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Autore: Eva7    10/10/2013    0 recensioni
Due cose hanno messo Sarah a dura prova: la vita e gli uomini. Alcuni significativi incontri ed eventi la trascineranno a forza fuori dal mondo dei bambini e dentro quello degli adulti; ma questo non le impedirà di inseguire con passione il proprio sogno.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Cominciai a cercare Nash sempre più spesso. O meglio: cominciai ad avere bisogno di Nash sempre più spesso, anche quando Daniel smise di essere così uggioso.
All’inizio, per me, il ragazzo, non era altro che una buona scusa per non rimanere da sola con me stessa, ma quando ebbi il sentore che quello che era solo opportunismo stava deragliando verso qualcosa di più profondo mi imposi di stroncare la cosa sul nascere, perché avevo imparato a mie spese che non dovevo dipendere da nessuno. Mai.
Non capivo perché desiderassi proprio la sua compagnia: non potevo dire che lui fosse amichevole con me, e a volte sembrava persino disturbato dalla mia presenza. Poi mi resi conto che era proprio quello il punto: dopo aver passato tanto tempo tra compagni troppo ambiziosi e membri dello showbiz avevo sviluppato una specie di allergia verso quella studiata affabilità così calcolata, così nauseante.
Battibeccare con Nash era diventato un piacevole passatempo anche se naturalmente mi adoperavo moltissimo nel non mostrargli quanto lo considerassi tale.
Eppure c’erano delle volte che lui spariva per chissà quale misterioso impegno.
Sospettai che anche lui, come Oliver si fosse trovato una ragazza e così non indagai, perché io e lui non parlavamo mai di quelle cose.
 
In  poco tempo, gli scandali sulla mia vita furono sostituiti dagli scandali riguardanti la vita di qualcun altro e così la luce dei riflettori divenne sempre più fioca su di me permettendomi di concentrarmi meglio sul lavoro. Persino i miei attacchi di panico sembrarono darmi un po’ di tregua.
Mi stavo preparando per la parte di Ofelia in una rappresentazione teatrale di Amleto. Era il mio primo spettacolo in costume e così, ancor prima di leggere il copione mi rinchiusi per parecchie ore in biblioteca china sulla tragedia di Shakespeare.
La follia di Ofelia.
Avrei potuto trarre vantaggio dalla mia esperienza in Somersault.
Ricordavo ancora lo sguardo attonito dei presenti quando avevo afferrato il braccio della mia collega e avevo cominciato a dare di matto.
No. Quella non era follia. Era più esasperazione.
Durante le prove, ogni volta che stavo per acciuffare la mia Ofelia essa si sbriciolava tra le mia dita.
Ero frustrata e allo stesso tempo grata di questo: grata di avere qualcosa che tenesse occupato ogni angolo della mia mente.
 Era da troppo che, ogni volta che chiudevo gli occhi, la mia memoria rievocava -con penosi dettagli – il soffocante salotto di Winter, il suo ghigno beffardo, il suo fiato alcolico, le sue mani ripugnanti, il ruvido accenno di barba che irritava la pelle pallida del mio seno.
Tutto era ancora vivido, ed era chiaro che non mi sarei mai liberata di quel ricordo, ma potevo spingerlo lontano nel tentativo di trovare una maschera che ben si confacesse al viso di Ofelia.
Mi trovavo proprio in biblioteca quando una signora mi avvisò che c’era una chiamata per me nell’ufficio di McKenzie.
Non appena la figura di Daniel entrò nel mio campo visivo mi accorsi che mi mancava quella sottintesa complicità con lui più di quanto fosse ragionevole.
“È tuo padre” mi riferì tenendo la cornetta sospesa verso di me e interrompendo quello sconveniente attacco di nostalgia.
Non era nulla di grave. Mi ero solamente dimenticata di chiamarlo all’orario che avevamo precedentemente concordato e lui allora aveva preso l’iniziativa.
Lo rimproverai affettuosamente di aver disturbato Daniel per una cosa decisamente stupida e mentre lo facevo mi sorpresi a studiare i suoi movimenti con un'orribile attrazione.
Non appena me ne accorsi rivolsi gli occhi altrove.
Deposta  la cornetta, i magnetici occhi dell’uomo mi agganciarono non permettendomi di congedarmi.
Era da tanto che non mi sentivo più così in sua presenza. Aveva il perfido potere di mettermi a disagio abusando del peso della sua autorità.
Ci fu qualche istante di silenzio nel quale finsi che guardare le mia mani non era mai stato così interessante.
“Capisco che stai affrontando più di quanto un’adolescente possa sopportare, ma se vuoi confidarti con qualcuno o semplicemente stare in compagnia preferirei che fossi io invece di quel…” potevo vedere i meccanismi del suo cervello muoversi per trovare una parola adeguata. “ragazzo” scelse infine sventolando la mano in un gesto deciso.
Sapevo benissimo di chi stesse parlando ma assunsi un’aria innocente e gli domandai con un tono di voce piatto, smascherato solo dal lampo malizioso nei miei occhi:
“Deve essere un po’ più specifico”
Lui alzò gli occhi al cielo:
“Non ti ho visto con molte altre persone ultimamente...”
Sollevai un sopracciglio cercando di mantenere una certa compostezza, ma alla fine proruppi:
“Si può sapere qual è il suo problema con Nash?”
“Non è una compagnia raccomandabile”
“Nemmeno lo conosce!”
“Conosco abbastanza di lui da sapere che non è una compagnia raccomandabile”
Contrassi la bocca per il fastidio appoggiandomi allo schienale.
“Io non lo frequenterò se lei mi fornisce una ragione valida per non farlo.” Lo sfidai.
I muscoli della sua mandibola sussultarono.
“Non posso.” disse, e poi aggiunse sporgendosi sulla scrivania “non puoi semplicemente fare ciò che ti dico senza obiettare? Mi sembra che non ti abbia mai dato cattivi consigli”
Vero. Nonostante i suoi modi spesso discutibili mi aveva sempre protetta: da me stessa, dai nemici, dagli estranei e adesso voleva proteggermi anche dagli amici. Ma non potevo semplicemente chinare la testa e ubbidire. Volevo delle motivazioni.
Poi ricordai che una volta aveva detto che Nash aveva una cattiva influenza su Oliver. Forse temeva che anche io mi sarei lasciata trascinare.
“Crede che potrebbe danneggiare la mia tanto preziosa reputazione?” domandai. La mia voce prese una sfumatura sarcastica solo sulle due parole che usai per definire la mia reputazione.
“Non è per la tua reputazione che mi preoccupo. O meglio: non del tutto.”
Incrociai le braccia al petto con la risolutezza cocciuta di una bambina e lo scrutai attentamente.
“Allora lo farai? Farai come ti dico?”
Ero grata a quell’uomo per avermi soccorsa così tante volte, ma quell’ imposizione proprio non riuscivo a mandarla giù. Allora guardai pensierosa un punto imprecisato al lato della sua testa poi tornai su di lui con determinazione.
“Scegliere le mia amicizie fa parte delle sue mansioni?”
“Certo che no. Il mio è un consiglio che non ha niente a che fare con il tuo lavoro o con il mio”.
“Come ben sa, non sono particolarmente incline a farmi degli amici, ragion per cui quando ne trovo uno non sono disposta a farmelo sfuggire con tanta leggerezza.”
“Dopo ciò che è successo con quell’uomo” il suo tono e l’espressione divennero belligeranti “non ho più intensione di darti spazio di manovra, Spring.”dichiarò puntandomi il dito contro un paio di volte.
L'oltraggiosa occhiata che gli lanciai in seguito a quel gesto fece increspare le sue labbra.
Era come se si sentisse colpevole di quello che mi era accaduto, ma ero stata io ad impedirgli di accompagnarmi. Non aveva niente da rimproverarsi. Anzi. Aveva evitato che accadesse il peggio.
“Non ho mai avuto modo di ringraziarla per il suo sostegno durante quella brutta faccenda.” affermai prendendolo in contropiede.
Non aveva chiamato mio padre per riferirgli della denuncia a Winter e aveva risolto il tutto talmente in fretta che sospettai gli ci fosse voluto un cospicuo contributo finanziario aggiuntivo alle mie spese.
Durante il periodo in cui a stento riuscivamo ad incontrarci lui stava combattendo per me, per mantenere la sua promessa.
“Farò quanto in mio potere affinchè abbia quello che si meriti”.
Il mio cambiamento di rotta lo spiazzò visibilmente. Si aspettava qualunque genere di contrattazione, qualunque tentativo di puntare i piedi, ma non una risposta così candida. Eppure il suo viso non si distese, anzi, se possibile, si indurì di più.
“Ho fatto una promessa. Era mio dovere mantenerla” rispose con quella sua voce professionale.
Sei mai stato spontaneo in vita tua, Daniel?
“Era suo dovere mantenere la promessa. Non farla.”
Lui colse subito la palla al balzo.
“Se vuoi davvero ringraziarmi stai lontana da quel ragazzo”
Proprio non capiva.
Ormai avevamo condiviso più cose di quanto avessimo mai desiderato. Conoscevamo ognuno i torbidi segreti dell’altro- anche se per quanto lo riguardava io conoscevo solo uno dei suoi torbidi segreti e portava il nome di Nancy.
Non volevo che fosse lui l’unico mio amico. Perché non saremmo mai potuti esserlo per un'infinità di ragioni.
In risposta alla sua ultima affermazione scossi la testa con un piatto diniego.
“Smettila di comportarti come una ragazzina!” sbottò strabuzzando gli occhi per un secondo.
Aveva toccato un nervo scoperto usando quella parola: “ragazzina”.
“E lei smetta di comportarsi come mio padre!” lo rimbeccai di rimando sporgendomi di nuovo sulla sedia.
Lui strinse fra indice e pollice il proprio setto nasale nel tentativo di ricomporsi.
“Mi costringi a passare alle minacce” affermò mantenendo la posizione. Poi liberò il suo naso e guardò indifferente la propria mano che raddrizzava la penna sulla sua scrivania. “tuo padre non sa ancora niente del processo…”
Lasciò la frase in sospeso, ma non mi servì altro per capire dove voleva andare a parare.
“Cosa…che…che dice?” domandai boccheggiando.
“Il processo, Sarah. Tuo padre.”
Intrecciò le mani e premette gli indici sulle sue labbra in attesa della mia disfatta, che arrivò puntuale.
“Vada al diavolo” sibilai spostando la sedia rumorosamente e lasciando in fretta la stanza.
Quella mancanza di rispetto non sarebbe passata liscia, me lo sentivo, ma volevo una piccola rivincita.
 
D’accordo. Daniel McKenzie mi aveva in pugno, ma solo nella misura in cui i miei spostamenti avvenivano sotto i suoi occhi. Ciò che non vedeva non poteva danneggiarmi.
 
“Perché quel muso lungo?” domandai a Nash che assottigliava gli occhi mentre aspirava dalla sua sigaretta.
“Ieri gli affari non sono andati molto bene” rispose alzando le spalle.
“Quali affari?”
“Quelli di cui non ti posso parlare”
Lo guardai. Mi guardò.
“Posso aiutarti?”
Continuò a fissarmi.
“Forse…” cominciò a dire sfregandosi il pollice sul labbro, pensieroso. “no meglio di no” si rassegnò infine.
“Permettimi di aiutarti” le mie sopracciglia si incresparono per la determinazione.
 
Poco tempo dopo mi ritrovai fuori da un locale. La musica ritmata e monotona usciva ovattata dalle mura.
 Nash mi porse un paio di sacchetti di plastica che non guardai nemmeno, tanto era la mia urgenza di nasconderli agli sguardi altrui nella tasca della mia felpa. Il ragazzo mi sollevò il cappuccio sulla testa e si ingobbì un po’ per allineare i suoi occhi ai miei.
“Vuoi che ti mostri di nuovo la foto?”
Scossi la testa.
“Hai capito tutto? Entri, gli dai la roba- con discrezione- ti fai dare i soldi, ed esci”
Annuii e varcai la soglia.
La musica mi avvolse fino a stordirmi, le luci intermittenti mi resero quasi impossibile il compito di riconoscere il mio uomo e a peggiorare le cose un nugolo di persone si dimenava al centro della pista.
Alla fine lo trovai.
Mi affrettai, mi strizzai, pestai senz'altro un paio di piedi, mi scusai e finalmente riuscii a raggiungerlo.
Vedendomi lì impalata smise di spassarsela con il suo amico e mi indirizzò un ghigno.
“Cosa vuoi?” mi domandò facendo un cenno verso di me con il mento.
Ficcai la mano in tasca e in una frazione di secondo i suoi occhi si allargarono mentre le sue mani si fiondarono sui miei gomiti.
Altrettanto velocemente mi ritrassi.
“Non qui!” ringhiò l’uomo tra i denti.
Mi lasciai condurre attraverso uno stretto corridoio e poi in una specie di stanzino i cui unici elementi di arredamento consistevano solo in una piccola scrivania, una sedia e diversi scatoloni accatastati da una parte.
L’odore di stantio si depositò dritto nella mia gola.
“Ti manda Nash?” si informò accomodandosi alla scrivania.
“Sì”.
“Nervosa?
“No” risposi diffidente, e in quel momento avrei voluto possedere il controllo vocale di Daniel.
“Sei nervosa. Carina.” confermò lui muovendosi a finta compassione.
“Gli dai la roba, ti fai dare i soldi, ed esci”.
Nash non aveva menzionato nessuno stanzino.
L’uomo allungò la mano e piegò un paio di volte le dita. Io gli porsi i sacchetti e allungai la mia mano verso di lui a mia volta. Lui ci poggiò sopra delle banconote arrotolate.
“Furbo il nostro amico a mandare una ragazza. Nessuno ferma mai le-“
“È tutto?” lo interruppi bruscamente ansiosa di lasciare quel luogo soffocante.
 Lui mi studiò divertito, espirò dal naso mentre sollevava gli angoli della bocca e poi mi disse:
“Vai.”
Non appena esposta di nuovo al vento fresco della sera presi una lunga boccata prima che Nash mi raggiungesse, mi circondasse le spalle con un braccio e mi conducesse lontano dalla ressa.
“Tutto liscio? Ci hai messo una vita”
“Il tuo amico aveva voglia di fare conversazione” borbottai liberandomi dal suo braccio. Poi mi posi di fronte a lui e gli infilai i soldi in tasca.
“No no. Ti meriti una percentuale” dichiarò ricacciandosi la mano in tasca.
“No! Io non voglio avere niente a che fare con tutto questo! E dovresti lasciar perdere anche tu” esclamai sfilandomi il cappuccio e lasciando che i miei capelli venissero mossi dalla brezza come una nuvola di fumo dorato.
La luce aranciata dei lampioni creò sul suo viso un gioco di luci e ombre che accentuava i suo lineamenti, per cui quando corrugò la fronte in quella espressione di disappunto sembrò quasi grottesca.
“Ti ricordo che sei stata tu a proporre di darmi una mano. Io non volevo neppure coinvolgerti. Hai dovuto convincermi”
“E sono stata felice di poterti essere utile, ma…” sbuffai voltando il viso alla mia destra scoraggiata, poi ritornai su di lui “ti stai comportando da stupido. Potresti guadagnarti i soldi in un modo più sicuro.”
“Credi che voglia fare questo per tutta la vita? Credi che mi piaccia?” disse allargando un braccio e facendo un passo verso di me con gli occhi castani ridotti a fessure. “Non tutti possiamo contare sui soldi di papà.”
“Questa è la cosa più ridicola che abbia mai sentito.” inveii espirando dal naso in un gesto che era per metà una risata derisoria e per metà un sospiro “Finirai dietro le sbarre prima o poi, e io non posso sopportare di vedere anche la tua vita andare in malora. Sei troppo in gamba per questo.”
Nash resistette visibilmente all’urgenza di alzare gli occhi al cielo e la tensione evaporò dalla sua posa.
“Senti. Non vuoi più consegnare la roba? Bene! Nessuno ti costringe, ma non mi rifilare queste stronzate da assistente sociale.”
“Sei maledettamente cocciuto!” ruggii sputando quasi le parole mentre soffocavo l’ impellenza di schiaffeggiarlo.
“Sei tu quella che vuole avere sempre ragione!”
“Potrei anche accontentarti e darti ragione, ma poi saremmo in due ad avere torto”.
Le sopracciglia del ragazzo si sollevarono e le sue labbra si incurvarono appena verso l’alto. Immaginavo che quello fosse il massimo del sorriso che riuscisse a comporre.
La nostra discussione per quella sera finì lì. Ma non avrei mollato con lui. A differenza di William lui avrebbe avuto il suo lieto fine.
Distesa sul materasso, con addosso la mia camicia da notte di cotone azzurro, i capelli sparpagliati sul cuscino e gli occhi chiusi, lasciai maturare dentro di me la consapevolezza che le preoccupazioni di McKenzie riguardo Nash erano fondate.
Proprio come l’uomo aveva sicuramente previsto mi ero lasciata coinvolgere, ma sarebbe stata l’ultima volta.
 
Un’ora prima dell’apertura del sipario, una bionda esageratamente truccata stava stendendo sui miei occhi un velo di ombretto mentre un uomo dalle fattezze effeminate appuntava i miei capelli dietro la mia testa in una mezzacoda molto morbida. I miei sensi, però, non registrarono quello che stava avvenendo attorno a me,  troppo all’erta su quello che stava accadendo all’interno.
La mia mente riproduceva spiacevoli scenari in cui io puntualmente mi rendevo ridicola di fronte al pubblico o esso manifestava il proprio dissenso nei confronti della mia performance.
Nausea, tensione, angoscia.
La piacevole contrazione che mi annodava lo stomaco prima di ogni spettacolo si era trasformata in una dolorosa pressione sul cuore.
Mi precipitai lontano dalle due persone che mi stavano preparando e corsi nel primo angolo buio e sicuro in cui poter soffrire in solitudine.
Un attacco di panico non avrebbe volto le circostanze a mio favore se l’intento era quello di dimostrare al regista o ai miei colleghi che ero pronta ad entrare in scena.
Sentii il trucco sciogliersi per il sudore e la mia gola serrarsi.
Rimasi lì accucciata stringendo uno dei numerosi cavi che mi circondavano, in attesa. Poi un paio di piedi entrarono nel mio campo visivo e una voce apparentemente distante pronunciò il mio nome allarmata.
L’uomo si accovacciò accanto a me e finalmente anche il suo volto entrò nel mio campo visivo.
Daniel.
La sua espressione trasudava tutta la sua apprensione.
Spinse la mia spalla per far aderire la mia schiena al pavimento e mentre mi scuoteva delicatamente potevo vedere i suoi occhi prendere nota del rapido su e giù del mio petto, accentuato dal corsetto che indossavo.
Dovevo sembrargli una bambola di stracci perchè non riuscivo ad opporre resistenza né a rispondere ai suoi stimoli.
“Parlami!”
Cercai di farmi largo nella nebbia opprimente che mi avvolgeva, ma tutto quello che mi uscì fu solo un gemito.
Sussultai  quando percepii le sue dita tirare maldestramente e frettolosamente i lacci del corsetto fino a liberarmene definitivamente.
Meglio. Molto meglio.
Poi sollevò la mia schiena e mi tenne la testa appoggiata contro il petto solido sussurrandomi parole che non riuscii a cogliere ma che suonavano confortanti.
Il battito regolare del suo cuore ebbe su di me un effetto rassicurante a cui si univa la piacevole sensazione della mia guancia premuta contro la stoffa della sua camicia, il suo odore che sapeva di autunno e il tepore del suo corpo.
Mi aggrappai letteralmente alla sua camicia finchè le mie dita persero vigore e la nebbia mi inghiottì del tutto.



  
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