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Autore: Judy Kill Em All    12/10/2013    4 recensioni
«Tu eri più importante» sussurrò avvicinandosi a me, asciugai le lacrime tinte di trucco nero dai miei zigomi e dissentii scuotendo la testa.
«Dovevo rassicurarti, capisci? Dirti tipo “non me ne sto andando, ti chiamerò sempre, ti penserò sempre…”» e io singhiozzai ancora di più a quel punto, indignata, le prese in giro facevano sempre male, soprattutto dagli amici più cari.
«No, no, no, che cazzo, tu dici un mare di cazzate, e non so come faccia tu a starci a galla» scossi la testa di nuovo, e appoggiai la fronte al suo petto artigliandomi al suo maglione largo e morbido.
«Non ti dimenticherò» alzò il mio viso per guardarmi negli occhi e si avvicinò.
«Se mi baci ora, sappi che ti odierò tutta la vita. Fino alla morte, perciò non baciarmi» dissi in lacrime, senza convincere nemmeno me stessa.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Che ore sono?» non vedevo nulla, era buio pesto.

«Saranno le quattro, penso» rispose il ragazzo di fronte alla finestra, del quale vedevo solo l’ombra. Si avvicinò a me con le mani avanti per non andare a sbattere contro nessun mobile.

«Che ci fai sveglia?» chiese poi, sedendosi sul letto accanto a me.

«Che ci fai a casa mia?» lo interrogai, ignorando la sua domanda.

«Hai lasciato la finestra aperta, fa molto film americano, ma mi sono arrampicato sull’albero e sono entrato» ridacchiò.

«Così hai risposto alla domanda “Come sei entrato?”» puntualizzai mettendomi a sedere ed accendendo la luce soffusa dell’abat-jour, mi stropicciai un occhio e sbadigliai.

«Non essere puntigliosa» si lamentò togliendosi il solito cappellino di lana che teneva costantemente in testa.

«Sei fuggito da Lucy in piena notte, sei un pessimo amante» lo rimproverai scuotendo la testa con disappunto.

«Sei meglio tu» ammise coricandosi al mio posto e spingendomi giù dal letto.

«Josh non approverebbe, dice di amarmi» mi alzai e mi sedetti di peso sopra al suo stomaco.

«Ti amo di più io di quanto lo faccia quel coglione» scherzò dimenandosi sotto il mio peso. Avrei voluto che non scherzasse, perché mentre ridevo i miei occhi chiedevano gentilmente di farmi sparire.

«Portami al mare» proposi seria.

«E’ lontano e l’alba è troppo vicina, ho la piscina riscaldata a casa, va bene lo stesso?» domandò alzandosi in piedi all’istante. Sorrisi ed afferrai un costume da bagno dalla scatola di cartone sotto la scrivania, uscii dalla finestra e saltai sull’albero.

«Non ti ammazzare!» mi ammonì; saltai dal ramo sul quale ero appoggiata ed atterrai con grazia, illesa.

 

«Chelsea, amore?» il lenzuolo era tutto arrotolato intorno alle mie ginocchia ed ero sudata fradicia.

«Dimmi» mugugnai rivolta alla voce che riconobbi essere quella di mia madre.

«A che ora hai il colloquio?» a quelle parole sobbalzai all’istante, afferrai il telefono per controllare l’ora e…era spento.

«Cazzo!» imprecai alzandomi in fretta e furia dal letto ma, essendo che le lenzuola avevano perso la loro funzione primaria, trasformandosi in una camicia di forza, il risultato della mia azione fu una caduta terribile e soprattutto molto dolorosa.

«Mamma, che ore sono?» domandai cercando inutilmente di alzarmi da terra il più rapidamente possibile.

«Le otto» rispose sogghignando e porgendomi una mano per aiutarmi a tornare in piedi.

«Porca merda, è alle otto e trenta, aiuto, mamma ho tanto una faccia da coma?» domandai correndo in bagno per verificare a che profondità erano riuscite ad arrivare le mie occhiaie e, tutto sommato, erano quasi dei leggeri segni scuri: niente di incorreggibile.

In tempo zero mi lavai, mi vestii e mi truccai in modo quasi accettabile, per poi correre a perdifiato fuori dalla porta di casa e ricordarmi che senza le chiavi della macchina, con molta probabilità, non sarebbe partita.

Alle otto e venti ero in macchina, con il fiatone, completamente stravolta.

Appena accesi la macchina partii in quarta: mi ci sarebbero voluti comunque più di venti minuti per arrivare a quel maledetto colloquio. Per di più si sarebbe tenuto in un hotel di quelli a cinque stelle, prestigiosissimi; ci mancava poco che per entrare ci fosse l’obbligo della scansione della retina, quindi la puntualità era d’obbligo.

Mi ero domandata ininterrottamente come diamine avessi fatto a farmi convocare per un colloquio di lavoro; il mio curriculum comprendeva principalmente fast-food. Ovvio, prestigiosi fast-food, famosissimi ed acclamati in tutto il mondo: il McDonald, per esempio.

Appena giunta a destinazione, entrai nel parcheggio interno con la mia auto di seconda mano che sfigurava rispetto tutte le automobili nuove di zecca e tirate a lucido di chi lavorava in quel posto.

 

«Posso esserle utile?» ad accogliermi fu un uomo molto carino, alto e dai lineamenti delicati, con un sorriso a trentadue denti così bianco ed abbagliante, che avrebbe fatto sfigurare anche la neve.

«Sì» risposi sorridendo gentilmente «Sono qui per il colloquio…» iniziai a spiegarmi, ma fui subito interrotta dal ragazzo che, intimandomi di seguirlo, mi scortò attraverso l’enorme hall coloratissima e mi fece accomodare in uno studio molto piccolo con solo una scrivania e due sedie: una da un lato ed una dall’altro.

«Può attendere qui, il direttore la raggiungerà tra un istante» mi congedò e tornò al suo lavoro abituale.

L’ambiente era veramente spoglio e povero, l’unico elemento caratteristico sarebbe potuta essere l’enorme finestra che illuminava a tal punto l’ambiente da far sembrare la stanza all’aperto.

Il direttore, un uomo poco più basso di me, di corporatura robusta, arrivò dopo qualche istante e si sedette dall’altro lato della scrivania.

«Lei deve essere Chelsea Adams, dico bene?» domandò strizzando gli occhi per mettere a fuoco il nome stampato sul foglio di carta che stava esaminando.

«Sì» risposi annuendo.

«Mh. E’ stata convocata per un motivo» quando pronunciò questa frase per poco non scoppiai a ridere, insomma, era l’ovvietà in persona quell’uomo!

«Abbiamo degli ospiti speciali questa settimana e abbiamo bisogno di bella presenza. Come cameriera» sorrisi forzatamente alle parole “bella presenza”, sembravo appena uscita da un coma data la mia forma fisica ed il mio viso troppo magro, mi sarei definita qualunque cosa, fuorché di presenza gradevole.

«Bene» commentai, allentando appena la collana che improvvisamente era diventata troppo soffocante.

«Pensa di essere in grado?» mi domandò con aria di inquisizione, scrutandomi da dietro un paio di occhiali da vista con le lenti pulite ed una montatura elegante.

«Di servire ai tavoli?» chiesi in risposta, un po’ stupita.

«Beh, in poche parole sì, quello» mostrò i denti in un sorriso un po’ tirato e troppo nervoso per passare come sincero.

«Penso di sì, certo» risposi annuendo allegra, forse era una giusta svolta nella mia vita, per una volta.

***

«Ciao, piacere, io mi chiamo Marco e sono italiano» disse un ragazzo di appena una ventina d’anni con un marcato accento che confermava ciò che aveva detto nella sua presentazione.

«Ehm, io sono Chelsea, sono americana» dissi salutando con la mano in modo nervoso.

Nemmeno io avevo capito bene cosa fosse successo: quell’uomo dall’altro lato della scrivania, illuminato dalla fortissima luce del sole si era alzato in piedi e mi aveva stretto la mano, mi aveva sorriso sfregandosi le mani e aveva detto qualcosa come “Allora arrivederci, ci vediamo domattina alle otto, gli ospiti saranno qui dopodomani, avrà abbastanza tempo per far pratica, mi auguro”, mi aveva cacciata malamente fuori dal proprio “studio” e mi ero ritirata, un po’ perplessa.

E in quel momento avrei voluto sotterrarmi: indossavo una divisa datami in dotazione, completamente diversa da quelle viste nei film, che fanno sembrare ogni ragazza professionale e bellissima.

«Ora ti presento lo staff, seguimi!» iniziò ad andare avanti ed indietro per la cucina a passo svelto, schivando abilmente i vari scaffali che io, ovviamente, presi in pieno con qualunque parte del corpo.

«Lui è Jenn» indicò un uomo di colore alto ed imponente, con le braccia spesse quanto le mie gambe messe insieme. Forse anche un po' di più.

«Ciao» mi salutò con voce bassissima ed un lieve sorriso, ricambiai il saluto timidamente.

«Lei è Ann» mi salutò una donna di circa quarant'anni, magra, bassa con i capelli scuri legati in un elegante chignon, la salutai a mia volta allegramente.

«Ann ti insegnerà come relazionarti con la cucina, ti affido a lei» finì il suo discorso che sembrava un testo imparato a memoria e se ne andò, tornando alla sua postazione.

Solo quel giorno, in un’ora e mezza ero stata sballottata a destra e a sinistra ed affidata a circa otto persone differenti, roteai gli occhi al cielo e mi avvicinai alla mia nuova insegnante.

«Piacere, io sono Chelsea» mi presentai tendendo una mano verso di lei, la strinse calorosamente e mi scortò in una sala che non avevo mai visto: pareti color crema ed enormi lampadari in vetri colorati davano un’aria accogliente a quello spazio immenso, tavoli rotondi di diverse dimensioni circondati da sedie imbottite di una tinta simile ai muri ricoprivano parzialmente quell’immenso spazio,. Ero sorpresa, non ero mai stata in un luogo del genere.

Anche se era abbastanza presto, alcuni mattinieri erano già intenti a fare colazione allegramente, soli o con famiglie ed amici.

«Ci sono poche regole da ricordare. Primo: avrai questo palmare dove prendere le ordinazioni, qui clicchi per mettere il numero del tavolo; qui scegli se primo, secondo, bevande, contorno, colazione dolce o salata…» elencò il tutto contando sulle dita, parlando sempre più in fretta; annuii perplessa ed afferrai l’oggetto che mi stava porgendo.

Camminò svelta verso un tavolo e la seguii; si rivolse ad un cliente con voce gentile e domandò:«Vuole ordinare?» per poi segnare rapidamente con la pennetta su quell’aggeggio elettronico del quale avrei faticato ad imparare le funzioni.

«Secondo: devi essere sempre carina e disponibile, capito? E sorridere» mi ammonì in modo quasi materno.

«Scusi…» iniziai a dire, ad un certo punto, pensierosa.

«Dammi del tu, mi sembra di farmi dare del lei da mia figlia» scherzò facendomi l’occhiolino.

«Grazie…volevo chiedere…se c’è già una cameriera, io a cosa servo?» ero seriamente dubbiosa.

«Avevano bisogno di personale per questa settimana, per portare roba in camera, ai tavoli, cose così. Penso però che ti terranno, cercavano qualcuno già da un po’» mi rassicurò dirigendosi nuovamente in cucina, la seguii a ruota.

«Cosa succede questa settimana?» chiesi ancora, cercando di non inciampare tenendole il passo.

«Arriva qualcuno di famoso. Mia figlia mi ha detto che è una band, pensavo fosse un cast di un film. Non mi chiedere il nome, non me lo ricordo assolutamente» disse sbrigativa, mi spintonò in sala e rimasi lì immobile non sapendo bene cosa fare.

«Vai al tavolo dodici!» mi intimò indicando con un cenno del capo un tavolo, in cui un gruppetto di ragazzi poco più piccoli di me, era intenzionato a fare colazione.

Rimasi inchiodata sul posto un’altra manciata di secondi, poi scossi la testa per darmi una svegliata e mi incamminai un po’ titubante verso quei ragazzi felici.

«Buongiorno, sono la nuova cameriera» mi accolsero con un grande sorriso che io ricambiai «Volete ordinare?».

Tutto sommato non era un lavoro così arduo, né così complicato, era quasi come lavorare nei fast-food, l’unica differenza erano i numerosi piatti dai nomi articolati.

“Sei una ragazza carina” mi disse in confidenza un ragazzo in quel tavolo, vedendomi impaurita; “te la caverai”, aveva aggiunto strizzando poi un occhio ed avventandosi sul suo piatto stracolmo di bacon, uova strapazzate, salsicce e toast bollenti.

***

«Come è andata oggi?» domandò mia madre, appena misi un piede oltre la soglia di casa, sul tappeto rosso con scritto “Welcome”.

«Bene, penso» risposi chiudendo la porta alle spalle e lasciandomi cadere su una sedia, sfinita.

«Mamma, che ci fai ancora sveglia? E’ mezzanotte» constatai sbadigliando sonoramente e appoggiando una guancia al tavolo fresco.

«Ti volevo aspettare. Ha provato a stare sveglio anche Matt, ma non ci è riuscito, voleva salutarti, era stanco per il viaggio» sorrise e posizionò di fronte a me una tazza di tè fumante. Strabuzzai gli occhi e per poco non gridai.

«Matt è qui?» per un istante ebbi la tentazione di andarlo a svegliare, ma mi trattenni.

Matt era mio fratello minore, aveva ventiquattro anni e, tre anni prima, si era trasferito in Germania, ad Amburgo; ci sentivamo spesso al telefono anche se, ultimamente, tra il suo lavoro ed i miei impegni avevamo completamente smesso di tenerci in contatto e la mancanza era stata avvertita da entrambi.

 

Bevvi qualche sorsata di quella deliziosa bevanda calda e mi alzai, contenta di andarmi finalmente a coricare.

«Ah, Chelsea, hai lasciato il telefono a casa, hanno chiamato» disse mia madre prendendo un foglietto con su appuntato qualcosa dalla mensola in marmo della cucina.

«Chi?» domandai curiosa afferrando quel pezzetto di carta.

«Era un ragazzo, ha detto di lasciarti questo messaggio, ha detto che non era urgente» rispose lei, facendo spallucce.

Andai verso camera mia spogliandomi strada facendo e disseminando vestiti lungo tutto il percorso; appena arrivai mi sedetti sul letto e lessi quel curioso biglietto.

Un numero di telefono e basta, nient’altro.

Subito pensai alla telefonata di due sere prima ed un brivido mi percorse la spina dorsale, avevo una strana sensazione: non volevo chiamare quel numero.

Mi coricai sul letto sfatto dalla mattina e chiusi gli occhi indecisa, non capivo chi potesse essere a chiamarmi da un numero privato in piena notte, ma volevo capire se fosse eventualmente collegato al numero sul foglietto.

“Dormi, dormi, sei stanca, domattina te ne occuperai” pensai ardentemente; mi addormentai all’istante, ero troppo stanca per restare sveglia un secondo di più.

***

Ovviamente mi svegliai in piena notte, tormentata dal pensiero di chi mai avesse potuto essere il ragazzo misterioso.

“Al diavolo, io chiamo” pensai, per niente preoccupata di che ora fosse.

Composi velocemente il numero e attesi.

«Servizio di segreteria telefonica…» rispose una voce metallica.

«’Fanculo» imprecai strappando il foglietto sul quale era impresso il numero a penna e gettandolo nel cestino.

 

*--*--*--*

Gente!

Come state miei pargoli adorati? (Quanto è bella la parola pargoli?)

Io spero che stiate bene, perché siete davvero bellissimi, tutti quanti.

[Della serie: “Mi state simpatici, vi ucciderò per ultimi”]

 

E sì, hell, sono cosciente del fatto che in questo capitolo NON SIA SUCCESSO NULLA DI COSTRUTTIVO.

Ma i capitoli di transiziooooone sono assolutamente (u.ù) d’obbligo.

E comunque siate clementi, ho avuto per un’intera giornata la tastiera impostata tipo in afgano o qualcosa del genere e praticamente schiacciavo l’apostrofo ed usciva il trattino, il trattino ed usciva il punto interrogativo. Pensavo di morire, ma per vostra (s)fortuna sono ancora qui viva e Vegèta.

(Sì, è vecchia e triste questa battuta)

 

Comunque io ho sempre preferito Vegeta a Goku, perché è molto femminile e gaio <3

 

No, cavolo, perché mi perdo nei discorsi?!

 

Allora, dicevo, non è successo niente di che perché il bello arriverà nel capitolo numero 4, quindi aspettatelo con ansia, intanto vi lascio qualcosa di amabile:

 

http://www.youtube.com/watch?v=poZLiypLJzQ

& anche questo

http://www.youtube.com/watch?v=ye0XhDdbFs4

e basta.

 

Arrivederci :*

 

Judy Kill Em All.

  
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