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Autore: giraffetta    13/10/2013    2 recensioni
-Ho urlato e urlato e urlato a gran voce che quella che gli altri vedevano, non ero io. Io non ero anoressica, io ero sana.
Ma nessuno mi ha ascoltato. Nessuno mi ha capito.
Ed io ho ceduto.-
Ispirato ad una storia vera. La mia.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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                                                  Diario di una falsa anoressica




                                                                                       
                                                                                            E' meglio essere odiati per ciò che si è che essere amati per ciò che non si è.

                                                                                                                                                                                                  -André Gide-






C’è un momento nella vita in cui le cose ti appaiono chiare come non le avevi mai viste prima.

Una mattina ti svegli e capisci che il mondo  non è diverso, semplicemente sei tu che lo stai guardando con altri occhi, con altre prospettive.

Prima di vedere il mondo cambiato, però, io ho dovuto vedere me stessa con altri occhi e con altre prospettive.

È successo all’improvviso.

Il cambiamento che stavo aspettando si è manifestato con forza tale da lasciarmi senza fiato.

Mi sono guardata allo specchio e l’ho visto. Ho visto i segni della mia battaglia sul mio corpo.

La faccia magra e pallida, le braccia sottili con le venuzze in rilievo, le gambe magre da far schifo, le ossa del bacino sporgenti, la colonna vertebrale in vista.

Mi sono guardata attentamente e mi sono sentita male, mi sono spaventata. Quella non ero io, non ero affatto io. Che diavolo stavo combinando? Che diavolo avevo combinato?

Ho capito così di aver toccato il fondo e adesso volevo solo risalire.

Ma se la strada per la distruzione è facile e veloce, quella per la salvezza è irta e piena di buche. Non potevo credere di tornare normale, di tornare me stessa, nel giro di una notte. Sapevo già che non funzionava così.

Dovevo impegnarmi. Così come avevo creato un piano per annientarmi, così dovevo creare un piano per salvarmi.

Non è stato facile.

Riprendere a mangiare come prima non è avvenuto in modo naturale, spontaneo. Dovevo forzarmi, dovevo ricordare come ero prima che tutto iniziasse.

L’ho fatto a piccoli passi, poco alla volta. Mi sentivo una formica che accumula provviste per l’inverno, giudiziosa e attenta. Ho imparato a rieducarmi al cibo, da sola.

I giorni passavano e io continuavo ad aggiungere cibo e calorie. Mi sentivo rinata.

Quando guardavo indietro vedevo solo buio e oppressione e non capivo come avevo potuto lasciarmi andare così, come avevo potuto arrendermi con estrema facilità e leggerezza.

È stato come risvegliarsi dopo un black out, come riprendere coscienza di se stessi. Ho rivisto la mia vita attraverso una lente di ingrandimento e ho valutato i miei errori con la precisione di un giudice.

Avevo sbagliato, ma mi ero tirata indietro in tempo. Potevo ritenermi fortunata, dopotutto.

Non so cosa sarebbe successo se avessi perso la cognizione di me, se avessi permesso al male di entrare totalmente nella mia testa, di sopprimermi. Forse mi sarei salvata comunque, forse no.

La mia distruzione è durata lo spazio di qualche mese, ma è stata profonda  e violenta. È stato uno tsunami che si è abbattuto su di me senza che l’avessi programmato, come una vera calamità naturale.

Questa volta, più mangiavo più mi sentivo in pace con me stessa. Vedevo il mio corpo reagire, trasformarsi di nuovo in quello che era un tempo, riprendere le sue antiche forme.

Quando sono salita sulla bilancia, solo molto tempo dopo, e ho visto che ero tornata nel mio peso forma, ho pianto. Ho lasciato scivolare fuori tutta la gioia, e il dolore, e la tristezza e ho pianto per minuti interi.

A quel punto sapevo di aver vinto la mia battaglia. Ero tornata me stessa, ero tornata ad essere Lis.

Mi sono perfino riappropriata del mio bozzolo, ma ho lasciato deboli spiragli aperti qua e là. Niente più chiusure estreme. Niente più corazze di cemento. Niente più muri opprimenti.

Ho rivisto le mie amiche, quelle buone, e sono uscita, ho riso. Mi sono ripresa la mia vita, conservando dentro di me la mia sconfitta e la mia vittoria. Quella era stata una sfida con me stessa, e non aveva senso condividerla con chi non aveva visto, con chi non si era accorto di nulla.

Le persone sono troppo concentrate su loro stesse per capire cosa accade loro intorno. Capita anche a me. Anzi, capitava. Perché ho imparato a leggere i segnali, i piccoli indizi che ciascuno di noi lascia nel suo passaggio.

Ho capito che tutti lanciamo segnali, ma pochi riescono a coglierli. E pochi vogliono che vengano colti realmente.

Pensandoci ora, forse io non volevo che qualcuno si accorgesse della mia lotta. Era la mia battaglia e toccava a me risolverla. Era un cambiamento che dovevo affrontare io, da sola.

Ho continuato a stare zitta, lasciando questa mia esperienza in fondo al cuore. Fino ad ora.

Forse è adesso che ho davvero maturato il cambiamento iniziato una manciata di anni fa, perché è adesso che ho sentito il bisogno di scrivere la mia avventura.

Alle amiche, a loro no, non racconterò niente. Forse capiteranno per caso qui, su questa pagina e leggeranno queste righe ma non sapranno che esse mi appartengono. È giusto così, anche se lascio aperto un piccolo foro, una piccola porta nel futuro nel caso decidessi di parlare.

E Leonor?, vi chiederete. Non l’ho più sentita. Ho dimenticato la sua voce, il suo volto, la sua aria da ragazza viziata e le ho dato il posto che merita. L’ho messa tra i morti del mio cimitero personale, tra le ombre del mio passato.

Ho pensato tante volte di rincontrala, per un faccia a faccia chiarificatore. Ma lei non aveva bisogno del mio perdono e io non avevo bisogno delle sue scuse. Siamo a posto così.

Ma, forse una cosa avrei voluta dirgliela: grazie.

Grazie perché con la sua cattiveria e la sua invidia ha fatto di me una persona nuova, una persona che cammina sulle proprie gambe e che si lascia scivolare tutto addosso, senza più accumulare  cicatrici.

Adesso, la mia vita me la gestisco io.

Adesso, la mia anima e il mio corpo li tratto bene.

Adesso, posso uscire come una farfalla dal mio stupendo bozzolo.

Adesso, non ho più paura di volare.
 




                                                                                                                                      

Secondo alcuni autorevoli testi di tecnica di aeronautica, il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare.
                                                                                                                                                                                              -Igor Sikorsky-





NOTE:
Scrivere questa storia mi è servito, tanto. Mi ha permesso di maturare pienamente cosa mi sono lasciata alle spalle, mi ha permesso di chiudere definitivamente col passato, mi ha aiutato a liberarmi.
Se è vero che la carta è più paziente degli uomini, allora devo dire grazie a questi fogli per avermi ascoltato senza interrompermi. E devo dire grazie a voi che avete letto e condiviso con me questa battaglia.
Un grazie infinite.
Giraffetta



 
  
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