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Autore: tagliarsi_con_gli_origami    08/10/2013    7 recensioni
Harry Styles vive in una villetta a schiera di Richmond con sua sorella Gemma.
Louis Tomlinson è un ex calciatore dalla carriera stroncata da un infortunio, e si muove a malapena nel disordine cronico del suo attico in centro a Londra.
Harry e Louis si incontrano in un bagno a Covent Garden.
Potrebbe essere l'inizio di qualcosa, se Harry non fosse già legato all'unica donna della sua vita, Darcy, la sua bambina di sei mesi.
Harry e Louis si incontrano in un bagno. Forse finirà così, perchè Louis di bambini non vuole nemmeno sentir parlare.
Harry e Louis si incontrano in un bagno, in un vialetto, ad un barbecue, nel mezzo di due vite che forse non dovevano nemmeno scontrarsi.
Impronte di mani diverse sulla parete bianca di una cameretta per bambini.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Assenzio, collutorio e vernice.

 


You’ll never know how to make it on your own
And you’ll never show weakness for letting go
I guess it’s still hard if the seed’s sown
But do you really want to be alone? 
(Over Again, One Direction)



Il cellulare squilla per la terza volta.
Ascolta tutta Wasn't Me prima di decidersi ad armeggiare sotto le lattine vuote, le confezioni di cinese e i contenitori vuoti di take away. Forse quella mattina, forse il giorno prima, ha deciso che non avrebbe più risposto al telefono.
È stata solo una stupida decisione impulsiva, ma è quasi confortante ascoltare Shaggy canticchiare, senza un fottutissimo problema al mondo, che non è stato lui.
È confortante nel silenzio, nel crepitio debole dell'alluminio che sfrigola sotto le sue scarpe da vela macchiate di condimento per le fajitas. Guacamole e salsa di fagioli ovunque sul sedile del passeggero, a macchiare la sua preziosa tappezzeria.
Tutto sembra confortante in quella puzza di avanzi e birra secca sui vestiti.
Shaggy ha quasi finito di discolparsi per ogni male del mondo, quando la vibrazione dei messaggi lo interrompe a metà dell'ultimo ritornello.
Inspira.
Lattine di birra vuote, bottiglie di Corona con il lime incastrato che annerisce rapidamente. 
Espira.
Strofina i polpastrelli sui bordi delle confezioni vuote di patatine, il ketchup si appiccica alle nocche, la maionese contro il palmo. Il cellulare sotto il sedile che ancora vibra, insistente e invadente. Confortante.
“E' il terzo volo che perdi Louis. El” 
Prima o poi troverà il modo di prendersi cura di se stesso. Ma non quella sera.
Decisamente non quella sera.
Gli rimbalzano ancora fra le tempie intere nottate. Da qualche parte un locale, da qualche altra la tazza di un water dove vomitare, vodka, rhum, shot raccolti senza mani dallo stomaco di una spogliarellista di Cracovia. Tre arei persi, tre viaggi mancati. Tre messaggi scritti frettolosamente e costellati di errori di battitura e imbarazzanti correzioni del t9. Eleanor ha tentato di telefonargli, di convincerlo.
Quarantotto ore e la prima riunione con lo staff. A malapena tre giorni dal primo allenamento. Un altro Louis Tomlinson. Forse non lo stesso, forse non chi correva e strisciava le ginocchia sul campo come se fosse senza pelle. Forse non il sudore in gola, la terra sulle scarpe con i tacchetti. Forse non il Lou che si scaldava a bordocampo e sfiorava l'erba prima di entrare in area.
Non Louis Tomlinson il calciatore. Louis Tomlinson l'allenatore.
Appartenere a Doncaster in qualche modo, di nuovo.
Appartenere a qualcosa. Non perdersi, non dileguarsi, non sbiadire.
Eppure vive nella sua macchina da tre giorni. Da tre giorni beve, mangia schifezze e ne lascia la metà a marcire sotto il sedile. Da tre giorni appoggia la fronte alle piastrelle scheggiate dei bagni a Covent Garden. Un orinatoio dopo l'altro, una faccia desolata dopo l'altra. 
Ma lui non c'è.
Ha smesso di aspettarlo. Non si può aspettare qualcuno da cui stai scappando.
La facciata di casa Styles è a malapena illuminata. Non c'è la macchina di Harry, con il seggiolino fissato sul sedile posteriore, parcheggiata sul vialetto. Solo l'utilitaria sempre pulita di Gemma, con i pupazzi appesi allo specchietto, e il quadrifoglio portafortuna che le ha regalato Niall intrecciato al volante. Niall e la sua bicicletta verde, addossata al muricciolo di pietra che separa le loro case.
Il fuoristrada di Lou, fermo, fari spenti, motore defunto. Il prato, un altro prato, erba da sfiorare, terra con cui macchiare le scarpe, altri occhi e altre voci.
Mai lo stesso prato.
Scendere dalla macchina è difficile, camminare anche di più. È sporco, odora di sudore, birra e avanzi andati a male. Ha bisogno di una doccia, una dormita, di vomitare, anche, probabilmente.
E dire prendere un aereo, e di andare via. E di essere di nuovo qualcuno da osannare, e chiamare a gran voce dagli spalti, e adorare.
Essere qualcuno da amare è fottutamente troppo difficile.
Gemma si muove in cucina, la sua sagoma scura si riflette nei vetri e sembra quasi giocare a nascondino con quella di Niall dietro le tende chiuse. Una musica leggera lo raggiunge appena messo piede sulla veranda. Risate.
Darcy.
Riconoscere il suo strano gorgoglio fa male da qualche parte. Troppo male.
Barcolla indietro, in avanti, si appoggia alla porta. Suona il campanello. Si lascia cadere sul pavimento del portico.
Lei non corre ad aprire, a malapena cammina borbottando qualcosa a Niall, tipo uno dei suoi soliti rimproveri con i sorrisi nascosti, quando lui non può vederla.
Sorregge con un braccio Darcy, con l'altra dischiude la porta.
“Boo” 
“Tu”
“Hei” parlano tutti e tre contemporaneamente, mentre i passi di Niall si avvicinano dal corridoio
“Dimmi che è la piz-” sorride vedendolo, anche se probabilmente vorrebbe prenderlo a pugni in faccia fino all'alba del giorno dopo “Louis, amico. Speravo fosse il fattorino ma, hei, ne ho ordinate un paio in più per Harry e Nick quando...” s'interrompe, Gemma che lo fissa minacciosa, Darcy che allunga le braccia per afferrare il bottone della giacca di Lou che luccica del riflesso del lampione sul vialetto.
“Reggila” lei non smette di fissarlo, le macchie di unto, l'odore di birra, l'alcool nel suo fiato, e sistema la bambina in braccio a Niall. Poi muove un passo fuori, nel vento umido dell'autunno che ormai si è accomodato fra i fili d'erba del loro giardino, annerendo il barbecue, costringendoli a coprire le sdraio. Incrocia le braccia per il freddo, la treccia morbida che si agita sulla sua spalla
“Spiegati” Louis sa solo che la vista gli si annebbia, la nausea gli serra la gola, e le gambe non lo reggono. 
Si appoggia alla ringhiera di legno, sperando che lei non si accorga di quanto in realtà stia da schifo. Ma Gemma è Gemma. E Louis è Louis, scarpe da vela e tutto il resto.
Stringe le palpebre nel centro esatto dei suoi occhi, espirando 
“Sei un ubriaco depresso e puzzolente. Vieni dentro, fatti una doccia, parla con mio fratello. E, se devi, poi, levati dalle palle” Louis non riesce a dire niente. 
Annuisce e la segue, il vomito alcolico che serpeggia fra lo sterno e la gola, l'odore di fritto dei vestiti stropicciati, il suo essere così irrecuperabilmente patetico.
Patetico in corridoio, patetico su per le scale, patetico sotto il getto impietoso dell'acqua che ci mette cinque minuti buoni ad avere la temperatura giusta, e patetico accovacciato di fronte al water, la fronte appoggiata al bordo della tazza fresca, gli occhi chiusi, la gola in fiamme.
Patetico quando si rialza a fatica per strisciare quasi carponi fino alla camera di Darcy. 
Gemma gli ha lasciato sul mobile del bagno i vestiti di Harry. Una felpa troppo grande e pantaloni della tuta troppo lunghi. Il suo odore fa male più di tutto, più di dover arrotolare le maniche e gli orli, più dello stomaco e della testa, più della gola. 
Il suo odore.
Cammina nella stanza, un passo incerto dopo l'altro. L'odore di vernice vago ma presente fra il borotalco e la crema emolliente per le irritazioni da pannolino. 
Vernice rosa per le loro impronte rosa sul muro bianco.
Impronte fresche. Una accanto all'altra, ogni mese. Harry e Darcy, un po' di vernice. Un ricordo strano, memoria tattile e visiva, colori, odori, bagliori di loro impressi sulle pareti cosparse di poster di band anni '80 e cartoni animati.
Restare lì con loro ancora un po'.
Non lasciarsi dimenticare.
Allunga una mano verso il barattolo sigillato di vernice, esita, lo scoperchia, esita ancora.
Immerge la mano e la osserva, il colore che cola, gli impregna i pori, scivola lungo il polso e l'avambraccio. Gocciola a terra, sui suoi piedi nudi, sulle piastrelle. Sui fogli di giornale stesi per raccogliere gli schizzi.
Li ha osservati vivere per tre mesi, novanta giorni, ha imparato a decifrare le espressioni di Darcy, i suoi pianti tutti diversi, a districare i discorsi infiniti fra i sogni di Harry, che non sa mai stare dalla sua parte del letto, e gli intreccia sempre i piedi freddi alle caviglie, anche quando fa caldo. Ha sfiorato e ricalcato quelle impronte, ma non è mai stato lì quando le hanno marcate, idealmente indelebili, sul muro.
Osservare e mai vivere.
Aspettare troppo.
E perdere.
Inspira appoggiando il palmo accanto a quello di Harry, una tonalità di rosa leggermente più scura, non diluita, tremolante e incerta.
La sua mano accanto alla loro. Impertinente forse, forse indesiderata.
Ma c'è qualcosa di giusto in quello che vede, in quelle tre mani così diverse e gocciolanti una accanto all'altra ad occupare uno spazio infinito.
Qualcosa di bello. E incredibile. E doloroso. E confortante. E difficile, troppo difficile, da lasciar andare.
E forse solo un altro modo per dire addio.

***

Nick sta soffiando fuori il fumo dell'ultima sigaretta della serata. Sa che Gemma gliela strapperebbe dalle labbra e la ridurrebbe poltiglia sanguinolenta assieme al suo naso, e la sua faccia, e il suo orgoglio, se solo si azzardasse a mettere piede in casa con nicotina fumante in presenza di Darcy.
È uno che prende la vita come viene, Nick Grimshaw, e Harry gli deve più di una scampata depressione. Non è solo la sua voce da speaker radiofonico, è quella capacità rara e preziosa di saper condensare senza difficoltà ogni singola idea di divertimento abbia mai avuto; è una sensibilità casinista e un po' brusca, che non prende mai niente sul serio ma non ti lascia solo ad affogare nell'autocommiserazione. È solo Nick, che sa ridere dell'ossessione di Gemma per la salute e la pulizia, di Harry, gay, single, con una figlia piccola, e sa ridere anche di Louis Tomlinson e la sua ossessione per l'abbigliamento da regata e le fughe silenziose a sera inoltrata.
Non prende niente sul serio, Nick, se non forse il suo programma radiofonico e Harry. Prende incredibilmente sul serio anche lui.
Ha bevuto un po', giù a Soho, in centro, con quei suoi amici un po' bohemien che li hanno trascinati per mezza Londra a bere assenzio e fumare narghilè alla mela verde. 
Sono appena le dieci di sera, eppure Harry sente le gambe malferme e la testa vuota. 
Barcolla un po' sul vialetto, ma la casa completamente illuminata strappa una risatina a Nick e un gemito a lui
“Dimmi che non sono coliche, irritazione da pannolino e mal di denti. Ti prego, non stasera” si lamenta raggiungendo la veranda. 
Gemma lo fissa esasperata da dietro la porta, i capelli raccolti in una treccia disordinata che assume un'angolazione stizzosa sulla spalla sinistra
“Io faccio la babysitter a tua figlia, non ai tuoi fidanzati sbronzi che mi svengono sullo zerbino davanti casa” Harry la guarda, l'omogeneizzato alla banana di Darcy incrostato sul collo della maglietta dei Led Zeppelin, lo sguardo vagamente stanco, la carnagione vagamente pallida. Tutto vago, confuso. 
Ma non è lei, è Harry.
“Eh?” non riesce ad afferrare. Le parole “fidanzati sbronzi” zoppicano nella sua mente e nel suo campo visivo. Vorrebbe solo svenire per un paio d'ore, e svegliarsi con le idee chiare. Magari un po' di quel dolore intermittente all'altezza dello sterno, semplicemente, rimarrebbe indietro.
Gemma sospira pesantemente, piantando le mani sui fianchi 
“Il tuo amico, amante dell'abbigliamento da regata, mi è collassato sulla veranda mezz'ora fa, e ora penso stia vomitando l'anima nel bagno di camera tua.” 
Louis.
Riesce solo a registrare quella caliginosa informazione, prima di oltrepassarla, leggermente incerto sulle gambe, barcollando su per le scale.
Darcy.
Si ferma un attimo, uno solo, infilandosi nella stanza attraverso la porta socchiusa. Respira male, il battito cardiaco rimbomba nella testa e l'oscurità lo fa sentire sull'orlo di una crisi di panico. Ma l'odore di borotalco e ammorbidente alla vaniglia riesce a calmarlo. È qualcosa di familiare, piccolo e insignificante. Odore di fasciatoio e bagno appena lavato.
Ma per Harry significa solo che esiste un posto sulla faccia della Terra dove può essere un idiota fallito senza prospettive, e andrà bene così, perché c'è solo Darcy, e a Darcy non importa.
Lui è Harry, è un vago “pa-pa” biascicato con la sua bocca grande.
Lei dorme, il pupazzo del coniglio rosa che le nasconde praticamente tutta la faccia. Lo solleva e lo appoggia ai piedi del lettino, perché non è per niente consigliabile lasciarle premuta sul viso un'enorme palla di pelo acrilico per tutta la notte, e la osserva qualche minuto. Il respiro regolare, quelle pause profonde fra le due fasi della respirazione, quasi un'attesa, una presa in giro per lui che ogni tanto si sveglia nel mezzo della notte per controllare che respiri.
Vernice. Più fresca di quanto ricordasse, più intensa, a tratti più amara. Un avvertimento, un monito.
Un'altra impronta accanto alla sua. Mani più piccole e sottili. Quasi troppo delicate.
Louis.
Un addio, un ciao, uno strano e contorto modo silenzioso per non lasciarli davvero.
Louis.
Le molle difettose del letto di Harry cigolano pesantemente. Lui è abituato a stendersi invece di sedersi dalla sua parte, ma Lou di solito si lascia cadere, senza pensarci, come se il materasso potesse inglobarlo.
Si appoggia allo stipite della porta, e lo osserva, accovacciato, i capelli bagnati, le mani sulle ginocchia, la sua felpa troppo grande arrotolata sui polsi, i pantaloni della tuta infilati nei calzini di spugna. Non riesce a parlare del tutto, perché vederlo lì non è semplicemente bello, o giusto, e non lo fa solo incazzare. È qualcosa di ancora diverso, fatto di tutto e di niente.
È una scivolosa sensazione di piacere condita di gelido panico
“Hei” l'altro di volta, sgrana appena gli occhi. Sorride e torna serio nel giro di quattro secondi.
“Harry Styles di Holmes Chapel. Pensavo avessi un appuntamento a Soho” una punta di amaro gli scivola di bocca senza che riesca a controllarlo.
Lui scrolla le spalle, simulando una noncuranza che non gli appartiene.
Osserva la porta del bagno spalancata, il tappeto scostato, il coperchio del water abbassato, il vago odore di collutorio e dentifricio alla menta.
“Vita sana e regolare voi atleti uh?” Louis solleva l'indice, e lo fa dondolare davanti al viso con lo sguardo vitreo
“Ex atleti, prego. Ci tengo alle etichette” ride amaramente, debolmente, stancamente.
Harry si lascia cadere accanto a lui, incurante di quel lamentoso cigolio del materasso con molle sfondate. Lo ascolta quasi assaporando quel suono.
Gli lascia addosso qualche bel ricordo, alla fine. I movimenti di Lou, che non sapeva mai come gestirle quelle molle rumorose.
Gioca con gli anelli, fa roteare la fede al medio, i ciondoli. 
“Io ho una figlia Lou...” si lascia andare sul materasso, le gambe penzoloni sul pavimento
“Lo so”
“Non puoi presentarti qui come se fosse casa tua, e spaventare a morte mia sorella” Louis si stende accanto a lui, e chiude gli occhi per un attimo, forse per scacciare le vertigini, forse per l'effetto destabilizzante di quelle parole. C'è stato un momento in cui è stata anche, vagamente, casa sua. Un posto dove tornare, di sicuro, persone da avvertire per il ritardo, da chiamare per la spesa. Da salutare.
“Non mi sembra una che si lascia sconvolgere dalla gente ubriaca sul suo vialetto” Harry si volta e appoggia la testa al gomito. 
Lo fissa serio, aspro, inutilmente. C'è tutta l'amarezza di cui il genere umano potrebbe servirsi per una vita intera, incastrata negli occhi di Louis Tomlinson. 
“Gemma non si sconvolge per niente, ma non è giusto lo stesso” Louis sospira, chiude gli occhi e li riapre
“Lo so” Harry allunga un dito sul suo zigomo, disegnando cerchi concentrici sulle tempie.
Si ferma contro le ciglia, fra le piccole rughe disegnate a tratto leggero attorno ai suoi occhi socchiusi
“E non è giusto per me” non avrebbe voluto dirlo, Harry Styles. Non avrebbe voluto ammettere di essere solo un ragazzino spaventato che allunga ancora la mano sul materasso vuoto dopo giorni solo per cercare lui. Abituarsi di nuovo ad abbracciare il vuoto.
“Lo so” ma Lou sembra ancora più giovane adesso, nella sua felpa troppo grande che gli scopre il tatuaggio sulle clavicole. È quello che è. E lo sanno entrambi.
Si alza in piedi, con uno sforzo che gli costa un gemito e un momento per riacquistare l'equilibrio.
Harry raccoglie le ginocchia e si mette a sedere a gambe incrociate sul materasso.
Lo lascia vagare per la stanza, familiarizzare, assaporare qualcosa di sé negli spigoli dei mobili e nelle impronte sul battiscopa.
“Louis” ma alla fine deve romperlo, il maledetto silenzio. Perché sentirlo frusciare di nuovo in quella stanza è come un tarlo nella testa che non smette di rosicchiare, e pungere, e divorare ogni cosa.
“Eh” non vuole voltarsi, e continua ad armeggiare con le foto sul comodino e i poster alle pareti
“Perché sei venuto” 
Ci sono delle domande, e delle risposte. A volte no, nessuno di loro ne aveva bisogno.
Ma Harry non vuole vedere solo le scapole un po' sporgenti di Lou che si allontanano dalla camera oscura. Non vuole ricordare la porta sbattere, e i suoi passi allontanarsi, stretti nella tela delle scarpe da vela. Imprimere sulle cornee la consistenza un po' lattiginosa delle sue iridi, e l'inclinazione degli incisivi, la forma delle labbra, la piegatura delle sopracciglia.
“Casa mia fa schifo” risponde alla fine, voltandosi verso di lui, a metà fra una smorfia, un'alzata di spalle e un sorriso vago “Non ce l'ho una casa veramente. Ho vissuto tre giorni in macchina, e fa schifo” si passa una mano fra i capelli un po' lunghi sulle tempie e il collo, umidi, che si ritorcono fra le sue dita e rimangono aggrovigliati e ripiegati su se stessi 
“Io faccio schifo”
“Un po'” a Harry viene da ridere, ma non lascia che nessun suono turbi quello strano miscuglio di passi, respiri, silenzi e pause. 
I pensieri di Louis che lo abbandonano, e rimbalzano sul parquet come una manciata di biglie, lo confortano, lo fanno sentire meno immerso in una strana bolla d'acqua di stupidità e patetismi.
“Prova a entrare nella mia macchina...” 
Patetici. 
Sarebbe semplice arrendersi ed essere patetici fino in fondo. Autocommiserarsi e salutarsi. Non dirsi addio, e rimandare solo il panico e il dolore fino a quando non faranno meno male, non saranno meno salati sul palato, meno gelidi.
Ma Harry non è un ragazzino di sedici anni alla prima cotta. E Darcy non ha bisogno di strascichi, e di un padre patetico che si piange addosso perché non riesce a stringere abbastanza a lungo da trattenere, da rimanere impresso.
“Lou-”
Lui sbotta, improvvisamente, come uno che ha dentro troppe parole e nessuno spazio dove riordinarle
“Mi manca questa casa troppo pulita. Quel cazzone di irlandese, e quella pazza di tua sorella. Mi mancano anche le coliche di tua figlia cazzo! Io non sono così, non ero così, non-” i passi fanno più rumore, perché c'è un altro silenzio. Un silenzio di intenti e di movimenti. Di sensazioni.
Harry lo guarda, immobile nella sua posizione del loto sul copriletto grigio chiaro.
Solleva lo sguardo su di lui, la bocca sempre troppo grande socchiusa in una domanda rimasta a metà. Le fossette scoperte nel dubbio, anziché in un sorriso
“Io ti manco?” 
E' Louis a sorridere, adesso, e la pelle suoi suoi zigomi si tende in quelle piccole righe sottili che lui odia, ma che Harry non riesce a smettere di guardare, perché significano soltanto che è lì per davvero, che i suoi occhi sono realmente allegri, non come in quelle foto false dove ride solo la bocca, e nemmeno troppo.
“Anche adesso, cazzo” è uno scontro che è quasi un bentornato, quello fra le fossette di Harry e le increspature attorno alle ciglia di Lou. A mezz'aria, sospesi, riescono a trovare un barlume di spazio e di tempo per esistere insieme.
“Smettila di dire cazzo. Lo sai che i bambini assorbono tutto”
Harry scivola sul bordo del letto, posando i piedi nudi sulle assi del parquet
“Fottiti” l'altro rimane in piedi, una manciata di tormentati centimetri da lui, la punta delle dita che quasi lo raggiunge, ma non riesce ad afferrarlo.
“Vieni qui”
Deve essere una scelta quella di Lou. Un passo intero verso di lui, la sua mano sollevata in aria che quasi sfiora la felpa dei Rough Cuts, ma non può stringere.
Non vuole davvero.
Perché forse Harry non è capace di stringere per trattenere, ma magari è arrivato il momento che siano gli altri a decidere di restare.
Louis osserva le sue dita tese, le vene in rilievo sulle braccia, la tensione, l'attesa, la paura.
Anche lui ha paura. Hanno tutti paura.
Intreccia le dita alle sue, giocherellando con gli anelli e i braccialetti sul polso, e si siede sulle sue ginocchia, incastrando le anche a quelle di Harry in un puzzle emotivo e fisico in equilibrio precario.
Il suo fiato sa di birra e assenzio. 
Le sue labbra sono appiccicose di un sapore dolce e pungente, e di mela verde.
Anche lui è incasinato, brillo, stanco. Un po' più disinibito nell'arrampicarsi sulla pelle nuda sotto la felpa troppo grande.
La rete scricchiola sotto il peso di due corpi che rimbalzano sul materasso.
Scricchiola sempre più velocemente, come uno strano accompagnamento musicale allo strofinare dei vestiti che cadono a terra, del contatto gelido dei ciondoli di Harry e lo sterno di Lou. A cose che vengono dette, morse, sussurrate, graffiate. 
Difese che non servono, offese che vagano e non trovano un posto.
Non più il bisogno di prendere tutto e dare tutto, non lasciare un segno e un bel ricordo erotico da rispolverare a pomeriggi alterni. 
Persone, movimenti, scusa, addio e bentornato. 
Devo andare.
Va bene.
Manchi.
Allora torna.
Harry ride nell'orecchio di Louis, alla fine, scivolando sulla parte del letto dove la rete non scricchiola
“Fai un fischio se torna su ancora qualcosa uh?” anche l'altro ride, il tono un po' squillante che filtra  fra le dita della mano di Harry sulla sua bocca. Un vano tentativo di non svegliare Darcy che si spera dorma ancora minimo sei ore in compagnia del suo coniglietto di peluche dal pelo acrilico e mortale.

***

Lou si sistema incassato nelle spalle di Harry, i piedi sempre freddi dell'altro attorno alle caviglie, i ricci che gli fanno il solletico alla nuca e i ciondoli di metallo conficcati nella spina dorsale.
Le sue mani che disegnano strani percorsi di senso sul suo stomaco, litigando con qualche costola qua e là, fino a fermarsi sul bacino.
“Va bene adesso” sospira, mela, assenzio, collutorio e bagnoschiuma che si mescolano in uno strano profumo di casa “Adesso è tutto giusto”
Il suo aereo parte domani. Tutta la sua roba è a Doncaster. La sua vita, forse, che non può più aspettarlo a mezz'asta.
Non può indossare per sempre le felpe troppo grandi di Harry Styles di Holmes Chapel.
Forse.
“Harry” 
“Mhn?” lui ha la voce impastata di sonno e degli ultimi residui dell'orgasmo, una piega morbida e un po' roca, che si acciambella sul fondo della gola e si addormenta. Il respiro lungo e lento, i movimenti stiracchiati.
Addio.
Ti amo.
Ma torno.
Scusa.
Vieni con me.
È una cazzata, lascia perdere.
Ti amo.
Scusa.
“Niente. Spegni la luce.”
Harry fa scorrere il naso lungo il collo, fino alla spalla, la clavicola, il lobo dell'orecchio. Lo morde un instante, solo una pressione leggera. Un ricordo tattile vivissimo. Un bagno a Covent Garden, un orinatoio e mezzo dal suo. La sua lingua nell'orecchio.
E nel suo orecchio sospira, un fiato caldo all'assenzio e mela.
“Lo so” dice semplicemente, stringendolo più a lungo, un po' più forte
“Eh?” 
“Dormi coglione” Harry sbadiglia contro la sua spalla, sfregandogli i ricci sulla pelle
“Le parolacce Styles” la sua risata fa vibrare anche le punte dei piedi.
Lo bacia di nuovo, fra la tempia e i capelli ormai asciutti, e sorride. Louis non lo vede, ma avverte le labbra tirarsi contro l'orecchio. Il modo in cui parla
“Comunque mi piace come hai decorato la camera di Darcy” 
E Louis è quasi grato del fatto che non possa vedere il suo viso in quel momento, perché nessuno, sano di mente, prenderebbe il primo volo per Doncaster con un'espressione come quella stampata in faccia.










Note: a me piace questo capitolo. Lo so che uno non dovrebbe dirlo perchè insomma, cioè, voglio dire, è da teste di cavolo presuntuose, però mi piaceXD
E mi piace questa storia, e il banner, e Eva che mi ha chiesto di scriverla, e tutto il mondo, temporaneamente. Amo anche loro, e chissenefrega se il mondo non capisce un tubo. Io li amo.
E spero anche voi...
Insomma ecco, vorrei dirvi troppo un grazie vero, di quelli che rimangono impressi, e di cui si racconta per anni, ma sono solo uno scribacchino della domenica, quindi vi dico solo a grazie, a tutt* voi, e vi amo :D
   
 
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