sarebbe stato troppo crudele. Così le aveva sfiorato
la pelle, percorso gli zigomi, accarezzato le palpebre. Quando i suoi
polpastrelli erano passati sopra le sue labbra, era stato il momento in cui il
fremito si era trasformato in urgenza. Sentirsi il suo corpo addosso sarebbe
stato tanto doloroso che, ne era certo, si sarebbe pentito di non averla
lasciata morire lì; perciò aveva chiamato qualcuno, gli aveva detto con timbro
monocorde dove si trovava e poi l’aveva guardata mentre andava via – via da
lui, com’era giusto, com’era sempre stato.
« E per cosa, allora? » domandò Hermione
strappandolo ai suoi pensieri – ai suoi ricordi, una fitta di dolore e un
conato di vomito ogni volta che ci rifletteva. Lui scostò lo sguardo, nascose i
suoi occhi alla vista indagatoria e impaziente della ragazza, ma non impiegò
molto a rispondere.
Si trattava semplicemente di decidere: dire la verità o
continuare a mentire. Se la seconda opzione avrebbe potuto, forse, donargli la
pace, la prima era senz’altro la via più facile da seguire.
« Voglio quanto te che la guerra finisca »
Hermione
corrugò la fronte, confusa da quella risposta. Stava per aprire la bocca,
quando lui parlò di nuovo. « Lui dov’è? » chiese, inchiodandola con uno sguardo
implacabile che sembrava frugare in ogni angolo della sua mente.
« Chi? » domandò la giovane, pur non avendo bisogno di
conferme.
« Potter » Quel nome, sulle sue labbra, aveva un suono aspro,
un sapore amaro. Hermione tacque. Le labbra di Draco si arcuarono in un sorriso di strafottente
compiacenza. « Chissà che reazione avrà quando vedrà la sua amichetta. Ora sì
che sono anime gemelle: entrambi orrendamente sfregiat-
»
Il lampo che lo colpì in pieno petto lo lasciò senza fiato
per diversi minuti. Quando alzò lo sguardo su Hermione,
la cui bacchetta esalava un sottile filo di fumo, lei era in piedi,
un’espressione furente nello sguardo ferito. Nei suoi occhi era riflessa una
luce di disgusto pura, accesa da un dolore che non le apparteneva, da una
rabbia che le accendeva il viso di un rossore stranamente attraente.
« Perché? » sibilò lei, senza fiato. « Perché lo fai? Perché
devi per forza farti odiare? » La sua voce si alzò fino a diventare un urlo
disperato, un appello che lui percepì con un fremito mascherato da sospiro.
Non rispose. Non chinò lo sguardo, perché non riusciva a
staccare gli occhi di dosso da lei, così bella nella sua indomita fierezza di
amica protettiva e leale; non chinò il capo perché non voleva essere vinto da
lei ancora una volta, perché non voleva mostrarsi debole, o pentito, o colpito,
o ferito. Anche se tutto di lei lo rendeva debole, o pentito, o colpito, o
ferito.
La seguì con gli occhi, mentre lei si allontanava con una
lacrima incastrata tra le ciglia e una strana sensazione a premere nel petto;
la guardò andare via ancora una volta, stavolta per sempre, e si sentì uno
stupido. Uno stupido con l’orgoglio intatto, ma pur sempre uno stupido.
Incrociò solo per un istante lo sguardo confuso e infuriato
di Paciock, ma lo fuggì per timore di domande a cui
non avrebbe saputo rispondere. Ignorò, invece, le occhiate furiose degli altri,
semplicemente perché non gli importava nulla di loro.
Le parole di Hermione
riecheggiavano nella sua testa con un’eco difficile a morire, tamburi di guerra
trasportati dalla frustrazione.
Perché devi per
forza farti odiare?
“Perché non posso farmi amare, Hermione”.
***
Ha occhi voraci, Draco, e sorrisi
enigmatici e appena accennati.
Hermione aveva
imparato a osservarlo, a volte persino a studiarlo, per cercare di
comprenderlo, nel tentativo – vano – di diradare il mistero dei suoi
comportamenti e delle sue parole.
Alcuni volevano lasciarlo andare, perché non sopportavano più
di vederlo lì, con loro, a occupare un posto che non gli spettava, a sprecare
cibo che non si guadagnava. La maggior parte non volevano quel Malfoy vicino.
Neville, con un sorriso sicuro di sé, affermava che quello
non era più lo stesso Malfoy di prima.
Fred e George rispondevano che non sarebbe bastato un mese di
prigionia a cambiarlo, perché quella non si poteva definire esattamente una
prigionia.
Ginny spingeva per
interrogarlo – perché voleva per sé il piacere di torturarlo, così da pagare
vecchi debiti e saldare nuove vendette.
Hermione lo
guardava e non sapeva cosa pensare.
Qualche volta pensava che, prima o poi, sarebbe riuscita a
sopportarlo, forse persino a instaurare un rapporto civile con lui – magari,
sarebbe anche successo, un giorno, che avrebbero riso insieme, che sarebbero
diventati qualcosa di simile a degli amici. Ogni tanto ci pensava. Accarezzava
l’idea con un sorriso, e le veniva da ridere a quella buffa idea. Sarebbe stato
strano, ma aveva imparato che di normale, nella sua vita, non c’era più niente.
Draco era scostante
come il tempo e lontano come la fine della guerra. Il suo ostinato mutismo era
certo preferibile ai suoi insulti sprezzanti, ma Hermione
non poteva fare a meno di pensare che la sua superbia nascondesse in realtà più
di quanto lui stesso fosse disposto ad ammettere. Cicatrici che nascondeva con
la stessa cura con cui si impegnava ad apparire forte.
Qualche volta pensava che lui fosse simile a lei. L’idea le
balenava nella mente all’improvviso, poi la scacciava con la vergogna dei
pensieri scomodi. Eppure, non poteva fare a meno di riflettere che, in fondo,
la sua altezzosa indifferenza, quell’armatura di offese e rabbia che si era
costruito intorno, era fin troppo simile allo schermarsi di Hermione
dietro libri e saggezza acquisita. Modi diversi di difendersi e nascondersi,
certo, ma pur sempre tentativi di celare l’essenza sotto forme diverse e più
accettabili. Espedienti che servivano solo ad accettare le cicatrici di cui la
loro anima era costellata.
Draco aveva smesso di
pensare, invece. Le sue giornate scivolavano via, come parole di una liturgia
antica, scompigliate dall’immaginazione e riordinate dal fedele compasso di una
quotidianità conquistata a fatica. Riposavano immobili su se stessi, i giorni,
esattamente in bilico tra ricordi e sogni.
« Continuerai a rimanere isolato ancora per molto? »
Ogni tanto ci provava, la Granger,
a capirlo, a comprendere la natura dei suoi gesti e il mistero dei suoi occhi
sempre fissi su di lei. Lui non faceva altro che arroccarsi dentro la sua
brutale arroganza.
« Lasciami stare, Granger » Era la
risposta che gli piaceva di più, tanto vera quanto menzognera. La guardava
negli occhi, con quella
voce sommessa e dura, una minaccia latente sepolta a fatica sotto una
superficie di autocontrollo che svaporava ogni volta che lei gli voltava le
spalle. Perché solo quando lei non guardava poteva concedersi l’eccesso di una
frustrazione sempre nascosta, negata persino a se stesso. Solo quando lei non
guardava, lui poteva guardarsi dentro, scoprendo ogni giorno una cicatrice
diversa e più profondo, incisa nel suo cuore.
***
Neville non si era mai sentito così stanco, ma non voleva
comunque concedersi il vizio del riposo. Mentre le ultime luci di un giorno da
dimenticare sfioravano pigramente la superficie ghiacciata del lago, lui e Luna
trasportavano, con una certa fatica, due grossi sacchi neri verso il centro
dell’accampamento.
La bionda accanto a lui sbuffò per lo sforzo. Si fermò solo
per raccogliere i capelli sulla spalla destra, giusto il tempo di guardarsi
intorno.
« Può aiutarci lui » disse con tono pacato e vagamente
soddisfatto, come se avesse appena scoperto uno dei suoi preziosi e strani
mostriciattoli. Con l’indice piccolo e affusolato indicò una sagoma scura,
accucciata ai piedi di un grosso albero. Neville, le dita appese a un grosso
sacco nero che cercava di trascinare senza troppo successo, lo fissò come se
fosse stato l’ultima persona al mondo a cui avrebbe voluto chiedere un favore,
ma la ragazza gli risparmiò lo sgradevole compito di domandargli aiuto.
« Ciao, Malfoy, ti dispiacerebbe
darci una mano? » domandò Luna con gentilezza, senza mezzi termini né giri di
parole.
Il ragazzo si limitò a scuotere le spalle, senza degnarsi di
voltarsi verso di lei per darle una risposta diretta.
« Questi sacchi sono un po’ pesanti » insistette allora la
giovane, gli occhi chiari puntati su di lui.
« Usa la magia » bofonchiò Draco,
le braccia conserte e lo sguardo ostinatamente fisso sul lago dinnanzi a sé,
come se non ritenesse Luna Lovegood una persona degna
della sua attenzione.
« Cerchiamo di limitarla al minimo per preservare lo Statuto
di Segretezza » intervenne Neville, con un’evidente nota di fastidio nella
voce. Si avvicinò ai due quel tanto che bastava per sfiorare la mano di Luna e
tirarla verso di sé, in silenzio, perché era chiaro che Malfoy
non li avrebbe mai aiutati, e lo infastidiva quell’atteggiamento borioso e
arrogante, specie se rivolto alla sua ragazza.
Draco emise una risata
bassa e monocorde, poi con sguardo beffardo e derisorio piantò i suoi occhi
chiari dritti in quelli di Luna.
« Siamo tutti maghi, qui » disse, un ghigno divertito sul
viso pallido e affilato.
« Non tutti » Neville strinse gli occhi e sussurrò tra i
denti quella rivelazione. Poi, con una certa, malcelata soddisfazione osservò
la sorpresa dipingersi sul volto di Malfoy con
pennellate scure e precise.
« Perché credi che ci sia un pozzo, qui? A parte per
difenderci dai Gervoni Maculati, intendo » aggiunse
Luna con semplicità, stringendosi nelle spalle. Poi, con un sorriso, prese per
mano Neville e si allontanò.
***
Se c’era un momento della giornata che
Hermione poteva permettersi di amare, era la sera,
dopo cena, quando tutti si riunivano davanti al fuoco, e in quelle fiamme
bruciava la consapevolezza di una guerra interminabile, il dolore dei morti, la
colpa di un’impotenza destinata a generare dolore. Era il momento che preferiva
perché dentro il fuoco ogni cosa sembrava fragile, e la speranza di una fine
diventava vera. Era il momento che preferiva perché quando si stringevano tutti
intorno al fuoco, poteva permettersi la pace di un sorriso e il pianto dei vinti.
Forse, era il momento che le piaceva di più anche perché le ricordava le serate
in Sala Comune, in un tempo che sembrava appartenere a un’altra vita.
Fred e George facevano i buffoni come
sempre, strappando un sorriso persino a chi un sorriso sembrava non avercelo
più. Il cicaleccio che accompagnava lo scoppiettio del fuoco, quel vociare a
tratti allegro, a tratti timoroso – come se avessero paura di concedersi alla
pace, di lasciarsi andare alla serenità – rendeva la fine della giornata più
dolce. Al di là del dolore e della paura, c’era un mondo che Hermione poteva ancora amare. Lei lo sapeva, e quei momenti
la aiutavano a ricordare.
Ginny, accanto a lei, guardava le fiamme
senza davvero vederle. La luce scostante delle fiamme rendeva giustizia al suo viso
ingiustamente sfigurato. Come per un bisogno insito e non detto, le sue dita
scivolarono accanto a quelle di Hermione, fino a
stringerle con forza, come a suggellare anche fisicamente il pensiero comune
che le univa – perché se a una il fuoco ricordava la passione, all’altra
rammentava capelli che sentiva il bisogno di toccare.
Quando, dopo molti minuti di silenzio,
Ginny si alzò, lei non sentì il bisogno di
trattenerla. Hermione, però, rimase immobile dov’era,
cullata dal vociare che la circondava e rassicurata dal tepore del fuoco.
« Babbani » Una voce strisciante la fece
sussultare. «
Mi avete portato in un posto pieno di Babbani » Il suo tono era fortemente impregnato
di disprezzo. Quando lei individuò la sua sagoma, discosta dagli altri di modo
che solo lei potesse vederlo, ne fu sorpresa. Nell’oscurità incompleta il
grigio dei suoi occhi era scuro e profondo, eppure una scintilla inquieta li
accendeva.
« Chi te l’ha detto? » domandò a bassa voce Hermione, il tono calmo e gli occhi fissi su di lui.
« Lunatica » rispose Draco,
accentuando l’ironia di quel soprannome con un disgusto fin troppo eccessivo. Lei deglutì, ingoiando la collera leggera che
il suo atteggiamento provocava, poi spostò lo sguardo sulle fiamme, offrendogli
il profilo piccolo e gentile del naso e quello, più promettente, delle labbra
opache.
« Stavate distruggendo tutto » La voce di Hermione
sembrava provenire dai più profondi recessi della sua anima. « Non potevamo permettervi anche
questo. Avevano bisogno di aiuto, di protezione; nient’altro potrebbe salvarli,
non possono difendersi da qualcosa di cui non conoscono nemmeno l’esistenza » C’era una rabbia latente che vibrava
nella sua voce, cupa e diaframmatica, eppure il suo viso sembrava sereno.
Per
tutta risposta, Draco emise una bassa risata
impregnata di sarcasmo.
« Lo sapevo » Il suo ghigno beffardo era visibile
persino nel buio. «
Sapevo che non potevate essere così tanti. Siete solo un pugno di morti di fame
che sperano ancora di poter vincere » Un’altra risata, stavolta più
cattiva. Le sopracciglia di Hermione si corrugarono
appena, ma il suo viso rimase ostinatamente rivolto verso le fiamme, cosicché
lui poteva vederne solo metà. «
Ma non avete idea di quello di cui
sono capaci » Il tono di Malfoy vibrò appena, ma abbastanza perché la ragazza
cogliesse la nota di panico che ne aveva corrotto la voce. L’angolo della bocca
di Hermione si arcuò in un sorriso.
« Appena un mese, Malfoy, e già non
ti senti più parte di loro? » lo provocò, e questa volta piantò entrambi gli
occhi su di lui.
Gli occhi di Hermione.
Draco non avrebbe potuto conoscere condanna peggiore che quello
sguardo puntato su di lui, come un pugnale in pieno petto. Il ringhio roco che
gli sfuggì dalle labbra sembrava il lamento di una bestia ferita, un’eco appena
udibile nella notte.
« Come? » domandò, confuso, gli occhi improvvisamente
incupiti da un velo di perplessità.
« Hai detto sono.
“Quello di cui sono capaci” » recitò lei, con una punta di evidente
soddisfazione nella voce.
« Sai cosa intendevo » ribatté Draco,
nascondendo l’improvviso timore della voce dietro un petto gonfio e una
spavalderia di carta.
« Anche noi abbiamo le nostri armi segrete, Malfoy » Hermione si voltò,
regalandogli un sollievo di cui il ragazzo avrebbe dovuto esserle grato, se non
fosse che sentiva addosso quello sguardo addosso, a frugare in ogni recesso
della sua anima con la prepotenza di un amore scomodo.
Draco stava aprendo la bocca per ribattere, quando la voce di
George risuonò alta e gioconda nell’accampamento.
« Ehi, Hermione, quel tipo ti
importuna? » Entrambi avvertirono i rigidi sguardi dei presenti che si
puntavano su di loro, ma se lei ne era abituata, lui avvertì, fastidioso, il
bisogno di fuggire da quelle centinaia di occhi fissi su di lui.
« Non lo so » rispose lei, un sorriso a fior di labbra che
non riusciva a trattenere. Si voltò verso di lui con uno sguardo limpido, privo
di ogni pregiudizio o ombra, e quando parlò, anche la sua voce era trasparente.
« Mi importuni? »
Draco le regalò un ultimo sguardo ferito, prima di sparire nel
buio.