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Autore: Silny    12/10/2013    2 recensioni
5 minuti, 5 eredi di cui una muore e con essa un elemento fondamentale della famiglia, appena qualche anno dopo.
Una figlia maggiore troppo cresciuta, uno concentrato solo al lavoro e alle responsabilità e un gemello gay, in fine la piccola di casa sperduta chiusa nel mutismo dopo la perdita di due persone importanti e il suo aspetto quasi sempre moribondo.
Il tutto gestito da un marito e un padre che crede di aver perso tutto, ma non sa di aver appena incominciato il suo viaggio...
Dal seguito di '5 minuti con te sotto la neve' Silny production presenta a grande richiesta '5 minuti ancora'.
Perché il tempo non è mai abbastanza per amare come vorremmo e come dovremmo.
(Non è necessario aver letto la prima storia!)
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La collina dei pensieri

Christelle

Corri Christelle.
Corri più veloce che puoi.

Lo potevo sentire, il mio cuore. Potevo sentirlo battere freneticamente, instancabile.
Qualche volta dubitavo di averne uno ancora palpitante, vivo, pulsante sangue caldo. In realtà mi sentivo così fredda, sapevo di esserlo e lo sarei stata ancora.
Non ti fermare Christelle.
Quella voce mi spronava costantemente, era la mia. Dovevo e potevo contare solo sulle mie forze, sempre e comunque... dovunque.
Tek correva al mio fianco, fedele dal principio. Riponevo la mia unica compagnia in quell' essere vivente ormai. Era un cane, randagio, abbandonato, un mezzo lupo. Lo trovai una sera sulla strada del ritorno vicino a  un cassonetto. Lo raccolsi perché non aveva paura, non tremava e non si sentiva di essere diverso, di non appartenere a quel mondo. Lo raccolsi e lo portai a casa con me perché eravamo uguali, solo incompresi. Papà non disse nulla, il suo tentativo di ribattere svaporò immediatamente, ormai non ci provava più.
Tek crebbe insieme a me, con le mie abitudini e i miei ritmi.
La sera, prima di rientrare a casa, salivo la collina e mi fermavo lì al tramonto, a guardare la città impotente sotto i miei piedi.
Avevo diciotto anni, un corpo slanciato e smilzo tuttavia minuto per la mia età, mi sentivo piccola dovevo ammetterlo, ma lassù, là dove nessuno sapeva e poteva trovarmi ero libera di sentirmi importante, di sentirmi abbastanza forte per affrontare il giorno a venire... ero abbastanza grande da tenere con una sola mano l'intera città.
Mi lasciavo andare a quel promontorio, sdraiandomi sul prato, abbandonandomi ai pensieri che prendevano forma lentamente. Pensieri, speranze, sogni ormai perduti. Ero costituita da tanti elementi differenti, che consideravo niente più che flebili immagini prive di corpo e sostanza. Li consideravo inutili, esattamente come la mia esistenza. Stavo lì perché qualcuno ne aveva bisogno, mero sfruttamento.
Osservavo il cielo aranciato che mi sovrastava e spesso pensavo a mia madre; non avevo mai versato una lacrima per lei, e per nessun altro al mondo. Non piansi il suo ricordo, la sua assenza, i suoi rimproveri quando ancora era con noi, non piansi mai, ma non per questo non l'amavo. Mi mancava in tutto, nelle più piccole cose che facevano di lei la madre migliore che si potesse desiderare, ma era stata sua la scelta di lasciarci andare, di partire per un viaggio senza alcun ritorno, dalla destinazione ignota.
Mi aveva lasciata così, mi aveva lasciato solo il suo fardello, una casa da mandare avanti e una famiglia d'accudire che ormai non potevo considerare più come tale. Non avrei mai potuto perdonarla.
Mi trattenevo su quella collina il più possibile, solo per fare tardi e poter correre la strada del ritorno. Correre mi faceva sentire viva: l'aria gelida che entrava attraverso la bocca si infrangeva senza pietà nei miei polmoni, pungente, tagliente. Quando finalmente mi fermavo quel dolore persisteva e mi mozzava il fiato, provocando un incontenibile senso di soddisfazione.
Allenavo così la mia mente, il mio corpo... e il mio cuore.
Insegnavo alla prima a impartire ordini precisi nonostante la fatica, costringevo il corpo ad obbedire senza tregua... e rammendavo al cuore di essere fiducioso, di confidare sempre nelle proprie capacità.
Corri Christelle, più veloce che puoi, senza mai fermarti. Corri senza badare alla corrente del vento.
Corri e basta.

"Sei tornata..."
Alan era quasi sempre il primo ad accogliermi quando rientravo, con quel suo tono sgarbato e falsamente disinteressato. In realtà gli importava di tutto e di tutti, gestiva ogni cosa all'interno di quella casa. Le bollette, le tasse... i legami... erano tutti affari che teneva sotto controllo lui. Nonostante la sua età era più che maturo.
Il nostro rapporto era freddo e distaccato, ci volevamo bene, ovvio, ma senza effusioni affettive, senza doverlo dimostrare.
Alan ne voleva a chiunque, ma non lo diceva, era docile e silenzioso, si esponeva solo per difendere i propri ideali o qualcuno a lui caro, ma le cose cambiarono dopo la morte della mamma. Il suo sguardo divenne duro, impenetrabile e tutto quel che di buono gli piaceva mostrare lo recluse da qualche parte nel suo petto che gridava pietà, in quel cuore lacerato a malamente rattoppato dal quale grondava ancora del sangue denso e viscoso, carico di sofferenze celate.
"Perspicace... papà è tornato?"
"No, non ancora. Lo chiedi tutte le sere e tutte le volte la risposta è sempre la stessa."
Mio padre si presentava solo per l'ora di cena. Durante il giorno lavorava, usciva e si chiudeva nel suo ufficio mentre la sera spariva.
La domanda era sempre la stessa perché una sola volta, una soltanto avrei voluto vederlo a casa a tempo debito, vederlo sorridere, lavarsi le mani nel lavabo della cucina e mettersi ai fornelli come un tempo faceva insieme alla mamma. Ora che lei non c'era più, volevo vederlo al mio fianco, volevo che mi posasse una mano sulla spalla e che mi domandasse se avevo bisogno di aiuto. No, non ne avevo mai bisogno in realtà, ma il solo fatto che si interessasse, che potessi ancora credere che gli importasse qualcosa di noi, mi avrebbe fatto stare meglio.
"Verrà solo per mangiare e assicurarsi che siamo vivi, lo sai bene."
Distolsi lo sguardo da quello di Alan e, nel tentativo di distrarmi dal dolore pungente che saliva agli occhi, spinsi con un piede la ciotola di Tek, per riempirla d'acqua.
"No, gli passerà. Vedrai che prima o poi..."
"Molto poi suppongo! Lasciamo stare, ti do una mano io..."
Alan era un ragazzo riflessivo, come me.
Se però io sapevo porre una minima speranza o fiducia in quel che ci circondava, lui non lo voleva fare. Diceva di non poter credere in cose come la fiducia e la speranza, perché avrebbero finito col deluderlo, che l'unica cosa di cui era certo erano le cose ragionevoli e razionalmente spiegabili. Per lui nostro padre era fatto così, e così doveva essere e rimanere.
E io finivo sempre per credergli, per dar retta alle sue razionalità.

"Charlie! Virginia! Scendete a mangiare!"
Mia la responsabilità della casa, mio il dovere di assicurarmi che le regole fossero rispettate. Ero la fustigatrice di casa: dovevo occuparmi dei miei fratelli minori e della loro educazione, facendomi sentire forte e chiaro. Viviamo in un mondo dove chi grida più forte e si fa sentire meglio detiene più rispetto e ammirazione.
Io non miravo a quest' ultima, ma al rispetto sì, era fondamentale in quel sistema gerarchico che era divenuto la mia famiglia.
Tutte le sere io cucinavo e loro a turno si occupavano di riordinare.
"Come va sorella?"
Charlie era beatamente rimasto nel mondo infantile che si era creato, eravamo così differenti che la sua spensieratezza e la sua infantilità mi davano la nausea.
"Siediti e smettila di fare l'imbecille."
"Non ho fatto niente!"
Non controbattevo mai, era impossibile. Era alla pari che discutere con un bambino, quindi le nostre conversazioni non andavano mai oltre.
"Ciao, Virginia. Andata bene la giornata?"
Lei mi sorrideva e accennava un sì con il capo. A me bastava quello. Mi bastava guardare le sue iridi cristalline per capire cosa veramente volesse dirmi, e avevo la sensazione che io fossi l'unica a poter leggere così bene le sue espressioni.
Virginia non parlava. Da piccola non era molto loquace, era già silenziosa e poco volenterosa nelle conversazioni. Parlare non era il suo forte.
Una notte all'età di sei anni, disse di aver sognato Ginevra sdraiata sul prato nel cortile di casa, questa si era voltata e le aveva sussurrato di non dimenticarla, di non dire a nessuno quello che l'avrebbe uccisa. Mi raccontò di averla vista smagrita e pallida, morente nelle sue fattezze di fantasma su quel prato così verde e cangiante. A quei tempi Ginevra era già malata e qualche giorno dopo il sogno fatto da Virginia, lei morì. Fu una pura coincidenza, i medici le avevano già dato un termine, le rimaneva poco tempo, ma Virginia ne rimase condizionata e dopo quell'incubo si ritenne responsabile della morte della gemella e smise di parlare per sempre, per evitare che le sue parole ferissero qualcun altro. Da allora le cose andarono sempre peggiorando fin quando anche la mamma venne a mancare e gli occhi di Virginia si spensero una seconda volta, trasformando il suo silenzio in una precoce morte interiore. Recludendola per sempre dentro se stessa. Solo lì, si sentiva al sicuro.
Dopo tanti anni, nonostante insistessimo, la scongiurassimo o minacciassimo, ci abituammo a quel suo silenzio che divenne quasi una normalità.
"Hai fame?"
Virginia non si esprimeva nemmeno con il linguaggio dei segni, si era rifiutata di impararlo. Non voleva comunicare in nessun modo, e quello sarebbe stato un modo come un altro di parlare.
Spesso si rifiutava di mangiare, era magra e cagionevole.
Lei studiava a casa; frequentò pochi anni nell'ambiente scolastico, ma spesso veniva presa di mira, derisa o semplicemente non veniva capita. Virginia era diversa, Virginia non era una bambina come tutte le altre e nessuno era in grado di comprenderlo.
Dopo vari episodi di molestie nei suoi confronti, i nostri genitori decisero di tenerla a casa e di assumere un insegnante privato che potesse darle lezioni normalmente. Non doveva fare altro che parlare e accertarsi che a fine mese la sua silenziosa e dedita studentessa avesse imparato le sue lezioni, ma in realtà aveva poco da insegnarle. Era una ragazzina sveglia e mostruosamente intelligente. Al momento dei test finali aggiungeva sempre più cose di quanto avrebbe dovuto. Stava per compiere sedici anni e le erano state offerte parecchie occasioni di studio avanzato, ma era chiaro che non avrebbe potuto cavarsela da sola senza proferire una singola parola. Dovette rinunciare spesso e tutte le volte sembrava non esserne dispiaciuta. La sua curiosità veniva ripagata con titoli di studio e innumerevoli occasioni, ma lei sembrava non curarsene; distruggeva da sé i frutti del suo raccolto.

Io stavo sempre di fronte ad Alan, alla mia destra invece sedeva Virginia. Sul lato sinistro di Alan c'era Charlie e il posto a capotavola rimaneva sempre vuoto; un tavolo apparecchiato per una persona che puntualmente non c'era mai.
La cena proseguiva così, condita di un silenzio ostinato e crudo, gli sguardi affondati nei piatti e in sottofondo il tentennio delle forchette sulla porcellana bianca. Ogni tanto lanciavo uno sguardo al piatto di Virginia, solo per scoprirlo quasi del tutto pieno, aveva appena pizzicato la purea e la cotoletta di soia. Lei non mangiava carne.
Alan ad un certo punto accendeva la TV e si concentrava per cinque minuti al notiziario, poi la rispegneva. Era una cosa monotona e priva di significato, ma riunirci a tavola era l'unica cosa che ancora teneva vivo il ricordo di nostra madre; lei pretendeva che ci fossimo sempre tutti a tavola, che fosse una riunione di famiglia vera e propria.
Osservavo l'orologio da muro appeso alle spalle di Alan ogni cinque minuti, nostro padre rientrava sempre alla stessa ora: otto meno un quarto, a cena inoltrata e quasi conclusa.
Attendevo impaziente fissando in modo costante quelle lancette lente e pesanti. Uno scatto dopo l'altro, quasi tenessero il ritmo del mio cuore rallentato.
Poi la porta si apriva.
"Ciao a tutti, ragazzi."
Esordiva mio padre tenendo la giacca in una mano e l'altra sul pomello della porta.
Noi alzavamo appena lo sguardo, giusto per fargli capire che l'avevamo sentito e poi ritornavamo sui nostri piatti. Solo Virginia si prestava sempre a sfoderare un dolce sorriso per lui, io e Alan non ne eravamo più in grado e Charlie si ritraeva prima di tutti quanti, ma nessuno sapeva perché lo temesse così.
Papà faceva un rapido giro del tavolo dopo essere passato dal bagno: posava una mano sulla spalla di Alan in una pacca virile, una sulla testa di Charlie, poi superava il suo posto e raggiungeva con un bacio la guancia di Virginia... poi si sedeva.
Per me non rimaneva nulla... una carezza, una pacca, un bacio... il nulla, mi spettava solo questo e quando lui si sedeva io mi alzavo portando via il mio piatto.
Alan percepiva la mia sofferenza in tutto questo e mi sosteneva seguendomi. Charlie aspettava ancora qualche secondo e poi faceva lo stesso, per lui non aveva senso rimanere lì a discutere.
Così nostro padre si ritrovava da solo a tavola con la piccola Virginia, incapace di comunicare. Lei continuava a tenere un sorriso accennato sul suo volto come se avesse un messaggio per quell'uomo vecchio e stanco, un messaggio che diceva 'non ti preoccupare', ma papà sembrava non capirlo, si abbandonava allo sconforto e si lasciava andare a quella cena fredda e solitudinaria.
Virginia lo aspettava ancora fino alla fine del suo pasto e poi si alzava portando con sé i piatti di entrambi, si avvicinava e porgeva lui un piccolo bacio.
"Buona notte Virginia."
Capiva e rispondeva nostro padre a quel gesto mentre lei iniziava a salire le scale e rintanarsi tra le mura della sua camera.
Lui rimaneva a tavolo ancora un po', incrociava le braccia sul ripiano in legno... e poi abbandonava la testa su di esse, soffocando così le sue lacrime. Più di una volta lo vidi, e tutte le volte ebbi l'irrefrenabile desiderio di scendere e abbracciarlo, dirgli che gli volevo bene e che volevo fosse felice con noi.
Invece stavo lì sulle scale ad osservarlo e poi mi ritraevo raggiungendo la mia camera da letto, fingendo di non aver visto, mentendo al mio cuore, a me stessa, sussurrandomi che non mi importava.

Una mattina mi svegliai al chiarore di un cielo grigio, opprimente, lo sentivo pesare sul petto costringendomi e scostare le coperte. Mi coprii gli occhi con il braccio e distesa così com' ero decisi che avrei ignorato la sveglia, la lezione di chimica, il test di algebra, la lunga e noiosa spiegazione sui fallimenti dell'essere umano e sarei rimasta a letto. Dissi a mio padre, attraverso la porta del bagno, che sarei rimasta a casa, ovviamente lui non protestò e tornai in camera mia con Tek senza attendere una risposta.
Sentii al piano di sotto Alan e Charlie uscire di casa, la porta che si chiudeva dietro di loro. Poi mio padre in cucina intento a prepararsi il caffè, la porta del garage e il cancello automatico in fondo al cortile. Poi le ruote sfrigolare sull'asfalto gelido e in fine il silenzio.
Fuori faceva freddo, era pieno inverno e Dicembre risplendeva nel suo candore, bianco e soffice.
Di ritornare al mondo dei sogni non se ne poteva nemmeno discutere quindi mi sedetti a gambe incrociate sulla trapunta chiara e fresca e attesi il tempo scorrere lentamene. Tek accucciato sul tappetino con la testa poggiata al bordo del letto, mi squadrava impaziente e scondinzolante. Presi il suo lungo muso tra le mani e lo fissai negli occhi scuri e profondi.
"Hai fame, non è vero?"
Per tutta risposto, mi leccò una guancia strappandomi un sorriso e dandomi la forza di scendere al piano di sotto.
Percorsi il corridoio di moquette granata e raggiunsi la lunga scalinata. Arrivai in cucina e misi sul fuoco una pentolino per il tè.
Mi sedetti sul ripiano in marmo e attesi fino a quando il campanello. 
'Questo è Charlie...'
Mi diressi verso la porta e aprii con noncuranza.
"...Salve!?"
"Buongiorno, mi chiamo Raphael Lemoin. Sono il nuovo insegnante di Virginia. Suo padre mi ha fatto entrare e mi ha detto di suonare qui all'ingresso."
Rimasi un attimo in silenzio, all'improvviso mi vergognai della mia presenza, con il mio pigiama di flanella e lo sguardo ancora impastato dal sonno.
Era un ragazzo quasi sulla trentina o poco meno, i capelli scuri, corti e arruffati in perfetto contrasto con quegli occhi chiari e brillanti di un azzurro vitreo. Un accenno di barba sul mento squadrato e il busto ben piantato, robusto e sicuro di sé. Teneva stretti al petto un paio di libri spessi in quel abbigliamento da perfetto e cinico intellettuale razionalista.
Feci un passo lateralmente e allungai un braccio in segno di assenso.
"Lei deve essere Virginia, posso dedurlo dal suo silenzio?"
La sua era una domanda, forse retorica o forse ero io ad aver frainteso.
"No io... sono Christelle, sua sorella maggiore, è un piacere fare la sua conoscenza."
Risposi allungando una mano verso di lui.
Sorrise, abbassò lo sguardo poi tornò su di me ignorando completamente quel gesto, senza muovere un muscolo.
La mia mano rimase lì, nel vuoto. La ritrassi velocemente e gli feci segno di raggiungermi in cucina.
"Desidera qualcosa?"
"Tante cose! Ma non si può avere tutto dalla vita!"
Rimasi perplessa, dubbiosa e poi mi riscossi.
"Ok... riformulo la domanda... Gradisce qualcosa da bere? Desidera fare colazione? Non saprei..."
"Oh, in quel senso... No, la ringrazio allora."
Si sedette al tavolino in cucina e rimase ad osservarsi intorno con le braccia conserte intorno a quei libri, rigido sulla sedia, ma imperturbabile.
"Per caso è delusa?"
Mi chiese interrompendo il mio filo di pensieri. Sì, ero delusa. Non potevo credere che quell'idiota potesse insegnare qualcosa a Virginia.
"No io... puoi darmi del tu comunque..."
"Le mancherei di rispetto..."
"Certo che no, si figu... figurati!"
Mi corressi un attimo dopo. Lui fece un cenno con il capo e sorrise un'altra volta.
"Vuoi che vado a chiamare Virginia?"
Gli chiesi non sapendo che altro dire a quel personaggio seduto nella mia cucina.
"No, lascia che si prepari con calma. La tua compagnia non è comunque sgradita!"


Largo alle generazioni________________________________________________________________________________

Charlie: "Christelle, per quanto ancora dovrò lavare questo pavimento?"
Christelle: "Fin quando non ti ci potrai specchiare Charlie!!"
Alan: "Qui la polvere non manca di certo..."
Christelle: "Tieni Alan, pulisci anche tu."
Charlie: "Scappa fin che puoi fratello..."
Alan: "Io non faccio la donnicciola... e poi Christelle smettila di agitare convulsamente quello strofinaccio ormai non hai più niente da pulire!"
Christelle: "Silenzio! O userò la tua lurida lingua per lustrare questo posto!" *maniacale*
Alan: "... -.-" che ne dici di una pausa?"
 
 
E' un po' come trarre la scultura di un uomo da un blocco di marmo: non siamo che all'inizio, abbiamo solamente smussato i contorni per ora. Non possiamo parlare di figura, di sagoma, così come non possiamo parlare ancora di storia vera e propria. Christelle tiene strette le redini della famiglia anche contro volontà, anche se le sembra di perdere continuamente la presa, ma sa di non avere alternativa.
La fotografia di una cena priva di sapore, quotidiana e uguale ogni volta in cui al rientro del padre c'è uno sforzo di sentimento per tutti quanti, meno che per colei che fatica più degli altri, per colei che meriterebbe il compenso maggiore.
E cosa succede quando ogni sforzo risulta inutile? Qual è la motivazione per la quale continua ad impegnarsi a mandare avanti qualcosa di cui non le importa più nulla?
Forse la verità è che nemmeno Christelle sa definire se stessa, nemmeno lei sa che avrà bisogno di un certo tipo di aiuto...
Parlare di tutti questi personaggi così in generale, cercare di rendere il clima pesante che essi vivono, non lo trovo affatto semplice e spero per l'appunto di non averci fatto fiasco già dall' inizio.  
Spero dunque che nessuno, o comunque non troppi, cambino idea... proprio ora che è subentrato Raphael...
A presto allora xD
 
Silny 
  
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