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Autore: Amartema    01/10/2013    10 recensioni
Dall’altra parte c’ero io, con una madre che potrei definire la versione femminile e degenerata di Buck, lei vittima di uno stupro e costretta a mantenere il frutto di quella violenza: me. Ero ormai abituata ai suoi sguardi, ogni volta che mi osservava, sapevo che in me vedeva il suo stupratore, sapevo che era costretta a rivivere all’infinito quell’evento, conoscevo ormai il suo odio, palpabile sulla mia pelle. Io che involontariamente le facevo ritornare alla mente l’inferno, un inferno che puntualmente mi ritornava addosso triplicato in potenza.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Animi inversi




Un bicchiere di whisky e poche gocce di sonnifero bastarono per farmi crollare sul divano in pelle di Robert. Mi svegliai la mattina dopo, in una pozza di sudore; il risveglio, portato da un lieve fitta di dolore all’altezza del taglio era accompagnato da un opprimente mal di testa: il pianto, il whisky e il sonnifero mi portarono un effetto simile ad un pesante post bronza.

« Diavolo. »

Mi alzai, trascinandomi con passo lento e pesante verso il piccolo specchietto poggiato contro la porta; la visione del mio stesso volto, pallido e con occhi arrossati e adornati da occhiaie violacee, impiegarono poco per lasciarmi scorrere alla mente la notte passata. Distolsi lo sguardo dalla mia immagine riflessa e iniziai a muovermi verso il bagno. Potevo sentire la voce di Robert e quella di Michael, il vecchio cuoco, provenire dalla cucina; non era mia intenzione attirare i loro sguardi su di me, così iniziai a rallentare il passo e muovermi con più cautela, cercando di emettere il meno rumore possibile. In bagno non riuscì a far molto per quel volto stanco, se non donargli una veloce rinfrescata e così mi dedicai con maggiore attenzione al cambio di quelle bende ormai macchiate di sangue. Il taglio si estendeva verticalmente per circa dieci centimetri e dato i piccoli punti che lo mantenevano chiuso, compresi che Robert durante la notte aveva chiamato il vecchio Johnson. Il suono del campanello legato alla porta d’ingresso del locale, mi fece riprendere contatto con la realtà, tanto da condurre lo sguardo verso l’orologio: le nove.

Avvolsi la ferita con bene pulite, recuperai le vecchie e velocemente abbandonai la piccola stanzetta. Feci una rapida sosta nel magazzino, solo per liberarmi dei rifiuti e raccolsi una delle camicie in jeans di Robert. Era larga, sin troppo ma il come sarei apparsa in questo senso, non mi interessava, la cosa importante erano nascondere quelle strisce bianche che mi avvolgevano il braccio.

« Dov’è Jess? »

La voce era inconfondibile, Buck con la sua straordinaria puntualità, era già pronto alla sua colazione fatta esclusivamente di birre. Non lo lasciai attendere un solo istante di più e una volta giunta nella sala, lo trovai lì mentre era in attesa di una risposta da parte di Robert.

« Sono qui. »

Fu complicato gestire il tono della mia voce, la stanchezza e un vago senso di apatia trapelavano con una particolare intensità. Attirai l’attenzione di entrambi gli uomini ma solo il volto di Robert attirò il mio sguardo. Osservarlo era come vedere il mio viso, anche lui era schiacciato dalla stanchezza, lui totalmente reduce di una notte insonne. Abbozzai un sorriso, palesemente finto e sforzato, nella speranza di distogliere quei due sguardi indagatori ma naturalmente non ci riuscii. La nota positiva è che nessuno dei due osò fare riferimento al mio stato o lasciarsi andare a domande.

« Buck, da oggi c’è una novità… e Robert, grazie, me ne occupo io. »
« Trattami bene il vecchio Buck. »

Non aggiunse altro, solo un’occhiata a Buck particolarmente comunicativa. Buck se ne stava seduto in silenzio, già accomodato sul suo prezioso sgabello; mi osservava o meglio affermare che mi studiava, con occhiate lente e piuttosto attente, critiche. La sua espressione lasciava trapelare un vago senso di disappunto che si mescolava a una strana e ben più intensa preoccupazione. Era sul punto di smuovere le labbra e prendere parola ma lo precedetti.

« Oggi è un grande giorno, Buck. »
« Con la faccia che ti ritrovi questa mattina, Jèjè, non mi dai molta sicurezza. »
« Infatti io non parlo di me, io parlo di te. »
« Invece dovremmo parlare di te e sul perché te ne vai in giro con quell’orrenda giacca di Robert. »
« Sono seria, Buck. »

Jèjè era un affettuoso nomignolo affibbiatomi da Buck, lo utilizzava soprattutto per destare il mio lato dolce, un modo efficace per convincermi sempre a offrirgli una birra in più. Lui mi ricordava inevitabilmente mia madre: entrambi avevano conosciuto il dolore ed entrambi si erano fatti consolare dall’alcool. C’era, però, una grande differenza tra di loro: mia madre era il mio carnefice, colei che era perennemente pronta a farmi pagare i peccati di un uomo mai conosciuto; Buck, invece, era il genitore mai avuto, l’uomo adulto, da ascoltare con i suoi momenti felici e quelli dolorosi, l’uomo con le sue glorie e i suoi successi, con i suoi fallimenti e i suoi sbagli. E lui era sempre pronto a rivelarmi cosa nascondeva il suo animo. Lui, era sempre pronto ad ascoltare me.
Mi posizionai dietro il bancone, recuperando velocemente una tazza ed una caraffa ricolma di caffè bollente. Non donai subito una spiegazione, concludendo prima quella semplice operazione, ovvero offrire a Buck una tazza di caffè caldo.

« Jèjè, lo sai che preferisco qualcosa di ghiacciato. »
« Ecco, hai colto la questione. »
« Non ti seguo, Jessica. »
« Oggi è un gran giorno perché smetterai di bere. »
« Si. E magari Robert si innamorerà di quell’arpia grassa, la Parker. »
« Buck, non sto scherzando. »
« Neanche io scherzo, quindi dammi il solito. »
« Non ho intenzione di continuare ad imbottirti con quel veleno, quindi le condizioni sono due: o ti bevi questo stramaledetto caffè o ti alzi e te ne vai. »
« Se è questo che comporta, la prossima volta non addormentatevi. »

In quell’esatto momento, in Buck, non riuscivo a vedere altro che il lato peggiore di mia madre, c’era solo una differenza: in lui vedevo anche uno spiraglio di luce, in mia madre l’oscurità di un profondo abisso. Arrivai ad una conclusione semplice, ovvero: se non potevo salvare mia madre, avrei salvato lui. La sua reazione, tuttavia, fu quella che ogni persona realista si sarebbe aspettata, la mia ingenuità invece trovò il perfetto rifiuto da parte di Buck che in silenzio si alzò dal suo sgabello e si allontanò. Il suo saluto arrivò nei panni di una lunga occhiata depressa e ricolma del dolore più puro e fu tramite quell’occhiata che compresi che il mio atteggiamento lo aveva portato a rivivere ciò che più di ogni altra cosa voleva dimenticare: lui e la sua incapacità di intraprendere una vita normale senza le persone che amava. Ancora una volta il potere dell'alcool aveva prevalso, ancora una volta aveva sconfitto me. Il suo sguardo e il suo rifiuto, erano riusciti a farmi sentire in preda ad un atroce senso di colpa, una sensazione che scivolò presto via, quando l’ultima frase di Buck, mi risuonò in mente: “…la prossima volta non addormentatevi”. Come diavolo faceva a sapere? Ma soprattutto, dov’era finito Jeremy?






NOTA DELL'AUTRICE: Non faccio le solite premesse, lo sapete v.v
Se vedete qualcosa di strano, fischiate.
Un grazie enorme a chi segue la storia e
a quelle poche ma buone che sostengono me
e ogni giorno mi invogliano a far di più.
Un abbraccio.


Vi lascio i miei contatti:
Pagina facebook : Contessa Amartema
Gruppo Facebook : Spoiler, foto, trame delle mie storie.
Ask : Inutile specificare, no?


Inoltre, la mia mente malata e quella di Malaria, ricordano che:
   
 
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