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Autore: Dzoro    06/10/2013    1 recensioni
Angelo è un ex marine veterano della guerra del golfo. Vive in una città americana, da solo, il suo unico amico è un barista di colore. Angelo è un assassino a pagamento. Questa è la sua storia.
Per fan di Cormac McCarthy, Quentin Tarantino e Garth Ennis.
Genere: Drammatico, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Angelo Strano'
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Un altro capitolo in ritardo, non vogliatemene. Sicuramente uno dei miei preferiti, credo di averlo avuto in testa fin da quando scrivevo le primissime pagine di questa storia. Scriverlo è stato liberante, bello. Mi rendo conto che questi ultimi capitoli sono molto drammatici, e non c’è più traccia dell’humor dei primi. Ma che vi volete fare, la vita è drammatica. È dai drammi che si cresce, ed Angelo questo lo sa bene, ora.

Una scena del capitolo, mi accorsi anni dopo che l’avevo scritta, è presa pari pari da quella di un film. Ma ha un tono e un atmosfera totalmente diversi da quelli del film, quindi l’ho lasciata. Buona lettura, love

Dzoro

 

Marie

 

-Marie, apri!- esclamò Jake sospirando, mentre bussava sulla porta chiusa del bagno. Ancora una volta non giunse riposta.

- Marie, non fare così, che cosa ho fatto di male? Apri, cazzo!-

Ancora nulla. Jake sospirò ancora, poi sbottò:

- Senti, mi sono rotto di aspettarti! Ora torno di là. Ma tu resta lì, mi raccomando, anzi, puoi anche creparci la dentro? Chiaro? Chiaro?!-

Ma anche le sue urla, non suscitarono nessuna risposta.

-Ah, ‘fanculo.- sibilò Jake, uscendo dal bagno.

Marie era rannicchiata al buio, seduta sul water chiuso, con la testa tra le braccia.

 

Come previsto, l’appartamento in cui i testimoni avrebbero passato l’ultima notte prima del processo era in una palazzina di mattoni rossi, al quarto piano, un appartamento con cinque stanze e un bagno. Di fronte alla palazzina se ne trovava un'altra, e al suo interno c’erano altri cinque appartamenti posseduti rispettivamente da una società di medicinali per bestiame ed una di prodotti per il bagno, entrambe inesistenti. In uno di questi appartamenti si trovava una stanza, con otto computer portatili, collegati ad una rete locale wireless, collegata a sua volta ad un sistema a circuito chiuso di telecamere. Per terra si trovavano quattro cadaveri di uomini bianchi di corporatura robusta, con la barba incolta e le camicie sporche. Angelo stava cambiando il caricatore dell’mp5. Era tornato al lavoro.

Scese le scale con passo sostenuto, sapeva che nell’altro palazzo dovevano trovarsi almeno altrettanti agenti, che si sarebbero allarmati non appena si fossero accorti che la sala di controllo era popolata solo da quattrocento chili di carne morta e dozzine di bicchieri di Starbucks vuoti. Passò dalla macchina, e prese dal bagagliaio un secondo mp5, e una colt 45: non voleva che la balistica pensasse ad un solo uomo, nel momento in cui avrebbe trovato i bossoli. Si diresse nell’altra palazzina. Si avvicinò all’agente che sorvegliava il corridoio fuori dall’appartamento chiedendo se aveva una sigaretta, si allontanò lasciandolo con il setto nasale spostato di una spanna in direzione del cervello. Porta sfondata a calci. Un federale, di colore, seduto sul divano, morto praticamente subito, buco in testa. Un altro agente, una donna di mezz’età, alzò una pistola prima di cadere morta. Angelo ripose la pistola quasi scarica, e iniziò a perlustrare l’appartamento: trovò Percival Thorne sul corridoio che portava alla camera da letto. Thorne, era un maschio bianco, sulla quarantina, vestito con un pigiama grigio, spettinato, e con un espressione del tipo “Dio mio, fa che non stia accadendo davvero” stampata in faccia. Thorne, era il primo nome sulla lista. Un proiettile gli recise di netto la colonna vertebrale, morì sul colpo. Una porta che dava sul corridoio si chiuse. Angelo la riaprì subito, prima che Samuel Hobes, dietro di essa, facesse in tempo a chiuderla a chiave. Cervello perforato, una manciata di secondi dopo. Katryn Thorne era la prossima sulla lista. Angelo controllò tutte le stanze, passò per una cucina, un salotto e due camere da letto vuote. Arrivò davanti al bagno: la porta era chiusa. Accostando l’orecchio alla porta, poté sentire il faticoso respiro di lei. Diede un calcio alla serratura: non abbastanza forte evidentemente, la porta rimase in piedi. Sentì un urlo, provenire da la dietro. Seguì un lungo lamento, in cui, di tanto in tanto, si udivano le parole “ti prego”. La raffica aprì una costellazione di fori dai bordi frastagliati e nerastri sulla porta color latte del bagno, e trasformò il lamento dall’altra parte in un urlo. Poi in un rantolio. Un altro calcio trovò la porta decisamente più cedevole. Katryn stava sul fondo di una vasca da bagno, imbrattato da chiazze di sangue nero e appiccicoso. Mentre Angelo puntava il mitra contro la fronte di lei, lei alzò gli occhi verso i suoi.

Seguì l’ennesimo sparo.

Angelo si portò di nuovo nel corridoio, e mentre appoggiava un passo dietro all’altro, godè un attimo del silenzio che aveva appena creato. Marie. Mancava Marie. Era rimasta solo una porta chiusa. Chiusa a chiave. Un calcio nel punto giusto, e si aprì.

Una camera da letto, pochi mobili, due letti, uno non fatto e uno occupato. Ma Angelo capì subito che la dentro non c’era nessuno. Forse qualcuno abbastanza sordo da non sentire le urla e la porta delle sua stanza che veniva sfondata. Di certo non la giovane figlia di Thorne. Ma forse, Marie era abbastanza spaventata da non riuscire a muovesi, e ora era nel suo letto, che tremava paralizzata dalla paura. Angelo scostò le coperte: vestiti. Forse allora Marie era furba, e si stava nascondendo.

Angelo capì subito che non c’era molto posto per nascondersi, laggiù. Uscì, e ispezionò un'altra volta l’appartamento, constatando soltanto che gli altri occupanti erano esattamente morti come gli aveva lasciati.

“Cazzo”. L’orologio diceva che era lì da cinque minuti, abbastanza perché altri agenti potessero raggiungere da un momento all’altro l’appartamento.

Tornò di fretta nella stanza vuota, e la ispezionò con più attenzione. C’era una finestra: Angelo vi guardò giù, chiedendosi se fosse possibile uscirne senza farsi male: concluse che doveva essere così.

“Ma che cazzo succede?”

Tornò in corridoio, e si fermò davanti al cadavere di Percival Thorne.

- Scusa Percy.- iniziò a frugarlo. Trovò quasi subito il cellulare. Lo mise in tasca, e si premurò di levare il culo da lì il prima possibile.

 

Parcheggiò la macchina a molti isolati da lì, e quando fu sicuro di essere fuori dalla zona di pericolo, tirò fuori il cellulare di Percy. Scorse i nomi della rubrica fino alla M. Marie. Chiamò.

Angelo dovette aspettare diversi squilli, tanto che iniziò a pensare che la sua unica traccia stesse per svanirgli tra le dita. Clik.

- Pronto?- Una voce maschile, giovane, una parola pronunciata in mezzo ad una risata, un alone d’ubriacatura appena accennato. Musica elettronica in sottofondo.

- Marie?- disse Angelo.

- No, Marie non c’è, è a pisciare.- seguì una risata in sottofondo. Angelo digrignò i denti.

- Devo parlare con lei.-

- Ti ho detto che non c’è, che cazzo insisti a fare, bello?- Altre risate, meno fragorose di prima. Poi una voce in sottofondo, che pronunciò qualcosa simile a “è suo padre, attacca coglione!”. E dall’altra parte, dopo qualche altro secondo di musica martellante, riattaccarono.

Angelo sospirò. Iniziò a pensare alle discoteche e i locali in cui potesse entrare anche un ragazzino, in quella parte della città. E a come una ragazzina fosse fuggita dal programma di protezione dei testimoni dell’FBI, per andarci.

 

L’entrata del locale dava su una strada periferica, con pochi lampioni e diverse macchine parcheggiate lungo i marciapiedi. Non c’era fila fuori, in fondo faceva freddo e non era sabato sera. Un buttafuori calvo, vestito con una giacca da motociclista, si annoiava davanti all’ingresso.

Angelo si avvicinò, suscitando la sua attenzione.

- Vuoi entrare?-

- Sì.-

Non fece altre storie. Angelo faceva quell’effetto alla gente dell’ambiente.

Oltrepassò il guardaroba, fregandosene della ragazza che si trovava lì dietro, e che gli ripeté un paio di volte di consegnare il cappotto, prima di capire che quello non era un cliente con il quale le sarebbe piaciuto litigare.

Vicino all’ingresso c’era una zona con dei tavoli, un bar, e le pareti nere pitturate con schizzi di vernici sgargianti. Lì la musica era abbastanza bassa da permettere una telefonata. Angelo rimase un attimo in disparte, osservando i vari gruppi di ragazzi che c’erano la dentro, studenti del college perlopiù. Tirò fuori il cellulare, e fece di nuovo il numero di Marie. Aspettò un attimo.

- Cazzo, di nuovo!- era un tavolo vicino, cinque ragazzi, una ragazza.

- E’ ancora suo padre?-

Angelo si avvicinò, tenendo il cellulare bene in vista.

- Non rispondere, spegnilo! Vuoi finire nei casini?- disse uno dei ragazzi ad un altro, che teneva in mano un cellulare colorato, da ragazzina.

- Ehi.- fece Angelo, per attirare l’attenzione.

- Aspetta, ci sono quasi.-

- Ehi!- gridò più forte Angelo, attirando l’attenzione di tutti.

E tutti alzarono lo sguardo, portandolo prima su di lui, poi sul cellulare nella sua mano. Sprofondarono subito in un silenzio a metà tra la paura e l’imbarazzo, appena scalfito da un “Oh, cazzo”, sibilato tra i denti. Angelo prolungò il silenzio qualche secondo ancora, fissando tutti i presenti con il chiaro obbiettivo di metterli ancora di più a disagio, e riuscendoci alla perfezione. Alla fine si soffermò sul ragazzo con il cellulare: uno sfigato con il ciuffo e una maglietta aderente, con la bocca aperta in una smorfia ottusa.

- Dov’è Marie?.- domandò alla fine.

- In… in bagno. Davvero.- rispose il tizio, imbarazzato.

Quando si fu allontanato abbastanza, Angelo poté sentirli confabulare tra di loro. Li lasciò fare. Li lasciò pensare di essere solo un papà incazzatissimo.

Entrò nel bagno delle donne, facendo sussultare due ragazzine vestite da troie che stavano chiacchierando davanti ai lavandini. Le zitti e le fece andare via con un occhiataccia.

Il bagno era ricoperto da piastrelle di ceramica bianche, sulle quali le orme sporche dei clienti avevano portato uno spesso strato di sporcizia umida. La porta di uno dei cessi era chiusa. Angelo vi bussò sopra. Nessuna risposta.

- Marie?-

Dentro c’era qualcuno, Angelo ne sentiva il respiro.

- Sì.- la risposta giunse da dietro la porta chiusa qualche attimo dopo, flebile, roca. Come la voce di una persona che ha pianto.

- Sono dell’FBI, Marie. Esci.-

Anche questa risposta si lasciò attendere.

Questa volta la risposta non arrivò.

- Marie, cosa è successo? Tutto bene?-

La ragazza non voleva saperne di rispondere.

- Marie, puoi dirmelo. Non siamo arrabbiati, ma i tuoi genitori sono tanto preoccupati. Avanti, su. Cosa è successo?-

La risposta si fece ancora attendere. Ma alla fine arrivò:

- Ero uscita con Jake, con gli altri.-

- Sei scappata dalla finestra?-

- Non… scusi, mi dispiace così tanto, non volevo.- la voce le si spezzò in un pianto nervoso.

- No, no, no! Va tutto bene, Marie. Dimmi solo cosa è successo.-

La risposta arrivò confusa dal pianto:

- Non ce la facevo più a stare in casa, mamma e papà erano così nervosi, non ci parlavamo quasi più. E Jake mi ha mandato un messaggio che usciva con gli altri stasera, qui. Era vicino alla casa dove eravamo e lui… lui era così gentile, mi mancava tanto… E poi quando sono arrivata, era un altro, voleva solo…- Di nuovo silenzio. Angelo sospirò. Pensò un attimo a cosa dire:

- Marie, mi dispiace, ma è stato pericoloso, te ne rendi conto? Dobbiamo tornare a casa.- non fu nemmeno sicuro che la ragazza l’avesse sentito: aveva iniziato di nuovo a piangere.

Angelo masticò un “porca puttana”, ed uscì dal bagno. Non poteva trascinarla fuori, avrebbe attirato l’attenzione di tutti. Stava già attirando l’attenzione di tutti, era nel fottuto bagno delle donne. Tornò al tavolo, trovandolo molto meno allegro di come era prima. I ragazzi stavano parlando tra loro. Angelo fece in tempo a sentire un “Ti dico che non è lui!”, detto sottovoce, prima di prendere lui stesso la parola:

- Avanti, chi di voi è Jake?-

Tutti gli sguardi si posarono su uno dei ragazzi: come aspetto era la copia di quello che aveva il cellulare in mano prima, ma sembrava più sicuro di se, a giudicare dalla faccia. Si alzò.

- Vieni con me, ragazzo.- lo intimò Angelo.

Arrivarono davanti ai bagni.

- Tu non sei suo padre.- disse Jake, improvvisamente.

- Non ho detto di esserlo.-

- Hai il cellulare di suo padre, chi sei?-

- Ora tu vai in bagno, le dici che ti dispiace, e fine della storia.-

- Scusa di cosa, di lei che mi fa fare la figura dello sfigato davanti a tutti? E poi non mi hai detto chi cazzo sei!- alzò la voce. La stessa voce irritante che aveva risposto al telefono. Angelo digrignò i denti.

- Non me ne frega niente se stasera ti ammazzerai di seghe, vai a chiederle scusa.-

- Senti, non vado da quella troia nemmeno morto! E tu dimmi chi cazzo sei, o io chiamo la fottuta polizia!-

- No, no, no, senti tu, stronzetto. È da quando hai risposto al telefono, che ho tanta voglia di ridurre quella tua faccia di cazzo ad un grumo sanguinante, ma non l’ho fatto, perché sono buono e tu potresti essere mio figlio. Quindi piantala di fare l’isterica, e chiedigli scusa. Perché giuro su Dio, che se non lo fai, la tua faccia diventerò un grumo sanguinante, e lo diventerà tra cinque secondi. Su.-

- Ehi, non provare a minacciarmi! Mio padre è nell’esercito! Sei un poliziotto? Guarda che potresti perdere il lavoro se solo.-

-Cinque, troietta.-

 

-Marie.- Jake bussò alla porta del bagno.

- Senti Marie. mi dispiace, okay? Sono stato un cretino è ho tradito la tua fiducia e… mi dispiace.- Jake lanciò un occhiata spaventata verso l’ingresso del bagno: sapeva che Angelo era là fuori che lo aspettava. Due rigagnoli di sangue gli colavano dalle narici, sporcandogli di rosso le labbra.

- Ora capisco che tu sia arrabbiata, ed è giusto così. Ora vado via, ed è okay se non vorrai parlarmi più. Beh. Ciao.-

Jake si staccò dalla porta: barcollò fino a fuori, desideroso di andarsene davvero il prima possibile. Trovò Angelo dove lo aveva lasciato.

- Fatto, campione?- disse Angelo.

- Sì. Sei contento, ora?-

- Come a un bimbo a Natale. Tieni dolcezza, pulisciti la faccia, è tutta sporca di roba rossa.- gli tese un fazzoletto.

- Ma fottiti, stronzo.-

Angelo lo prese per il bavero, e lo incollò al muro:

- Dato che ti interessava tanto, sì, sono io la fottuta polizia. Quindi torna dai tuoi amici, vai a casa, e tieni tappata quella bocca del cazzo, se non vuoi che il papà marine sappia che porti le minorenni per night. Ok?-

Jake rimase zitto, e andò via a capo chino. Angelo sperò che l’avesse bevuta: almeno avrebbe avuto tempo per lasciare la città, prima che iniziassero a cercarlo. Si assicurò che si fosse allontanato, ed entrò nel bagno.

- Marie? Va meglio ora? Pensi di poter uscire? Dai.-

Aspettò la risposta.

- Va bene.-

Senti due piedi leggeri appoggiarsi sul pavimento, facendo scricchiolare lo sporco. La serratura scattò, la porta si aprì.

Davanti a lui apparve una ragazzina, magra, una minigonna nera, capelli corti, castano chiari, e con il trucco che le colava dagli occhi arrossati.

Diciotto anni, probabilmente.

Angelo provò a sorridere.

- Andiamo?-

La accompagnò fino alla macchina. I suoi occhi guardavano per terra, umidi. Di tanto in tanto tirava su col naso, le labbra le tremavano.

Le aprì la porta e la fece salire sul sedile davanti. Appena fu seduta, alzò per la prima volta la testa verso di lui. Occhi verdi.

- Sei dell’FBI?-

- Certo. I tuoi sono preoccupati, pensavamo ti fosse successo qualcosa. Ora ti riporto a casa, okay?-

- Okay. Scusa.-

-Tranquilla.-

-No, intendo, scusa, posso…-

- Dimmi.-

- Posso vedere il tuo distintivo?-

Angelo la fissò. Era una ragazza furba. Non rispose, e chiuse la porta. Sali al posto di guida, e mise in moto. Pensò con rabbia alla nottata appena trascorsa, a quante persone l’avevano visto in faccia. Contava comunque di sparire dalla circolazione, una volta finito quel lavoro, di cambiare città.

Il suo sguardo sbandò un attimo sulla ragazza, seduta vicino a lui. Lo stava ancora guardando. Riportò gli occhi sulla guida, mentre immagini di schegge di teschio, e di grumi di materia grigia, tornarono a farsi più vive.

La ragazza era la figlia di un testimone ad un processo per crimini federali. Non era lei che meritava di morire, solo suo padre, ma un solo morto è diverso da una famiglia massacrata. Il massacro di quella notte era il segnale che i Capuzzi erano di nuovo pronti a spaccare il culo al mondo intero, che non bisognava cazzeggiare con loro.

Era solo una testa sopra un palo.

E continuava a guardarlo: si sentì i suoi occhi addosso per tutto il tempo. I suoi occhi verdi.

 

Angelo appoggiò la borsa con le armi sul tavolo della sua cucina, e si guardò le mani: uno schizzo di sangue, secco. Si chiese di chi potesse essere, e quella sera aveva l’imbarazzo della scelta. Aprì l’acqua, e ne toccò di tanto in tanto il flusso per controllare se era diventata calda. Vi mise le mani sotto, e chiuse gli occhi per un secondo. Le immagini della raffineria Cooper gli scorsero sotto le palpebre: una accozzaglia di muri carbonizzati, dopo un incendio che ne aveva decretato la chiusura. Fuori città, tranquillo come posto. Il suo posto di riserva, l’ultima carta da giocare nel caso dovesse commettere un omicidio lontano dal mondo, senza che nessuno se ne accorgesse.

Quando alzò le palpebre, vide che la macchia era quasi sparita. Sfregò ancora un attimo, e sparì del tutto. Chiuse l’acqua, e accese il tritarifiuti. Mentre le lame iniziavano a girare, smontò il cellulare di Thorne, e ve lo infilò pezzo per pezzo. Andò a d accendere la macchina del caffè. Mentre l’acqua si scaldava, si sedette, e appoggiò la testa trafitta dall’emicrania sul palmo di una mano, socchiudendo ancora un attimo gli occhi.

Aveva parcheggiato la macchina in uno spiazzo sterrato davanti alla raffineria. Erano scesi entrambi. Lei non aveva detto una parola, come se non capisse quello che stava per succedere, come se non lo volesse capire. Avevano camminato insieme per un po’, fino a essere lontani dalla strada. Angelo le aveva detto di voltarsi di schiena, e lei aveva obbedito. Era quasi sovrannaturale come non avesse fatto resistenza. A quel punto, la colt era uscita di nuovo dalla sua fondina, ed era stata alzata, finché in mezzo alle due scagliette di metallo del mirino non era comparsa la nuca bianca della ragazzina. E quella era la fine delle immagini. L’ultima sensazione che ricordava, il grilletto freddo che sfregava contro l’indice della sua mano. E di tanto in tanto l’immagine di una macchia di sangue denso, che colava dal muro di una cucina. Aveva sentito la stessa sensazione. Era stato uguale.

Angelo per un attimo si chiese se non avesse fatto la cosa sbagliata. Valeva davvero la pena di andare contro tutto quello che era stata la sua vita fino a quel giorno, contro il suo lavoro, contro le persone che forse non lo amavano, ma lo stimavano e lo proteggevano? Ne dubitava. Quella ragazzina doveva morire, era l’unico modo per dare una coerenza alla sua vita. Il suo posto era il pavimento della raffineria Cooper, inchiodata a terra da un proiettile.

Il caffè era pronto. Lo versò, e tornò in soggiorno. Appoggiò una tazza sul tavolino davanti al divano. Ne teneva un’altra in mano.

- E’ caldo. Bevilo, su.-

Marie prese la sua tazza, ma non la bevve: la teneva tra le mani, guardandone il contenuto. Era lì con lui, nel suo salotto: e a quell’ora sarebbe dovuta essere solo carne morta. Angelo si chiese ancora se non stesse sbagliando. Si chiese cosa stesse facendo. E perché lo stesse facendo.

E Marie continuava a stare in silenzio, sul suo divano, scaldandosi le mani con la tazza di caffè. E Angelo, in piedi davanti a lei, si chiese se non dovesse dirle qualcosa, spiegarle che cosa stesse succedendo, cosa era successo.

- Marie, senti.- provò ad iniziare.

Bussarono alla porta. Angelo si voltò di scatto: lo avevano trovato? Non era possibile. La polizia non si sarebbe messa a bussare, in una situazione simile.

- Vai dietro al divano.- sussurrò in direzione di Marie. Lei sembrava allarmata almeno quanto lui. Appoggiò la tazza sul tavolino, e si nascose dove gli era stato detto. Angelo si avvicinò alla porta, mise una mano sulla maniglia:

- Chi è?-

- Sono Spencer.- fece una voce allegra dall’altra parte.

Angelo sospirò. Girò la maniglia, facendo subito comparire davanti a lui il sorriso affettato di Spencer.

- Buonasera, signor Salerni. Allora, cosa mi dice?-

- Ho finito. Tutto è andato per il meglio.- disse Angelo, mentre iniziò a temere seriamente il momento in cui Spencer avrebbe trovato uno dei nomi della sua lista della spesa nascosto dietro al suo divano.

- Signor Salerni! Rivolgersi a lei è stata la scelta migliore che la famiglia abbia fatto da molto tempo a questa parte!- Spencer tese una mano ad Angelo, e gli mise l’altra sul braccio.

- Grazie, lei non si rende conto del servizio che ci ha reso.-

Angelo stava per dire di non ringraziare, che era tutto a posto, ma si accorse che lo sguardo di Spencer si era improvvisamente rivolto a qualcosa dietro alle sue spalle. Guardava qualcosa alle sue spalle.

- Signor Salerni? C’è qualcuno con lei?- Chiese Spencer. Angelo rispose immediatamente: sapeva che esitando avrebbe peggiorato la situazione all’inverosimile.

- Nessuno.- e riuscì a tenere il “perché me lo chiede?” in bocca.

- Ci sono due tazze di caffè sul suo tavolo.-

- Ne vuole una?-

Spencer rise:

- Oh, grazie! Ed io che pensavo che non avrebbe potuto fare di meglio questa notte!- si sedette sul divano. Prese la tazza di Marie, e iniziò a bere.

- Ottimo. Ma non lo bevo amaro, di solito. Non è che ha…-

Zucchero. Lo teneva in cucina.

- Sì.- Angelo non mentì, e andò a prenderlo. Nonostante sapesse che questo significava lasciare il suo datore di lavoro a meno di un metro dalla vittima di un omicidio che avrebbe dovuto commettere. In cucina, trovò il sacchetto dello zucchero al solito posto, e tornò prima che poté in salotto.

Spencer lo riaccolse sorridente.

- Grazie. Mi piace il suo appartamento: semplice, accogliente. Anch’io vorrei qualcosa del genere, ma mia moglie non ne vuole sapere. Non ha idea di quanto spendiamo in pulizie. Troppo grande, dico io.- E iniziò a guardarsi attorno. Torse leggermente il busto, come per guardare dietro di lui. Dove si trovava Marie.

- Non ho preso il cucchiaino.- disse Angelo, tutto di un fiato. Era vero, se l’era dimenticato. Spencer tornò a guardarlo:

- Oh? Ah, fa nulla, posso… aspettare.-

- Un attimo.- Angelo tornò in cucina, prese un cucchiaino e tornò subito di là. Per fortuna Marie non si era mossa di una spanna, ne aveva fatto un respiro.

- Grazie, grazie.- Spencer bevve il suo caffè.

- Allora, non c’è stato nessun problema?- domandò subito dopo.

- Tutto nella norma.- Angelo non voleva stare lì ad aspettare un'altra domanda. Pensò anche lui a qualcosa da dire, in modo che quella conversazione non mostrasse quanto fosse preoccupato in quel momento.

- Potrete stare tranquilli domani.-

- Oh, lo siamo già adesso.- Spencer finì con un sorso il suo caffè, e mise la tazza sul tavolino.

- Non è una cosa di cui andiamo fieri, ma non possiamo mostrarci deboli, o clementi, in una situazione come questa. Una prova di forza, tutto qui. Ma ne avevamo bisogno.- Questo era inaspettato. Cosa stava tentando di fare, di mostrare che aveva anche lui una coscienza? Forse temeva una scenata da parte di Angelo, come qualche giorno prima.

Angelo annuì silenzioso, fissando il suo caffè. Non voleva parlare. Non voleva rispondere. Qualsiasi parola avesse pronunciato, Spencer non sarebbe stato l’unico a sentirla.

- Non potevamo lasciarli in vita.- aggiunse Spencer.

Angelo strinse i denti.

Pochi minuti dopo, le tazze contenevano non più di un fondo tiepido di caffé, e Angelo accompagnò Spencer alla porta. Ancora una stretta di mano. Ancora altri grazie.

- Perdoni la presunzione, non voglio insegnarle il lavoro, ma ha intenzione di restare in città?-

- No. Penso che farò le valige al più presto.-

- Entro poche ore scoppierà un bel casino. Non si faccia trovare impreparato. Addio, Signor Salerni.

- Signor Spencer.-

Spencer tirò la porta dietro di se. Stava per chiuderla. Angelo la bloccò con una mano. L’ospite lo guardò perplesso:

- Cosa..?-

Angelo guardava per terra, come se ci fossero scritte lì le parole che ora, doveva assolutamente dire. Alzò lo sguardo:

- La ragazza... non era in casa. L'ho trovata in una discoteca poco lontano dall'appartamento.-

Spencer sbiancò. Stava per domandargli come mai non l'avesse detto subito. Ma si ricordò ciò che quell'uomo aveva fatto quella notte: forse perfino un professionista come Salerni poteva restare scosso.

-E?- Fece infine, sperando che il racconto finisse bene.

- L'ho portata in un posto sicuro. Ho finito il lavoro lì, non la troveranno se io non voglio che la trovino.-

Spencer rifletté se ciò avrebbe potuto causare complicazioni. Gli sembrò di no.

- Va bene. La prossima volta... me lo dica prima.- era a disagio.

- Ci sarà una prossima volta?- disse Angelo. Spencer sorrise.

- Buonanotte, signor Salerni.-

La porta si richiuse. Angelo guardò il divano. Andò a sedersi in cucina, e quando si fu appoggiato sulla sedia, mise la testa tra le mani: era tutto sbagliato. E dal salotto, soffocato dalla distanza, sentì provenire un pianto sommesso.


 

   
 
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