2.
Pov Bella
Dopo un’ora e mezza d’aereo, finalmente
stavamo sorvolando i cieli della California. A detta delle hostess mancavano
dieci minuti all’atterraggio nell’aeroporto di Monterey, una cittadina situata
tra Los Angeles e San Francisco e affacciata sull’Oceano Pacifico.
Mi sporsi dal finestrino godendomi il
panorama da quell’altezza e sorrisi quasi senza accorgermene. In 20 anni non
avevo viaggiato molto. Le uniche volte in cui mi ero ritrovata a prendere
l’aereo era stato quando mi ero trasferita a Seattle e poi quelle poche volte
in cui mi ero decisa a tornare a casa, a Portland per rivedere la mia famiglia.
Pur atterrando a Monterey era ovvio che
la destinazione vera e propria di quel viaggio fosse Laguna Seca, uno dei
circuiti automobilistici e motociclistici degli Stati Uniti.
Proprio guardando il paesaggio sotto di
me mi resi conto che il pilota aveva appena iniziato le manovre di atterraggio.
Mezz’ora dopo io e gli altri eravamo
fuori dall’aeroporto alla ricerca di un taxi che ci portasse in hotel. Non ci
mettemmo molto a trovarlo e in pochi minuti ci immergemmo nel traffico della
città e arrivammo in albergo circa dieci minuti dopo.
Io, Jane e Jessica prendemmo una tripla,
mentre i ragazzi dovettero accontentarsi di una quadrupla. Era già pomeriggio
inoltrato quando ci sistemammo nelle nostre stanza e decidemmo di farci la
doccia e uscire subito dopo per andare a mangiare qualcosa da qualche parte.
Mi infilai sotto la doccia prima delle
altre visto che, a differenza delle mie amiche, io ci mettevo molto di più a
prepararmi.
Tre ore dopo tutti fummo pronti e,
approfittando della calda serata dei primi di Luglio, ci incamminammo a piedi
nel più vicino pub.
La serata passò velocemente e nel pieno
del divertimento. Tutti erano raggianti dell’esperienza che avremmo affrontato,
tutti meno che io, ma cercai di non darlo a vedere. E quando a serata inoltrata
tornammo in albergo ci ripromettemmo di metterci subito a letto in modo da
essere pronti la mattina seguente per iniziare il nostro “tour” nel circuito
considerando che il giorno seguente, come tutti i sabato di gara, si svolgevano
le prove libere al mattino e le ufficiali nel pomeriggio e avremmo, quindi
assistito alla FP3 e alla FP4, per poi passare alla Q1 e Q2 che avrebbero
stabilito i posti in classifica per la gara del giorno seguente.
Mi misi a letto di buon grado e non ci
misi molto a riuscire a prendere sonno.
Eravamo,
come sempre accadeva nel fine settimana, in una delle tante piste americane.
Questa volta si trattava di un circuito vicino casa, quindi ero salita anche io
in macchina con i ragazzi per andare a dare il mio appoggio.
Edward
partecipava ai campionati americani di motociclismo e quell’anno era
particolarmente importante per lui in quanto si sarebbe giocato l’ingresso in
una competizione di maggiore successo: il motomondiale e nello specifico la
Moto3.
Se tutto
sarebbe proceduto al meglio, nel giro di qualche anno lui si sarebbe facilmente
ritrovato a gareggiare nella classe regina, il MotoGp. Per farlo, ovviamente,
servivano vittorie e grandi risultati, ma Edward aveva tutte le carte in regola
per raggiungere i suoi obiettivi, ma soprattutto per fare del suo sogno una
realtà.
La gara
odierna, purtroppo, non l’aveva visto salire sul gradino più alto del podio, ma
solo nello scalino appena più basso.. Era arrivato secondo dopo una lotta
all’ultima curva con un altro ragazzo di diciassette anni come lui.
Si era
chiuso nel paddock del suo piccolo team e aveva iniziato ad urlare e buttare
tutto all’aria. Era chiaro come la pressione di quell’anno lo colpisse in modo
particolare e io non sapevo davvero cosa fare. Ero la sua ragazza e Dio solo
sapeva quanto lo amavo, ma quando si trattava di corse, Edward diventava
un’altra persona e io non sapevo mai come gestirlo.
“Si può
sapere che ti prende?” gli domandai entrando lì dentro e costringendolo a
guardarmi negli occhi.
“Niente,
cosa vuoi che mi prenda?” mi rispose lui retorico senza prestarmi nessuna
attenzione.
“Non hai mai
reagito così. È solo una gara, una fottuttissima gara. Non puoi fare così ogni
volta che non arrivi primo”.
“Le cose
cambiano, ma tu che ne sai, eh? Niente, tu non sai un cazzo di niente” mi urlò
arrabbiato.
Era chiaro
che mi stesse usando come valvola si sfogo e potevo pure accettarlo, ma i modi
di fare che stava iniziando ad avere nei miei confronti negli ultimi tempi, beh
quelli proprio non potevo sopportarli.
Mi diede le
spalle pronto ad uscire da lì dentro, ma io non gliene diedi il tempo perché lo
afferrai per il polso bloccandolo e costringendolo nuovamente a guardarmi.
“Il
campionato va storto e allora mi butti fuori dalla tua vita? È così che
funziona?” gli domandai guardandolo intensamente negli occhi.
Avevo
bisogno di risposte e dovevo averle subito.
“Questa è la
mia vita” mi rispose occhi negli occhi “questa” aggiunse urlando e indicando
con lo sguardo il paddock intorno a noi.
“Questa non
è la tua vita” gli risposi urlando quasi quanto lui “è solo il modo in cui
speri, un giorno, di guadagnarti da vivere” continuai abbassando il tono di
voce.
Restammo in
silenzio per qualche attimo mentre lui si sistemavo la tuta da corsa. Dopo
qualche secondo si avvicinò a me e fissandomi intensamente negli occhi prese a
parlare.
“Sta a
sentire. Non voglio continuare a correre per questi campionatini per
dilettanti. Io voglio arrivare più in alto, io voglio diventare un
professionista e per farlo ho bisogno, quest’anno, di vincere questo cazzo di campionato. E sai
che c’è? Che per vincere devo concentrarmi, il che significa che non posso
pensare a noi” mi disse più serio che mai “perciò, che ti stia bene o meno,
adesso la mia vita è solo questo” concluse finendo di allacciarsi la tuta.
Restai in
silenzio per un attimo colpita e del tutto affondata da quelle sue parole. Lui
continuò a guardarmi negli occhi e credo non ebbe grossi problemi a notare che
ero in procinto di piangere e che, con molta probabilità, se non lo avevo
ancora fatto era solo per non dargliela vinta, solo per mostrarmi forte più di
quanto in realtà non fossi.
Con quelle
parole, con quel tono mi aveva completamente sconvolta. Non pensavo saremmo mai
arrivati a quel punto.
“Se è così”
presi a dire prima di fare una nuova pausa impaurita nel continuare “se è così
io che cosa sono? Che cosa diavolo sono io per te, Edward?” conclusi senza
distogliere lo sguardo da lui.
Lui non mi
rispose subito. Abbassò gli occhi per qualche istante come se volesse trovare
le parole adatte, poi, però, riprese a guardarmi.
“Una
distrazione” mi rispose occhi negli occhi prima di allontanarsi da me per
afferrare il casco che aveva appoggiato sulla sedia pochi istanti prima “adesso
scusami, ma...” riprese a dire senza completare la frase, ma indicando
solamente la pista là fuori come a dirmi che il lavoro lo stava chiamando.
Mi lasciò lì
e, senza curarsi di me, delle mie lacrime, della mia disperazione uscì fuori,
salì sulla moto e dopo aver dato gas iniziò a percorrere la stessa pista che
qualche ora prima gli era costata il secondo posto.
Era finita.
Una storia di due anni finita perché, improvvisamente, io ero diventata una
distrazione o, forse, perchè con la mia presenza costante nella sua vita, a
lungo andare, avrei rischiato di tappargli le ali.
Mi svegliai di soprassalto portandomi in posizione seduta sul letto.
L’avevo sognato di nuovo.
Dopo tre anni, quel sogno era tornato a tormentarmi.
Per il primo anno, dopo
la nostra rottura, sognavo quel momento tutte le notte trasformando le mie
dormite in incubi. Poi, con l’andar del tempo avevo preso a fare quel sogno
sempre meno, fino a che non era sparito del tutto, ma eccolo che adesso era
tornato.
Mi resi conto di
essere sudata e non mi stupii più di tanto visto che, nonostante fossero
passati degli anni, quella scena aveva su di me sempre lo stesso effetto.
Quello non era un
sogno, quello era successo davvero…quello era stato il momento in cui i miei
progetti futuri con lui erano crollati, il momento in cui l’amore mi aveva
tradito, il momento in cui lui mi aveva lasciata dando spazio al suo di futuro.
Non potevo fargliene
una colpa se per me il futuro equivaleva a noi insieme, mentre per lui tutto ciò
che il futuro rappresentava era una moto, parecchi circuiti e tanti titoli
mondiali.
La cosa che, a
distanza di anni, mi faceva sorridere era che, almeno, le mie sofferenze non
erano state vane in quanto lui era riuscito davvero a realizzare i suoi sogni.
Quell’anno terminò e
vinse il campionato americano e fu ingaggiato da un team che lo portò dritto al
motomondiale. In sella ad una Moto3 iniziò i suoi primi passi nel mondo dei
grandi, ma terminò il suo primo anno al 10° posto nella classifica mondiale con
83 punti saltando quattro gare a causa di infortuni. L’anno successivo fu
quello della svolta, invece. Cambiò team salendo su una KTM e guadagnò durante
la stagione dodici pole position, dieci vittorie e due terzi posti vincendo il
titolo con 310 punti.
La stagione
successiva segnò il suo passaggio ad una classe superiore, la Moto2 e in sella
ad una Suter del team Repsol si portò a casa il secondo titolo mondiale con una
gara d’anticipo e guadagnandosi un posto su una moto ufficiale del team Yamaha
nella classe regina, la MotoGp.
Quell’anno vista la
giovane età e dovendosi confrontare con piloti di più alta esperienza non partì
favorito, ma dimostrò subito la sua tenacia e il suo talento. Arrivò a podio in
tutte le gare della stagione, meno una che lo vide uscire a quattro giri dalla
fine a causa di una caduta, e già al secondo Gp dell’anno vinse diventando il
pilota più giovane a vincere una gara nella classe regina. Si laureò campione
del mondo con tre gare d’anticipo venendo eletto il miglior rookie dell’anno.
Anche quest’anno era
nuovamente in cima alla classifica iridata dopo aver disputato solo cinque
gare, di cui due lo avevano visto al secondo posto, mentre le altre tre lo
avevano decretato vincitore. Laguna Seca era il sesto Gp dell’anno e io ero lì,
a Monterey, a guardarlo di presenza.
Nonostante avessi
cercato di allontanarmi da lui, ero comunque rimasta dietro la tv a vivere la
sua carriera, la sua ascesa nel mondo che tanto aveva sognato: quello fatto di
moto, paddock, circuiti e corse. Sapevo tutto di quello che aveva fatto negli
ultimi quattro anni e anche non volendo ammetterlo a me stessa sapevo di
essere, forse, la sua più grande fan.
E come non poteva
essere così? Io c’ero quando era salito sulla prima Minimoto quando era un
bambino, c’ero a tutte le corse che aveva fatto prima di passare alle moto
grandi e c’ero quando aveva realizzato che da grande era il pilota il mestiere
che desiderava fare.
Scacciai via quei
pensieri e controllai l’orologio. Erano le sei del mattino così mi alzai andando
a farmi una doccia cercando di non svegliare le ragazze.
Un’ora dopo ero già
pronta e mi sedetti sul letto ad aspettare che le altre si finissero di
sistemare visto che erano state svegliate qualche minuto prima dalla sveglia.
Alle otto in punto
uscimmo dalla camera e raggiungemmo la sala da pranzo al piano inferiore dove
trovammo già i ragazzi. Consumammo la colazione offerta dall’hotel e, nel
frattempo, non potei fare a meno che notare l’euforia di Jake che sprizzava
felicità da tutti i pori.
Mi resi subito conto
che era il momento giusto per dire loro dei pass che Vic mi aveva fatto avere.
“Devo dirvi una cosa”
esordì approfittando di un attimo di silenzio.
“Spara” mi disse Paul
ridendo curioso di sapere cosa avessi da dire.
Presi la borsa e
afferrai la busta che la mia vecchia amica mi aveva spedito per posta qualche
giorno prima.
“Questi sono vostri”
gli dissi appoggiando la busta sul tavolo.
Jake curioso la
afferrò e vide il contenuto fece un sorriso che man mano si allargò sempre di
più.
“Non ci credo” mi
disse guardandomi negli occhi.
“Dovresti crederci,
invece” gli risposi.
“Si può sapere che
diavolo c’è lì dentro?” intervenne Embry curioso afferrando la busta dalle mani
dell’amico.
Jake nel frattempo si
alzò e mi prese in braccio facendomi girare come fossi in una giostra.
“Io ti amo” prese a
dire mentre gli occhi di tutti si puntarono su di noi “ti amo” ripeté
nuovamente.
“Ci stanno guardando
tutti, scemo” gli feci notare.
“E che guardino”
commentò solamente lui.
Stavo per
rispondergli quando sentii Embry, Paul e Alec lanciare un urlo e qualche
istante dopo anche le ragazze fecero lo stesso: era chiaro che avessero capito
cosa c’era dentro la busta.
“Bella tu sei…” provò
a dire Paul “sei…non trovo neppure la parola giusta” continuò “sei
semplicemente una grande” concluse alzandosi e buttandosi addosso a me così
come tutti gli altri.
Quando finalmente ci
decidemmo a darci un contegno prendemmo ognuno le rispettive posizioni al
tavolo.
“Si può sapere come
hai fatto ad averli?” mi chiese Jane sorridendomi.
“Ho un amico a
Portland che conosce un po’ il giro e tramite amici di amici è riuscito a
farmeli avere” mentii spudoratamente.
Nessuno di loro
sapeva di Edward e sicuramente avrebbero continuato a non saperne nulla. Era
meglio così, per tutti.
“Ma li avrai pagati
una fortuna” commentò Jessica.
“Non molto, a dire il
vero” continuai con le bugie “questo amico ha fatto in modo che spendessi
pochissimo” conclusi.
Avevo chiesto a Vic
di non dire a James che quei biglietti servissero a me. Non volevo che lei
mentisse al suo ragazzo, semplicemente non volevo che lui lo sapesse altrimenti
avrebbe finito per correre da Edward e rivelargli tutto visto che quei due un
segreto l’uno con l’altro non sapevano tenerselo.
“Vedremo i piloti, i
paddock, le moto. Cazzo, non ci credo” prese a dire Jack più a se stesso che a
noi.
Lo guardai e scoppiai
a ridere e gli altri mi seguirono a ruota.
“Durano tutto il
week-end” iniziai a spiegare riferendomi appunto ai pass “e fanno parte di un
pacchetto che ha offerto il team Yamaha per questo Gp. In sostanza con questi
possiamo muoverci più o meno dove vogliamo. Possiamo vedere i paddock, la zona
adiacente i box e possiamo avvicinarci ai Tir delle scuderie dove i piloti, i
meccanici e i giornalisti circolano liberamente. E ovviamente sono validi per
incontrare i piloti e fare foto e autografi” spiegai ricordandomi ciò che Vic
mi aveva detto al telefono.
“Cazzo, cazzo, cazzo”
prese a dire Paul “ma che aspettiamo? Andiamo dai” concluse alzandosi dal
tavolo.
Lo seguimmo a ruota e
un quarto d’ora dopo essere entrati in taxi giungemmo la nostra destinazione
ritrovandoci all’ingresso del meraviglioso circuito di Laguna Seca.
Entrammo e osservammo
tutto come fosse la prima volta ed in effetti lo era, era davvero la prima
volta e lo era per tutti.
In passato mi ero ritrovata
ad entrare in qualche circuito dove si correva, ma erano piccoli e decisamente
non maestosi e organizzati come quello che avevamo di fronte.
Grazie ai pass
riuscimmo subito a entrare nel vivo della giornata. Una gentilissima signora
del team Yamaha, il team per il quale avevamo i pass, accompagnò noi e tutti
quelli che possedevano i pass nel bellissimo “Tuck ospitalità” del Team. Era
meraviglioso: climatizzato e con ampi spazi per sedersi dove c’erano Tv che
trasmettevano le immagini dal circuito nonché le tabelle dei tempi. Ci venne
consegnato perfino il programma del week-end: prove libere, prove ufficiali,
warp up e partenza delle gare.
La signorina prima di
allontanarsi ci diede anche le informazioni di base per muoverci all’interno
del paddock senza creare problemi a nessuno.
“Cazzo guardate lì”
disse Paul a noi altri “c’è Scott” continuò.
Guardammo in quella
direzione è Alexis Scott, pilota nel team Honda, si muoveva sopra uno scooter
per spostarsi da un posto all’altro con maggiore agilità e dietro di lui
c’erano anche altri piloti che, da lontano, non riuscimmo ad individuare bene.
“Per quanto mi
riguarda la cosa più bella è il costante rombo dei motori in pista che si sente
in sottofondo” mi lasciai scappare mentre tutti i miei amici si voltarono a
guardarmi sconvolti.
Non avevo mai ammesso
di amare quello sport e fingevo di guardarlo solo per far contenti loro, quindi
le miei parole erano risultare piuttosto strane.
Scrollai le spalle
per la gaffe fatta sperando che non dicessero nulla e, alla fine, mi andò bene
perché mi sorrisero e tornarono tutti a concentrarsi su ciò che ci circondava.
Iniziammo un giro
d’orientamento e ci accorgemmo ben presto che erano tantissime le cose da
vedere, ma la cosa più strabiliante fu quando ci avvicinammo vicino
all’ingresso del box Yamaha. Da lontano vidi da un lato il box del team
satellite e dall’altro lato quello del team ufficiale e proprio in quel momento
i piloti si infilarono i caschi e solo quando ci avvicinammo un po’ di più
ringraziai il fatto che li avessero già messi, almeno non sarei stata costretta
a vederlo in volto.
Nonostante questo era
impossibile non riconoscerlo grazie alla tuta e, comunque fosse, ero certa
l’avrei riconosciuto lo stesso anche in mezzo a centinaia di altre persone.
Era lì, di fronte la
sua moto pronto per cominciare le prove di quella giornata. Parlava
animatamente con alcuni ingegneri, mentre alcuni meccanici erano al lavoro per
gli ultimi ritocchi nelle varie moto. Lui era completamente applicato a parlare
con un foglio in mano con sopra stampato il circuito e cercava di spiegare
all’uomo di fronte a lui qualcosa che, vista la distanza, mi era assolutamente
impossibile comprendere.
“C’è Cullen, oddio”
urlò Jake euforico come lo avevo visto poche volte.
Su una cosa non c’erano
dubbi: il mio ragazzo era un tifoso sfegatato di Edward. L’aveva iniziato a
seguire fin dalla Moto3 e non lo aveva mai abbandonato. Diciamo che negli
ultimi quattro anni Jake era stato sempre dietro a quel pilota esordiente di
cui non conosceva nulla se non la passione per le moto e io, ironia del
destino, mi ero ritrovata quotidianamente a dover parlare dell’unica persona di
cui avrei fatto volentieri a meno di nominare.
“Dio quanto è bello”
commentò Jessica ammaliata.
“Ha una tuta che lo fascia
per intero e un casco in testa” le feci notare quasi infastidita per farle
capire che conciato in quel modo era difficile notare la sua bellezza.
“Lo so” mi rispose
lei “ma quello lì è bello sempre. E poi non vedi come gli dona bene la veste di
pilota?” mi domandò.
Scossi la testa
decidendo di non risponderle, del resto serviva a poco. Per quanto fastidio mi
desse ero ormai abituata agli apprezzamenti che le ragazze in generale facevano
su di lui: in fondo era pur sempre un personaggio pubblico.
“Guarda un po’ che
mostro di moto” mi disse Jake mettendomi un braccio intorno al collo.
Mi scansai
immediatamente senza riuscire a capire perché lo avessi fatto, poi per non
destare troppi sospetti gli sorrisi.
“In effetti è
meravigliosa” commentai.
E lo era, lo era
davvero. Quell’anno, a differenza degli anni passati, avevano deciso di creare
due moto Yamaha ufficiali non perfettamente uguali come succedeva di solito.
Una era rimasta con i colori blu e bianca, come da tradizione, l’altra, invece,
oltre ad avere i colori bianco e blu aveva anche il nero.
La prima era toccata
al secondo pilota, mentre la seconda era di Edward e il numero 23 sul cupolino
ne era la prova.
Era bella, stupenda.
Aggressiva e irruenta come il pilota che la cavalcava. Lui, invece, aveva
sostituito la classica tuta blu e bianca con una blu e gialla e un casco di
vari colori.
Lanciai uno sguardo
dentro il paddock e non mi fu difficile individuare James seduto a parlottare
con due uomini del team e poco distante Vic che tranquillamente beveva del
caffè da un bicchiere. Mi scappò un leggero sorriso nel vederla sempre la
stessa, sempre insieme al ragazzo del quale si era innamorata a quattordici
anni e dal quale non si era più separata.
Anche se l’invidia
non faceva parte del mio carattere, per un attimo un pizzico la provai, ma era
invidia buona, genuina. Era l’invidia di una ragazza che aveva perso l’amore e
che non poteva non farsi stringere il cuore alla vista di un amore che, invece,
era durato nel tempo.
I miei pensieri
vennero interrotti dal suono della sirena, segno quindi che le prove stavano
per iniziare. I meccanici accesero le moto ed i piloti, in fretta, salirono su
di esse e partirono. Edward e qualche altro pilota rimasero fermi ancora
qualche istante a controllare le ultime cose, poi lui salì in moto e partì
abbassandosi la visiera e sollevandosi dalla moto per sistemarsi meglio la
tuta. Qualche istante dopo non lo vidi più.
Io e gli altri
restammo vicino ai paddock ad assistere alle prove libere controllando i tempi
sul giro, stando attenti ai commenti dei tecnici sparsi per tutti i box e
notando con non poca sorpresa come fosse facile raggiungere e superare la
soglia dei 300 km orari.
In poco tempo si fece
l’ora di pranzo e così ci spostammo a mangiare dei panini che avevamo comprato
quella stessa mattina e sistemato dentro gli zaini, poi andammo a visitare le
tribune e alla fine tornammo nel paddock per vivere la tensione delle
qualifiche ufficiali dal box mentre i ragazzi approfittarono di quei momenti
anche per fare delle foto con le ombrelline senza ovviamente far mancare i loro
commenti.
Le qualifiche furono
cariche di adrenalina e segnarono un vero e proprio grande show. Ben quattro
piloti si contesero la pole fino all’ultimo secondo arrivando tutti ad un
decimo l’uno dall’altro, ma alla fine fu proprio Edward ad aggiudicarsi la pole
position di quella gara, la quarta di quella stagione.
Nel pomeriggio, al
termine delle prove, le persone senza i pass cominciarono a lasciare i prati e
gli spalti dell’autodromo, mentre il paddock continuava ancora a vivere tra
piloti, tecnici, staff e ovviamente tutti quelli che, come noi, avevano avuto
la fortuna di avere i pass e quindi di poter restare in mezzo a quella gente.
Ci fecero spostare
presso “l’aerea ospitalità” per l’incontro con i piloti e fu in quel preciso
istante che cominciò a venirmi una fifa incredibile. Si erano mostrati tutti
moto gentili e disponibili nel farci fare foto e autografi, ma la mia paura era
che in mezzo a tutti loro arrivasse lui.
Al momento c’erano
tutti tranne i due piloti ufficiali Yamaha, quindi Edward e il suo compagno di
team, e quando ci avvisarono che anche loro sarebbero arrivati a breve io
compresi che non potevo più restare lì.
“Vado a cercare un
bagno” dissi a Jake.
“Un bagno?” mi
domandò stranito “proprio adesso? Sta arrivano Cullen” mi spiegò “Edward
Cullen, hai presente?” continuò.
“Lo so, ma la mia
vescica non credo sia disposta ad aspettare che lui arrivi. Se me lo perdo oggi
ci sarà comunque la gara di domani” provai a dire.
“Come vuoi” mi rispose
solamente baciandomi a fior di labbra.
“Non pensare che noi
veniamo con te” mi disse Jane.
“Io Edward Cullen non
me lo perdo” continuò Jessica che aveva fatto di lui il suo personale idolo in
tutti i sensi.
“Tranquille, faccio
da me” risposi già sicura che mi avrebbero detto in quel modo.
Sorrisi loro e mi
allontanai senza sapere bene dove andare. Camminai per qualche minuto senza una
meta precisa sperando che il tempo passasse in fretta e che, quando mi
decidessi a tornare, i politi fossero già andati via. Era ridicolo quello che
stavo facendo. Avevo fatto in modo di avere i pass e adesso scappavo per non
vedere quel ragazzo.
La verità era che
avevo una fottuta paura non tanto di ritrovarmelo di fronte, quanto di
specchiare i miei occhi in quegli azzurri che erano i suoi e di accorgermi che
quei quattro anni non erano serviti a nulla perché era ancora lui che mi
portavo dentro.
Senza nemmeno
accorgermene, e forse per ironia del destino, mi ritrovai esattamente davanti
al Tir di Edward. La sua faccia stampata sulle pareti del grande camion e il
numero 23, il suo numero, disegnato praticamente da tutte le parti non lasciava
spazio a fraintendimenti.
Di sicuro lui doveva
essersi già spostato “nell’aria ospitalità”, quindi probabilmente quello che
avevo di fronte era un posto parecchio sicuro. Mi soffermai davanti al Tir e
guardai la foto che lo ritraeva disegnata a caratteri cubitali e, stranamente,
mi scappò un sorriso perché in quell’immagine vedevo esattamente l’Edward di cui
mi ero innamorata anni prima. In quella foto c’era una vitalità senza eguali e
quel sorriso sghembo che mi faceva impazzire. La cosa più bella, comunque, era
vedere quel sorriso riflesso nei suoi occhi e, questo, mi era davvero mancato
di vederlo durante tutte le sue interviste, come se non fosse più capace di
farlo.
Distolsi lo sguardo e
mi voltai per allontanarmi, ma non appena diedi le spalle al camion per tornare
a camminare vidi l’ultima cosa che mi sarei aspettata di vedere.
Edward, con indosso
un paio di jeans e una maglietta del suo team, segno che si fosse già tolto la
tuta, era di fronte a me e mi guardava come se avesse visto un fantasma: era
chiaro che non si aspettava di vedermi.
Lo vidi osservarmi
sconvolto, finchè il suo sguardo si trasformò in un debole sorriso come se
fosse felice di vedermi lì, davanti a lui.
Cazzo, cazzo e cazzo.
Ero nei guai. Che diavolo avrei fatto adesso?
“Bella?” domandò
ancora sorpreso in un sussurro appena udibile.
Avrei tanto voluto
scappare, correre via, ma sapevo di non poterlo fare. Io non ero mai stata una
codarda e mai avrei voluto diventarlo.
“Ciao Edward” riuscii
solamente a dirgli accorgendomi che le parole mi stavano morendo in gola.
Forse, solo quando
sentì me pronunciare quelle parole si rese conto che ero vera e fece per
avvicinarsi a me, ma più lui si avvicinava più io tendevo ad allontanarmi
finchè non mi ritrovai con le spalle al camion accorgendomi che non potevo
scappare, non potevo andare da nessuna parta.
Quanto a lui,
invece…beh, lui si avvicinò sempre di più finchè non me lo ritrovai ad una
spanna dal viso.
Cazzo ero decisamente
in trappola.
Spoiler:
“Tu stai con un altro?”
mi domandò sconvolto.
“Si”.
“Da quanto?”
“Due anni, più o meno”
gli risposi.
Lui cambiò espressione e
una maschera di rabbia gli ricoprì il volto, ma cercò di non darlo a vedere.
“E lo ami?”
“Non credo siano affari
tu”.
“Lo ami?” mi ripetè.
“Edward…” tentai di dire.
“Cazzo” urlò “ti ho
chiesto se lo ami” mi disse ancora una volta sempre con un tono di voce
abbastanza alto.
“Io…” stavo per dire, ma
mi interruppe.
“No” rispose lui al mio
posto “no che non lo ami perché altrimenti non mi avresti baciato, non in quel
modo” mi rivelò sicuro di sé.
“Quello è stato un
errore”.
“Ah si?” mi disse
avvicinandosi nuovamente a me “è stato un errore?” ripetè malizioso usando le
mie parole.
“Devo andare” gli dissi
voltandogli le spalle.
Non mi diede il tempo di
fare un passo che me lo ritrovai con il viso sul mio collo e il suo respiro che
veloce e forte si infrangeva sulla mia pelle.
“Dimmi che lo ami come
hai amato me e ti lascio andare” mi disse.
“Avevamo 17 anni, l’hai
detto tu”.
“E che significa?”
“Che forse credevamo che
fosse vero amore, ma non lo era”.
…Sic58…
Per chi volesse seguirla ho in
corso un’altra storia sempre con protagonisti Edward e Bella. Si intitola “This crazy
love” e la trama è la seguente:
Isabella
Swan è una ragazza di Seattle che conduce una vita normale finchè qualcosa non
irrompe nella sua normalità sconvolgendo ogni cosa. È per questo che, insieme
al fratello, decide di trasferirsi a New York dal padre per iniziare una nuova
vita cercando di buttarsi alle spalle il suo passato. Qui conosce degli amici e
sembra ritrovare un’apparente stabilità.
È nella Grande Mela
che incontra Edward Cullen, un ragazzo difficile dal passato oscuro. Lui è
sexy, miliardario, irresponsabile, ribelle, irrispettoso delle regole e, a
volte, perfino autodistruttivo. Un ragazzo cresciuto tra i motori, le donne e
il sesso e che vive la sua vita in continua lotta con il mondo, sempre
accompagnato dagli amici di una vita.
Bella ed Edward non
potrebbero essere più diversi, eppure sullo scenario di una New York magica e
caotica i due si incontrano, si scontrano e imparano a conoscersi, ma tanti
ostacoli li attendono dietro l’angolo.
Lei lotta con le
questioni irrisolte che ha lasciato a Seattle, mentre lui combatte ogni giorno
con le scelte passate, tra tutte quelle di essersi allontanato inesorabilmente
dalla sua famiglia.
Saranno in grado di
scacciare via i fantasmi passati e aprirsi nuovamente, o per la prima volta,
all’amore?
Vi lascio anche il mio contatto facebook nel caso
qualcuno voglia contattarmi: https://www.facebook.com/sic.efp