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Autore: tagliarsi_con_gli_origami    05/10/2013    5 recensioni
Harry Styles vive in una villetta a schiera di Richmond con sua sorella Gemma.
Louis Tomlinson è un ex calciatore dalla carriera stroncata da un infortunio, e si muove a malapena nel disordine cronico del suo attico in centro a Londra.
Harry e Louis si incontrano in un bagno a Covent Garden.
Potrebbe essere l'inizio di qualcosa, se Harry non fosse già legato all'unica donna della sua vita, Darcy, la sua bambina di sei mesi.
Harry e Louis si incontrano in un bagno. Forse finirà così, perchè Louis di bambini non vuole nemmeno sentir parlare.
Harry e Louis si incontrano in un bagno, in un vialetto, ad un barbecue, nel mezzo di due vite che forse non dovevano nemmeno scontrarsi.
Impronte di mani diverse sulla parete bianca di una cameretta per bambini.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Caffè nero, dopobarba e Neutol.


 
But I fear
I have nothing to give
I have so much to lose
here in this lonely place
tangled up in our embrace
there's nothing I'd like
better than to fall.
But I fear 
(Fear, Sarah McLachlan)


Capisci che qualcosa non va nella tua vita quando devi pescare il tuo cellulare che vibra impazzito da sotto un pupazzo a forma di coniglio.
Louis non riesce a pensare ad altro mentre parcheggia davanti all'ufficio, quasi senza guardare. 
Il pneumatico slitta contro il marciapiede.
“Cazzo”
Il cellulare vibra di nuovo.
“Cazzo, cazzo”
E' in ritardo, ancora. Per la terza mattina di fila. Il maledetto traffico del centro.
Non è la stessa cosa da Richmond. 
Non è la stessa cosa Lou. 
Non più, da tre mesi. Da quando ha calpestato il preziosissimo prato di Gemma con le sue scarpe da vela, è sceso dalla macchina nel vialetto di fronte alla buca delle lettere con su scritto Styles con il pennarello indelebile nero. Da quando il maledettissimo Harry Styles di Holmes Chapel ha spinto verso di lui una tazza di the bollente con l'indice della mano libera, mentre con l'altra sorreggeva la sua bambina dai polmoni inarrestabili e il pianto instancabile.
Tre mesi.
Novanta giorni di viavai inconcludente dal suo incasinatissimo appartamento in centro alla villetta a schiena di Richmond che odora sempre di mela, borotalco e latte in polvere.
Non ricorda nemmeno quando ha smesso di trascinare Harry nel suo appartamento, e ha cominciato a prendere semplicemente la strada per andare a casa sua dall'ufficio.
Quando Gemma ha cominciato ad apparecchiare anche per lui, Niall a telefonargli per prendere la birra al supermercato prima di tornare, quando Liam ha lasciato che lo aiutasse a riempire il frigo, o  Zayn gli ha consegnato senza troppe cerimonie il forchettone per girare gli hamburger.
Quando ha cominciato ad unirsi senza riflettere ai coretti ridicoli di qualche canzone pop in falsetto, alle tre di notte, su una sdraio scomoda al limite della decenza, con l'umidità gelida del prato che gli si arrampicava lungo i jeans.
Il sorriso enorme di Harry Styles, appoggiato al suo schienale, e la sua voce un po' roca nell'orecchio, e quella risata assordante dritta contro il timpano, e lo strano prurito dei suoi ricci contro il collo. Il freddo dei suoi anelli stretti attorno alla spalla. Il suo mento appoggiato mai a caso nell'incavo della clavicola.
Strani contatti.
I suoi amici, e la sua famiglia, e le sue stupide abitudini mattutine, i suoi rituali del dopo-sbronza e la salsa piccante ovunque. E il mais. Mais in ogni cosa.
Eleanor gli corre incontro con il massimo grado d'urgenza che i suoi tacchi dodici le permettono sulle piastrelle lucidate. Ha l'espressione tragica delle situazioni che precipitano in fretta, o sono già precipitate, o hanno scavato una voragine nel terreno profonda fino al centro della Terra.
Ha un che di comico, pensa fuggevolmente mentre scaccia dalla mente l'odore dell'erba tagliata e il carbone del barbecue, e semplicemente si fa serio, con quel tocco artificioso e irritante che gli sta così male addosso. Non è più abituato, ora, a fare finta. C'è qualcosa di malato ed elettrizzante nella sua incapacità di dissimulare.
Harry ha riso, due notti prima, nell'osservarlo atteggiarsi da gran conoscitore dell'animo umano, sputando il dentifricio ovunque per non soffocare. Harry ride ogni volta che ci prova, Louis, a mostrarsi inarrivabile, e invincibile, e inattaccabile. Ma la sua risata non significa nient'altro che va bene, che può fare quello che vuole, ma che non serve.
Poi Darcy ha cominciato a piangere, con quella tonalità da ultrasuoni che fa accapponare la pelle sulla spina dorsale, e lui è tornato alla realtà, ad una casa con la gommapiuma sugli spigoli e il disinfettante nella lavatrice, i walkie talkie da una stanza all'altra e Harry che si alza la notte per controllare che lei respiri.
E Louis si è semplicemente accorto di essere troppo egoista per restare.
E troppo cacasotto per andarsene.
E troppo piccolo per rimanere solo.
E troppo ingombrante, tanto da incastrarsi in ogni angolo di quella casa sempre pulita, e i suoi barbecue del sabato pomeriggio.
“Lou. Ci ho provato, te lo giuro, ma sono arrivati così, senza appuntamento, senza-” Eleanor è sull'orlo dell'iperventilazione, ma riesce a guidarlo comunque fra le serpentine ingestibili del corridoio, le porte chiuse e gli ascensori.
“Hei, hei. Sta calma ok? È troppo presto per gli attacchi di panico. Non ho nemmeno fatto colazione” non è esattamente vero. Ma non può dirle che ha bruciato tre toast e si è quasi ustionato con la teiera, prima che Harry friggesse uova e bacon senza smettere di canticchiare a mezza voce i cori da stadio del Manchester United solo per sfotterlo. 
Non può dire a Eleanor un bel niente su quelle persone, quella casa, su quello che lui è diventato. Non vuole nemmeno, a essere onesti, perché non è davvero quella persona. Non del tutto. Perché quelle ombre, quelle idiosincrasie, e le stronzate, sono tutte conficcate nelle ossa, come le viti che lo hanno tirato via a forza dal campo di calcio. Non lascia che tutti le vedano, ma riesce a percepirle sotto la pelle, chiunque, se lo tocca abbastanza a lungo.
E Harry lo ha toccato, davvero, migliaia di volte, troppe volte, e quelle viti le riconosce al tatto. 
È ancora lì, il maledetto Harry Styles di Holmes Chapel, anelli gelidi contro viti gelide. E resta.
Eleanor si blocca davanti alla porta del suo ufficio respirando a velocità inspiegabile per un essere umano, e chiude gli occhi per un attimo.
“Io non lo so cosa vogliono Louis, ma sono qui da mezz'ora, hanno ordinato tre caffè neri senza zucchero e due ciambelle integrali” rotea gli occhi teatralmente Eleanor Calder, l'amante dei frappuccini. Disapprova, semplicemente e senza cerimonie, chiunque prediliga la caffeina, soprattutto se priva di latte, schiuma, panna e zucchero.
Louis sa solo che il panico comincia a scivolargli sotto il completo, fra i muscoli e i tendini, nelle vene. Tre caffè neri e due cornetti integrali.
Non c'è principio di sorpresa nel suo sguardo, quando si richiude la porta alle spalle con un click sommesso e teso.
“Ti sei fatto un bell'ufficio...” Simon sogghigna sempre, come se trovasse divertente ogni cosa. La sua sfortuna, probabilmente.
“Louis, ragazzo, è un piacere vedere che te la cavi sempre bene” l'altro lo osserva con quegli occhi azzurri bonari, ma che nascondono sempre le parole. Forse troppe.
Cheryl è bella, e gli sorride anche con gli occhi, anche da lontano, anche quando è triste. Ci prova sempre a rendere le notizie peggiori meno devastanti, ma a volte fallisce.
Ha fallito con lui, con il suo ginocchio polverizzato, la sua carriera eclissata. 
Tutto.
Ora tutti e tre lo guardano, atteggiati, quasi, nelle espressioni che lui ha cementato nella mente, che a volte ricorda di aver scacciato dagli incubi, quei sogni asimmetrici in cui corre lungo il campo all'infinito, ma senza muoversi, in cui il dolore lo sveglia fra il panico e il sudore, e quella tachicardia di merda che gli appanna la vista.
Simon, Louis e Cheryl, diversamente adagiati su tre sedie girevoli di fronte alla sua scrivania, e l'imbarazzo di saperli a proprio agio nel suo territorio, fra le sue cose, nella sua vita, di nuovo.
“Louis” lei si fa per un attimo seria, ma torna a sorridere mentre Simon la interrompe, mai brusco, ma sempre imponente
“Questo lavoro ti fa schifo” lui non ha quel genere di tatto “e vorrei ben vedere...” non si guarda intorno, lo fissa negli occhi, schietto e sarcastico, la certezza della sua resa stampata fra gli zigomi pronunciati e la linea decisa del naso
“Il Doncaster ha bisogno di te” Louis parla sempre pacatamente, con un po' di melodramma e un po' troppo pathos, ma pacatamente. Quasi a bassa voce, quasi esitando “non solo i tuoi compagni, ma la squadra, il club” Simon sorride mentre l'altro conclude, gravemente “e noi” incrocia le mani
“Siamo nella merda Lou. Sponsor, finanziatori. Facciamo schifo. Ci serve la tua faccia, il tuo nome,   la tua triste storia. Le solite cose” Louis inspira. Realizza. Comprende.
Il Doncaster Rovers. Qualcosa come una casa. Persone come una famiglia.
Il casino degli spogliatoi, l'adrenalina delle partite, le cazzate degli allenamenti, le pause, mai silenziose e mai caute, fra una stagione e l'altra. I viaggi e le parole dette piano su un aereo diretto dall'altra parte del mondo. Altre lingue e altri volti.
Caos. Colore. Odori.
Appartenenza.
Espira.
Simon fa schioccare la lingua, Louis sorride, Cheryl lo fissa un istante, forse amareggiata, forse preoccupata, sempre materna e affettuosa.
Sanno già.
Hanno solo fiutato la sua paura, il suo bisogno di sentirsi indispensabile, di riflettori, di fans, di tifo, di autografi.
I suoi piccoli egoismi quotidiani. L'angoscia di scomparire, o di finire nel trafiletto di qualche giornale scandalistico che redige la classifica dei personaggi più sopravvalutati del decennio.
Il panico di sentirsi al sicuro nei sobborghi, a dividere il letto con un padre single e pupazzi di animali dai colori pastello.
Sanno.
Chissà da quanto.

***

Se Gemma lo sapesse, probabilmente lo ucciderebbe.
La camera oscura non è il posto migliore dove parcheggiare la sua bambina di nove mesi per un pomeriggio intero. Ma è il primo lavoro serio da una vita, e Harry davvero non poteva rimandare ancora.
L'odore di Neutol si appiccica ai vestiti, alla carta immersa nel liquido, ai pensieri.
Mentre immerge le foto da sviluppare nel liquido gli sembra di sentirsi addosso il dopobarba di Lou. È solo un'illusione olfattiva, perché i vestiti sono puliti, e l'altro a malapena gli si avvicina da giorni. Non è stato improvviso. Quasi mai definitivo, ma ha ronzato, sempre più spesso e frequentemente.
L'ha avvertito nell'aria che il suo corpo ha spostato mentre scivolava in bagno dopo di lui, il disastro. 
Louis Tomlinson è sempre stato disastro. Ha significa disastro dal primo momento, a due orinatoi dal suo, con quegli occhi sottili, quelle spalle gracili, quei colori sgargianti.
La sua voce e il suo strano sorriso.  I tatuaggi sulle braccia, sul petto. Il silenzio.
Troppo silenzio.
Anche nel click della serratura, nel ronzare del rasoio elettrico, nello sfregare della pelle del viso sull'asciugamano, Harry ha avvertito la lontananza. La paura, il casino che fanno i pensieri quando non si riesce a fermarli, e sbattono ovunque nella calotta cranica.
Voleva stringerli una manica, un lembo della giacca, circondarlo per un attimo, per respirargli addosso e convincere se stesso di essere solo un paranoico con la sindrome dell'abbandono marcata nel DNA. Ma lo ha solo lasciato andare, perché Darcy doveva fare colazione, e non poteva stargli addosso, non davvero, perché lui ha una figlia di nove mesi e vive con sua sorella, e le persone si stancano, sempre, di Harry Styles.
Anche Melissa, alla fine, tutti.
E loro hanno una figlia insieme.
Ma lei è partita lo stesso, perché di una neonata non voleva occuparsi, e di lui non sapeva che farsene.
Si accorge troppo tardi di aver lasciato la foto immersa nel Neutol troppo a lungo.
Rovinata.
“Cazzo” sibila fra i denti mentre Darcy intavola una conversazione impastata di versi con il suo coniglio rosa. 
Gemma lo sgriderebbe, e forse anche Lou.
Lou.
Scorre lento quel pomeriggio, approssimativo, di movimenti meccanici e testa altrove. Di occhiate di sbieco a sua figlia, che ad un certo punto si addormenta nel box con la testa sulla pancia pelosa del pupazzo. Di dopobarba di Louis incastrato nella pelle e nei presentimenti. Nel disastro.
Alle sei e mezza i fari di un'auto scorrono contro la grata del garage. Non è Gemma, non possono essere i ragazzi.
Può essere solo lui.
Lui, che ci mette una vita a scendere le scale.
Ad aprire la bocca.
Ad emettere un suono.                                                                                                                     Non c'è bisogno di sentirlo per sapere che sta per andarsene.
Forse non ha nemmeno tolto le chiavi dal quadro. Forse è solo venuto a recuperare le sue quattro cazzate dimenticate in giro.
“Ciao” si sforza di dire, allegro, leggero. Un sorriso che non è nemmeno vago, praticamente non esiste.
Louis non sorride nemmeno. Lo guarda, e guarda Darcy, gli incisivi che sfidano il labbro a spaccarsi per quanto lo stringono. Forse lei non era prevista. Mandarlo affanculo con la sua bambina nel box non era previsto.
Deglutisce. Pesantemente, ed è una cosa che non fa mai. Farsi serio, tormentarsi le mani, stropicciare i piedi. Non è da Lou. Lou fa sempre finta di avere la situazione sotto controllo, e quando non ci riesce si comporta da idiota. Divaga e ride, dice cose stupide ad alta voce, e fa finta di niente.
Non ride adesso.
Lo guarda, fisso, gli occhi leggermente dischiusi, grandi e disarmati.
“Torno a Doncaster.” sussurra alla fine, il tono più fermo di quanto Harry si sarebbe aspettato di sentire. Non roco, non basso, senza sensi di colpa. Solo fermo. “Mi hanno offerto il posto di allenatore per la mia squadra. È roba grossa. Grandi cose e-” Harry si sforza di non lasciar cadere la foto di nuovo nel liquido per sviluppare. Si sforza di restare in piedi, e di sorridere. Qualcosa di amaro zoppica in equilibrio nella sua gola, ma cerca di deglutirlo, ingoiarlo e zittirlo. 
“Bello” anche solo biascicarlo gli costa fatica. Anche solo pensarlo. Mentire così tanto non fa per lui. “Sembra” espira “bello” 
Sembra tutta una cazzata invece. Una gran cazzata.
E forse Louis se ne rende conto. Da qualche parte, nelle sottili rughe tracciate con delicatezza attorno ai suoi occhi quando sorride e si morde le labbra, c'è un'amarezza imbarazzata, una tristezza incompleta, una vaga nostalgia.
Si sistema i capelli sulla fronte, in un gesto automatico che sembra soffiargli addosso un po' di sicurezza, quasi un mantra, un momento per chiudere gli occhi e trovare le parole. O la tonalità giusta di silenzio.
“E' una cosa-”
“Grossa, ho capito. Va bene” Harry si volta, cincischia con il cinturino della macchina fotografica, si rigira fra le dita l'obiettivo mobile, riordina le penne e i post it sul tavolo di legno. C'è un'oscurità che non riesce più a trovare confortante. In camera di Darcy, ogni tanto, resta seduto a terra a gambe incrociate, alle cinque del mattino, quando il buio sgomita un po' con il grigio e il verdino dell'alba. Quando fa troppo freddo per uscire dal letto, ma lui ci prova lo stesso. Resta fermo in mezzo alla stanza, sul tappeto rotondo con gli ippopotami viola disegnati, e si lascia svuotare e riempire di nuovo da quell'oscurità incompleta.
La camera oscura era un posto così, prima. Prima che Lou la scegliesse come scenario per un addio senza lacrime e senza parole. 
Prima che si stringesse nelle spalle in un basso “Ok” e si voltasse.
Prima che Darcy allungasse la braccia verso di lui, gli occhi leggermente sbarrati 
“Boo...Boo” 
Trattiene il respiro. Sono solo due mani sporte in avanti, verso la schiena minuta di Lou ad un passo dalla porta del garage. Un passo in equilibrio nella semioscurità. 
Solo quel piccolo suono nel frusciare di vestiti e lo scontrarsi dei respiri.
Boo.
Lou esita un secondo di troppo, si ferma a metà di un passo. Solo uno. Solo un secondo, ma è abbastanza.
Harry riderebbe, se non avesse così paura. Se il panico e la nausea non lo prendessero a calci nello stomaco un secondo dopo l'altro. Riderebbe del suo atteggiarsi a irraggiungibile stronzo, del suo tentativo fallito, della partita impari contro le prime sillabe tremolanti di una bambina.
Non voleva rotolare fuori dalla bocca di Darcy, Louis Tomlinson. Come non voleva essere nella sua vita, non voleva inciampare in lui, e cadere sul suo prato, ingozzarsi di hamburger e salsa piccante, cantare in falsetto stupide canzoni pop e dimenticare il suo dopobarba sulla mensola nel bagno di sopra. 
Non voleva discutere di calcio con Niall, di musica con Liam e di videogiochi con Zayn. 
Non voleva cercarlo nel sonno, inconsciamente, nei suoi incubi di corse inarrestabili su campi senza fine e senza respiro. Non voleva niente, Louis di Doncaster. Non voleva nemmeno Harry.
Eppure non riesce a completare quel passo. Fuori dalla camera oscura, dal muro del suono che lo separa da quel Boo che lei ripete instancabile, offesa, ignorata. Fuori dalla loro veranda sempre sporca di terra, dal loro prato falciato male e la loro cucina che odora di vaniglia e cannella.
Da una vita che non voleva, e che non riesce a lasciare.
Un secondo appena. Un passo a mezz'aria.
“Boo” trattiene il respiro, Louis Tomlinson, per molto più di un passo.
Stringe i pugni in tasca, e forse vorrebbe sapere cosa dire. Senza parole non lo riconosce, Harry, senza suoni. La gola afona e le spalle un po' curve. È Harry quello insicuro, quello che ascolta ogni cosa e lascia che ogni amarezza lo intacchi una volta di troppo.
È lui che cerca conforto in ogni tocco, ogni sillaba e ogni sguardo. Che ha così paura di fallire da rimanere immobile a mezz'aria per giorni interi.
Non Louis. Non lui.
Ma sembra così adesso, in piedi sotto lo stipite della porta aperta, una gomitata di luce che sicuramente friggerà tutte le foto, ma chissenefrega, a tremare in quel calore inaspettato, in quel gelo ancorato alle caviglie, in tutte le voci che sta perdendo, che avverte lontane, sempre più sfocate. I colori e gli odori, le sensazioni. 
Deve scegliere Louis Tomlinson di Doncaster.
Sa che lo sta lasciando andare. Sa che forse dovrebbe dire qualcosa, incazzarsi e gridare. E stringere, forse, da qualche parte. Il collo, il polso, i polmoni, il cuore.
Ma nessuno resta mai davvero. Mai per sempre.
Nemmeno Lou.
Harry solleva Darcy in uno strano abbraccio, che è come cercare quasi stupidamente qualcosa, piuttosto che donarlo.
È affondare il viso per un attimo nell'odore di borotalco e ammorbidente. Ascoltare la pelle di lei, e sapere di avere i piedi a terra, e un battito cardiaco.
“Pa-pa” una mano sul naso, l'altra fra i capelli. Occhi grandi, lentiggini e pochi capelli ricci. Dita innaturalmente lisce che si insinuano senza capire fra i pori della pelle e le piegature delle orecchie.
Si sente sempre stupido, inadeguato, scomodo. 
Ma a lei non importa. Non mentre lo studia, lo sminuzza e lo impara a memoria, con le sue mani troppo piccole, la sua bocca troppo grande, i suoi occhi sgranati e frettolosi.
“Hei” Harry sorride, una vibrazione stanca nella voce che traballa. 
“Pa-pa” solo una parola, mentre la porta del garage scatta di nuovo, lentamente, debolmente, in una nuova oscurità senza conforto. Una luce noiosa e molle, a tratti sferzante. Mai giusta, senza intensità. 
Come se soffrisse.













Note: chiedo scusa per questo capitolo triste e deprimente, ma ci voleva. C'era troppo fluff, troppa allegria, troppe cose belle e troppi momenti felici, ed erano troppo per me, che sono un depresso :)
Quindi niente, perdonatemi per i momenti di scontento, ma un po' di pathos bisogna metterlo da qualche parte aahahahaha
Grazie come sempre a chiunque legga, segua, preferisca, recensisca e qualunque cosa vogliate fare con questa storia :)

 
   
 
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