Finalmente
eravamo
riusciti ad imbarcarci sull’aereo, che non tardò a
partire. Ancora un paio
d’ore e avrei rivisto il nonno e tutti gli altri. Chissà come stanno, sono due anni che
non li vedo. Ottenuto il
diploma avevo deciso di trasferirmi all’estero per
frequentare l’università e
mio nonno era stato più che felice di sbattermi fuori di
casa. Dopo gli ultimi
avvenimenti ne capii il motivo: la mia città non era
più un luogo sicuro per
me, restando avrei messo in pericolo le persone a me care oltre a me
stessa.
Quando
mi confidai con Ian ero sicura che
avrebbe cercato di dissuadermi dal partire inventando scuse stupide:
non era la
prima volta che lo faceva; invece, sorprendendomi, rispose solo "D'accordo, ma ad
una condizione: io verrò con te –
e, notando la confusione sul
mio viso, spiegò – sei
mia sorella, devo proteggerti perciò dove vai tu vado io!" Lì
per lì ero scoppiata a ridere, ero sicura che stesse
scherzando come suo
solito, ma dopo gli ultimi avvenimenti mi ricredetti.
Ripensando a quel momento mi sorse spontaneo un dubbio: che mi sia stato accanto solo perché costretto dal nonno? Cercai di levare quel pensiero dalla mia testa, ma invano. Così non potei far altro che chiedere al diretto interessato.
“ Ian,
sei sveglio?”
“Sì,
dimmi”
“Vedi…
Volevo chiederti se… Ecco...”
“Entro
oggi magari”
“Mio nonno ti ha costretto a venire con me a Londra?” domandai tutto d’un fiato.
“No, ma che dici?! Mi sono offerto io! Lui voleva mandare quello scemo di Nathan” rispose stizzito il biondo
“Ok, ok! Ho capito, ora però calmati!” dissi sorridendo e tornando a guardare fuori dal finestrino.
Dopo
qualche
minuto chiesi “Cosa
succederà quando arriveremo?”
“Prima
raggiungeremo Sam, poi sarà lui a dirci cosa fare.”
“Mmm… Ok” risposi non molto convinta.
Il resto del viaggio fu piuttosto silenzioso: Ian dormiva tranquillamente, mentre io avevo troppi pensieri per la testa che mi impedivano di prendere sonno. Una volta atterrati all’aeroporto di Linate prendemmo un taxi che ci condusse a casa. Si trattava di un attico con vista su Castello Sforzesco, e che vista…
Arrivati davanti quella vecchia porta bruna mi sentii prendere dall’ansia: era da molto che non vedevo il nonno e dopo queste ultime scoperte avevo paura di tutto ciò che mi aveva nascosto anche se per il mio bene. Rimasi a fissare la porta per un tempo interminabile, finchè Ian non mi strappò di mano le chiavi di casa e la aprì.
Erano passati due anni da quando avevo lasciato quella casa, eppure tutto sembrava essere rimasto uguale. Varcata la soglia e percorso il corridoio si raggiungeva un salone diviso in zona pranzo, sulla destra, e zona lettura, sulla sinistra. Mi soffermai su ogni dettaglio di quello stanzone, dal grande tavolo in noce attorniato da sei sedie in stile classico al divano in pelle color moka, alla poltroncina barocca dove mi rannicchiavo per leggere riscaldata dal caminetto a pochi passi, all’enorme libreria in ciliegio intagliato a mo’ di tempio greco, che traboccava di testi antichi, alla scrivania ottocentesca, intagliata anch’essa, sulla quale il nonno era solito consultare i libri, alla poltrona dietro alla scrivania, a lui, mio nonno. Era molto assorto nella lettura ed evidentemente non ci aveva sentito entrare. Lo osservai molto attentamente, era lo stesso uomo che avevo lasciato due anni fa: i capelli canuti erano sempre pettinati, i baffi erano folti ma molto curati, la camicia, mai stropicciata, si intravedeva da sotto il gilet ed era sempre accompagnata da una cravatta, indossava un abito di tweed perfettamente stirato, con la punta triangolare di un fazzoletto, rigorosamente intonato alla cravatta, che spuntava fuori dal taschino e la catenina del cipollotto che si scorgeva nella tasca del gilet sotto la giacca; era un uomo d’altri tempi, come lui stesso amava definirsi.
Non vedendo alcuna mia reazione, Ian subito gli si avvicinò per salutarlo e informarlo del nostro tranquillo viaggio di ritorno; il vecchio chiuse il libro che aveva in mano, usando l’indice sinistro come segnalibro, ci scrutò per un breve momento di sottecchi, poi, riposizionandosi sul naso gli occhiali da lettura a forma di mezzaluna si congratulò per l’ottimo lavoro, senza mai distogliere i suoi occhi ambrati dai miei.
Ian decise di lasciarci soli e, per rompere il silenzio che si era formato, Sam iniziò a parlare
“Allora, Lee, non vieni ad abbracciare tuo nonno?”
Bastarono quelle poche parole a far emergere la rabbia per tutte le menzogne che mi avevano raccontato, una rabbia che neanche io sapevo di provare.
“Come
hai potuto?” gli urlai contro “Per tutto
questo tempo… Come hai potuto
mentirmi con così tanta facilità?”
“Era per il tuo bene, dovevamo tenerti al sicuro” rispose serio
“Avresti potuto proteggermi anche senza tutte quelle bugie!”
“Non sarebbe stato così semplice. E poi volevo che avessi un’infanzia normale, un’infanzia felice” e mentre tentava di difendersi dalla mia furia sembrò invecchiare di colpo, come se tutti questi anni in cui era rimasto sempre uguale lo avessero raggiunto in quel preciso istante. Il suo sguardo, sempre fermo e deciso, si fece appannato e vacillante, le palpebre tremanti e la sua voce si spezzò nel proferire quell’ultima parola.
“Io… Io mi fidavo di te! Mi hai deluso” e me ne andai in camera mia, sbattendo la porta.
Piansi per una buona decina di minuti, sfogando tutta la frustrazione accumulata in quei giorni, finché non sentii la porta della mia camera aprirsi.
“Vattene!
Voglio restare sola!”
“Ma come… Non ci vediamo da anni e già mi mandi via?!” rispose l’intruso. A quelle parole alzai lo sguardo e incontrai quegli occhi verdi che più mi erano mancati.