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Autore: MySubversiveLove    02/04/2008    2 recensioni
Lentamente, lentamente dopo mesi di tenebra socchiuse le palpebre e permise al mondo di entrare nei suoi occhi.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Racconto di un amore.


Una luce. Una luce lacerante a squarciare il buio.

Bianco, bianco candido. La sensazione dimenticata una volta conosciuta di vita pulsante nelle vene, di ossigeno nei polmoni, la coscienza di sé.

Lentamente, lentamente dopo mesi di tenebra socchiuse le palpebre e permise al mondo di entrare nei suoi occhi.
Quella sfrenata danza di sensazioni sepolte la spaventava, oh, come la spaventava. Era tutto un pazzo roteare di cellule e uno scorrere di sangue.

Credeva, nella sua piccola culla comatosa, d'esser giunta ad un'estasi superiore, di poter finalmente liberarsi di quel lacerante mal di vivere che non faceva che tormentarla giorno e notte. In quella sua dolce morte aveva scoperto la pace del non esistere.
E adesso quel battito, quel battito indesiderato e quella sensazione di vita dentro e fuori lei. Il mondo cercava di farsi strada nel suo utero nero, le squarciava il ventre con violenza inaudita.
Aveva tanta paura che avrebbe voluto urlare così forte da far crollare le mura di quell'ospedale bianco.


Si guardò freneticamente intorno. Nessuno dei medici che svolazzavano attraverso i corridoi avvolti nei loro camici bianchi si era accorto del suo risveglio.

Scorse il suo polso sinistro sfregiato, semi-nascosto sotto le lenzuola candide. Quel tatuaggio… Il simbolo dell'infinito sbiadito e un poco storto, contornato di cicatrici. Una fitta dolorosa le trafisse il cuore. Quel pomeriggio di luglio, prima che finisse tutto, quando lui aveva deciso di donarle qualcosa di eterno, sussurrandole all'orecchio "Mia, per sempre… Siamo infiniti.", pungendole dolorosamente il polso con un ago intinto nell'inchiostro nero della china. Il suo dono era quel tatuaggio. Quel maledetto tatuaggio che non era riuscita a togliere. Avrebbe voluto strapparsi la pelle, avrebbe voluto strapparsi il braccio, per non doverlo ricordare mai più.

Affogava in una vita che non le apparteneva più. Cacciava le lacrime in gola, e lasciava che i ricordi la sopraffacessero. Non avrebbe mai voluto né dovuto svegliarsi. Non avrebbe dovuto averne la possibilità.
Non sapeva quanto tempo era passato da quel giorno.
Quel giorno in cui, seduta sul davanzale, guardava di sotto con una lettera stretta nella mano destra. Ripensava a quando gli aveva detto che tutte le volte in cui si avvicinava ad una finestra sentiva l'impulso di spiccare un salto oltre il davanzale. Lui aveva riso e con occhi cattivi si era fatto beffe di lei dicendole: << Cos'è? Vuoi prendere il volo? >>.

Il suo sguardo si fece ancora più triste. Pesava, quell'addio che stringeva tra le dita, e lo lasciò cadere sulle assi del pavimento. In piedi sul davanzale guardava il cielo. Non se la sentiva di fissare l'asfalto, di sotto. Sperava forse di vederlo scendere da una nuvola, lui, bello come un angelo, volare verso di lei, e tenderle la mano.
Eppure sapeva che non poteva chiedergli più nulla. Non la guardava più; a scuola, quando s'incrociavano nei corridoi stretti e polverosi, lui distoglieva gli occhi dallo sguardo implorante e disperato della compagna che aveva negletto.

Lei che gli aveva donato tutto quello che poteva. Che quando si erano fusi la prima volta si era sentita bruciare e lacerare, e aveva avuto voglia di piangere e spingerlo via. Voglia di cacciarlo e raggomitolarsi al buio, a compatire quel sangue che le bagnava le dita. E invece l'aveva accolto quanto meglio poteva, come una donna, nonostante le sue paure di bambina. E quando, al suo ultimo spasmo era caduto su di lei, l'aveva stretto forte al seno, anche se era lei ad aver bisogno di conforto, l'aveva avvolto nel proprio corpo senza parlare, mentre le sue lacrime scendevano inosservate.

Tutto per poi abbandonarla, strappando il suo piccolo cuore speranzoso e acerbo come carta.
Ma lui non arrivava, lui non volava verso di lei, e lei sapeva che non aveva senso aspettare ancora. Pensava a quella lettera d'addio sul pavimento. Fissava il cielo col cuore in mano, fissava in cielo riponendo in esso l'ultima speranza, e affogando nel cielo si lasciò cadere oltre il davanzale, verso la salvezza, senza guardare l'asfalto che si avvicinava così veloce, imprimendo nell'anima quell'azzurro vuoto, il suo ultimo ricordo di quel mondo ingiusto. E poi lo schianto, mentre il cuore le andava in pezzi insieme alle ossa, scontrandosi con quella terra consumata. Il buio, più nulla.

Non era bastato. Nemmeno quello era bastato a liberarsi di lui. Lei e quel sentimento non morivano, tenaci come vermi, restii ad abbandonare quella vita insulsa a cui si aggrappavano con la presa del loro viscido corpo. Aveva ottenuto ossa rotte, mesi di coma, ma non era morta. Non aveva esorcizzato quei demoni che le sbranavano la lucidità con morsi famelici.

Non sapeva nemmeno se lui avesse pianto al suo capezzale, desiderato sfiorare il suo corpo esile e spezzato abbandonato in quell'enorme letto candido, se le avesse chiesto perdono fra i singhiozzi, sperando che lei potesse sentirlo.
Cercò tracce di lui nella stanza. Non sapeva nemmeno cosa, una lettera, dei fiori, persino il suo odore. Percorse con gli occhi ogni angolo, ogni granello di polvere. Non trovò nulla, e il suo animo fu pervaso dall'amara soddisfazione di chi aveva capito tutto dall'inizio, di chi non aveva mai sperato. Era stata una stupida a pensare di poter ricevere amore in cambio d'amore.

Qualcuno non le aveva permesso di morire, qualcuno le aveva negato il suo unico diletto. Ma lei non ci stava, oh no. Lei non rinunciava mai. Lei inseguiva la calma della mancanza di vita, e l'avrebbe avuta. L'aveva desiderata tanto, e non sarebbe stata una stupida equipe di medici che l'aveva strappata alla morte senza chiederle il permesso a togliergliela.
Si alzò, barcollante, nella camicia da notte leggera e un po' corta. Mosse qualche passo sulle sue gambe pallide da bambina, giusto per vedere se si ricordava ancora come camminare. Attenta a non fare rumore andò verso la porta e uscì. Non voleva che si accorgessero di lei, non doveva succedere.
A piedi nudi salì le scale, prima piano, poi, una volta acquistata sicurezza, sempre più veloce, fino a correre col cuore impazzito per la foga.
Correva, correva, su milioni di gradini bianchi. Correva desiderando raggiungere il cielo.

Arrivò alla terrazza dell'ospedale coi polmoni distrutti per tutto quel movimento dopo mesi di immobilità, tremando nel freddo di febbraio vestita solo della camicia da notte che nemmeno le copriva le ginocchia, mentre il suo respiro tracciava disegni nell'aria limpida dell'inverno.

Era in alto, molto in alto, poteva vedere tutta la città, lontano, sbiadire piano nella nebbia. Si avvicinò al parapetto. Non aveva paura, bambina fedele al suo desiderio. Non si voltò indietro, non guardò nemmeno il cielo nella speranza che lui arrivasse a fermarla. Le venne da ridere. "Dopo la speranza", pensò, "Rimane la forza di un'ultima decisione".
Senza lacrime, senza sguardi alle sue spalle e senza rimpianti, scavalcò il parapetto sparendo nella nebbia. No, non le importava poi molto di prendere il volo.


Un altro inverno tornerà domani.
  
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