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Autore: Shomer    14/10/2013    3 recensioni
Fine anni '80: in un paesino sulla costa della nostra penisola, un gruppo di amici si ritrova a dover percorrere il difficile cammino che porta alla maturità.
C'è chi è innamorato di qualcuno con cui è incapace di stare insieme, chi non ha idea di cosa fare della sua vita, chi da sempre ottimi consigli ma è il primo a non seguirli, chi non è corrisposto, chi ha un peso che finirà per schiacciarlo, chi cambia giro, chi non vuole cambiare mai. Ci sono le serate in macchina, i litigi per la musica da ascoltare, gli amori, le insicurezze, i ricordi, le decisioni che non si vorrebbero prendere e i segreti che in un modo o nell'altro vengono a galla.
C'è qualcosa che se ne va e non torna più. E il momento in cui ci si rende conto che ad alcuni errori non si può rimediare.
Questa storia si è classificata prima al contest "Quadri e Picche: il contest delle sorprese!" indetto da phoenix_esmeralda, Slappy e Gaea.
Prima classificata al contest "Il meglio di me" di Lilith in Capricorn.
[REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Due
E mi hanno fatto domande sulla mia vita interiore, ed in qualcuna delle mie risposte c'era il tuo nome. - Francesco De Gregori
 


Estate 1989


Freddie mi rivolse un sorriso radioso. Mi venne in contro con le braccia allargate e i piccoli riccioli biondi svolazzanti.
Lui era uno di quei personaggi che mia madre mi permetteva di frequentare solo perché insieme a me c’era Janis. I numerosi tatuaggi, il piercing al sopracciglio e il suo modo di vestire eccentrico non l’avevano mai messo in buona luce di fronte ai miei genitori e, considerati gli avvenimenti dell’estate precedente e le parole che mia madre aveva detto a cena la sera prima, probabilmente non l’avrebbero mai fatto.
Incrociare il suo sguardo non fu difficile come incrociare quello di Janis, ma vi scorsi comunque qualcosa di rancoroso, una punta di ostilità e un filo di risentimento che svanirono in un istante. Lo abbracciai con trasporto e ignorai le paure e le paranoie, felice di rivederlo dopo quasi un anno.
Quando l’abbraccio si interruppe, ci sedemmo entrambi sul mio asciugamano sulla spiaggia.
«E’ bello rivederti, Lenticchia» mi disse, sorridendo.
«Dovresti smetterla di chiamarmi Lenticchia, o io potrei cominciare a chiamarti Alfredo…» dissi con un sorrisetto, sapendo benissimo quanto odiasse il suo nome di battesimo. Fece una grossa smorfia e mi diede un colpetto sul braccio.
Sorrisi pensando che il giorno precedente, quando ero arrivata in paese, avevo provato una morsa di inquietudine al pensiero che avrei rivisto gli altri; in quel momento, però, mentre ero seduta con Freddie, mi sentivo rilassata e contenta.
«Oggi è il tuo giorno libero?» gli chiesi.
«Ho solo il pomeriggio libero, stamattina ho lavorato. Il capo è proprio uno sfruttatore, mezza giornata libera alla settimana!» sbuffò.
«Non lamentarti!» dissi. «Hai anche la domenica libera, quando lavoravo da Rob io non avevo neanche quella… avevo solo il lunedì.»
Freddie mi fece una smorfia e si distese per terra, con il sedere appoggiato sull’asciugamano e il busto sulla sabbia. Si portò una sigaretta alla bocca e si passò un braccio dietro la nuca, come se fosse un cuscino. Fece un lungo tiro e buttò lentamente fuori il fumo.
Io stavo a fianco a lui a gambe incrociate e lo osservavo di sottecchi, rendendomi conto che non era cambiato di una virgola in quell’anno di separazione.
Freddie era sempre estremamente rilassato, non si faceva quasi mai prendere dall’ansia o dall’esuberanza; lui era quella persona che riusciva ad infonderti calma e tranquillità solo toccandoti un braccio. Nonostante a primo impatto sembrasse tutto l’opposto, era lui che di solito poneva fine alle serate più burrascose: era lui che aveva diviso Febri e Janis quando si stavano picchiando, che aveva fatto capire a Gaia che prendersela con me non avrebbe risolto i suoi problemi, era stato lui a persuadere mio cugino e Febri a non prendere a sprangate l’auto di quel Carlo con i capelli rossi solo perché aveva osato insinuare che loro due fossero omosessuali. Insomma, era un po’ come se fosse nostra madre. Affiancato da Rob, che era nostro padre.
Nonostante questo suo lato ragionevole e pacifico, però, ne nascondeva uno estremamente irresponsabile e imprevedibile. Beveva e fumava come se non ci fosse un domani, aveva distrutto due macchine perché guidava troppo veloce e nessuno avrebbe mai potuto dimenticare quella volta in cui, un anno prima, si era rotto qualcosa in una mano perché per la rabbia aveva preso a pugni il muro. Guardai le sue nocche e notai che aveva ancora un paio di cicatrici.
«Come sta il vecchio?» chiesi, pensando che una sera di quelle avrei dovuto salutarlo, altrimenti non mi avrebbe più rivolto la parola, considerato il suo alto grado di permalosità.
«E’ sempre più rompicoglioni. Adesso non ci fa più fumare erba nel locale» disse, come se fosse la cosa più assurda del mondo. «Capisco che non la faccia fumare agli altri clienti, ma io e Janis! Siamo suoi amici!»
Risi, immaginando la faccia di Rob mentre proibiva alla gente di fare qualcosa che lui faceva ad ogni ora del giorno e della notte. «Una sera di queste passiamo da lui, che ne dici? Io, tu e Janis.»
«Certo» sorrise. «Gaia e Marco non sanno ancora che sei qui, vero?»
«Janis ha detto di no» risposi, sospirando.
«Gaia non la prenderebbe bene, probabilmente» si tolse gli occhiali da sole e tirò una boccata di fumo, guardandomi con un sorriso incerto. «E a Marco non interesserebbe.»
Mi si strinse lo stomaco. Sapevo perché Gaia non l’avrebbe presa bene, naturalmente; mi incolpava e mi disprezzava ancora per le cose che erano successe l’estate precedente e io non potevo biasimarla per questo. Dopotutto, dentro di me ero convinta che da una parte avesse ragione.
«All’inizio Marco mi telefonava almeno un paio di volte al mese» dissi «Poi ha smesso e ho cominciato a telefonare io, ma lui era sempre più distaccato. Allora ho lasciato perdere.»
«Caspita» commentò Freddie, infatti. «Per me ricevere una tua telefonata era come vincere alla lotteria! Le segnavo anche sul calendario, mi chiamavi ad intervalli regolari di quaranta giorni. Se al quarantesimo giorno non avevi ancora chiamato, allora ti chiamavo io.»
«Lo so» dissi. «Mi dispiace.»
Freddie sorrise. «Non ti preoccupare. Quest’anno è andata un po’ così per tutti.»
«Già.»
«E poi sono stato più fortunato di Janis, immagino» commentò ancora, alzando un sopracciglio e facendo il sorrisetto di uno che la sa lunga.
«Beh, sì» ammisi. «E’ che… con Janis è complicato.»
«Non ne avete ancora parlato?» mi chiese, spegnendo nella sabbia la sua sigaretta e buttandola in una bottiglia vuota che usavamo per le cicche.
«No» dissi. «Pensi che dovremmo parlarne?» chiesi inutilmente.
«Direi di sì. Dopotutto siete cugini.»
«E’ proprio questo il problema.»
Sospirò profondamente e io distolsi lo sguardo, stringendo le labbra. Un giorno o l’altro avremmo dovuto affrontare quel discorso, in cuor mio sapevo che quel momento sarebbe arrivato presto e che non avrei potuto continuare a fuggire come avevo fatto per quei nove mesi che avevo trascorso lontano da casa. 
Avevo paura e quella paura era talmente radicata in me e si era aggrappata così profondamente al mio animo e al mio essere che sarebbe stato impossibile liberarmene.
Non volevo perdere Janis eppure l’avevo allontanato per un anno intero, perché volevo liberarmi dalla dipendenza che provavo nei suoi confronti; non volevo in nessun modo cancellare quello che era successo, ma allo stesso tempo facevo finta di niente, per paura di ciò che sarebbe potuto accadere se l’avessi riportato a galla. Non volevo dimenticare Febri, ma cercavo in tutti i modi di non pensare a lui.

 


Estate 1988


Quella sera dell’estate precedente, Febri non c’era. Nessuno di noi si era chiesto come mai non ci fosse, dato che in quel periodo erano arrivati a casa sua degli amici di famiglia con i figli e in più ci aveva detto che si stava vedendo con una ragazza, ma tempo dopo mi ritrovai a maledirmi e ad odiarmi per non aver capito e per non aver fatto domande, mi ritrovai a disprezzarmi profondamente per non essere stata più attenta e più vigile su quello che era uno dei miei migliori amici.
Era notte inoltrata e la spiaggia era illuminata solo dalle luci del chiosco in pineta; noi eravamo sdraiati sulla sabbia mezzi ubriachi, attorno a noi c’erano bottiglie di birra vuote e Marco e Freddie cantavano a squarciagola una canzone sdolcinata sull’amore che se ne va, una di quelle che piacevano a Febri e che Janis definiva “da omosessuale represso”.
Sdraiata sulla sabbia pensavo che era per i momenti come quello che avevo desiderato tanto non dover crescere mai; volevo rimanere per sempre una ragazza di ventun anni. Non sapevo che da lì a poco la mia esistenza sarebbe stata completamente sconvolta, me ne stavo lì sdraiata a guardare le stelle e a pensare che sì, mi sentivo felice.
«Domani dovremmo andare dalla parrucchiera.»
La voce di Gaia arrivava sottile e lontana alle mie orecchie, come se non fosse sdraiata di fianco a me, ma fosse a trenta metri di distanza. Mi voltai verso di lei distrattamente, sfilando una sigaretta dal pacchetto che avevo appoggiato sulla sabbia e accendendola con fare annoiato. Spostai lo sguardo decisamente poco lucido su di lei. Era bella, bellissima: aveva i capelli nerissimi e corti, come quelli di un maschio, ma con il ciuffo davanti che a volte teneva all’insù; aveva le labbra carnose e scure e il naso dritto da cui brillava un anellino d’argento che le avevamo regalato qualche mese prima. Era alta e slanciata, con la carnagione olivastra, e non c’era ragazzo all’infuori degli amici più intimi che non avesse provato a combinare qualcosa con lei. Gaia non era solita negarsi, si concedeva con molta facilità – cosa che io e i ragazzi incitavamo sempre tra le risate, esultando stupidamente ogni volta che ne aggiungeva un altro alla lista – perché aveva una strana filosofia di vita che metteva il sesso e l’amore al di sopra di tutto e le vedeva come due cose distinte e separate. Tra di noi infatti si vociferava che nonostante si lasciasse trasportare dai piaceri della carne molto frequentemente e con ragazzi diversi, avesse il cuore occupato da qualcuno che non contraccambiava per qualche oscuro motivo. Nessuno diceva chi era, però lo sapevamo tutti, io per prima, perché ero l'unica a cui Gaia l'aveva confessato. Ma anche tutti gli altri sapevano che questo ragazzo era Janis.
«Hai capito? Dobbiamo andare dalla parrucchiera.»
«Ma tu non hai capelli» obiettai.
«No, infatti sei tu che ne hai troppi» rispose lei, sbadigliando. Si girò su un fianco e cominciò a passarsi tra le mani delle grosse ciocche dei miei capelli lunghi fino a metà schiena, disponendoli sulla sabbia come a creare complesse figure geometriche. Io continuai lasciarmi andare in risatine isteriche per un po’.
Janis era sdraiato tra noi e gli altri ragazzi e ogni tanto suggeriva qualche canzone da suonare; per il resto se ne stava lì, con il suo solito sorriso stampato sul viso. Quando ad un certo punto si voltò verso di me e incastonò il suo sguardo con il mio, smisi di ridere. Lui allungò la mano nella mia direzione e io feci lo stesso, sfiorandogli le dita.
«Vieni con me» sussurrò.
Presi la sua mano senza pensarci due volte e mi alzai, lanciando un'occhiata a Gaia che era troppo ubriaca per notarci. Mio cugino cominciò a camminare a piedi nudi sulla sabbia, diretto chissà dove e io lo seguii passivamente, lanciandogli occhiate di tanto in tanto e osservandolo mentre si girava barcollante e sorridente verso di me.
Non ricordo molto di quella sera; ricordo gli aghi di pino che cominciavano a pungermi i piedi scalzi quando Janis mi portò alla pineta, ricordo delle dita che mi scostavano i capelli dal viso e mi sfilavano la sigaretta dalla bocca e ricordo l’unica cosa che avrei dovuto dimenticare.
«Mara» sussurrò Janis, mentre buttava la mia sigaretta per terra e faceva scivolare un dito sul mio collo.
«Dimmi» dissi, tenendo ancora stretta la sua mano nella mia. 
La mia mente annebbiata mi impediva di rendermi conto appieno della situazione in cui mi trovavo: ero sola con mio cugino in una pineta, scalza, e per di più sentivo brividi che mi percorrevano la schiena ogni qualvolta i nostri sguardi si incrociavano. 
Janis si avvicinò al mio viso, lasciando solo qualche centimetro a separare i nostri nasi e il pensiero che mi attraversò la mente lo ricordo perfettamente: desiderai che mi baciasse.
«E’ troppo difficile» mi soffiò nell’orecchio, mentre faceva scivolare la mano sulla mia schiena, avvolgendola con il braccio. Cominciai a respirare un po’ affannosamente, rendendomi conto che probabilmente uno dei miei desideri più segreti e malsani si stava per avverare e non avendo nessuna voglia né forza di reagire. Se fossi stata sobria probabilmente avrei avuto abbastanza buonsenso da non salire su in pineta da sola con Janis.
«Che cosa?» 
«Starti lontano.»
Voltai la testa di lato, avendo per un momento paura che Janis potesse allontanarsi per cercare un contatto visivo. Non lo fece.
«Di cosa stai parlando?» chiesi, stupidamente.
«Hai capito.»
«E che cosa vuoi fare?»
La mia voce era bassa e sottile come un filo e il mostro che abitava dentro di me, il mostro che aveva le fattezze di Janis, cominciava a stringermi le viscere e a pesare sul mio stomaco. Il respiro lento e caldo di mio cugino mi stuzzicava la pelle e mi teneva ancorata al terreno, seppur minimamente. Dentro di me avevo solo una vaga idea di quello che stava succedendo e per una volta nella mia vita non mi importava delle conseguenze.
«Lo sai» insinuò le dita tra i miei capelli e fece una leggera pressione alla base della nuca, avvicinandomi a lui di qualche centimetro.
«Allora fallo.»
Mi resi conto di quello che avevo detto solo quando, probabilmente mille anni dopo, Janis staccò la sua mano dalla mia e smise di abbracciarmi. Anche in quel momento, anche quando ero stata io a dare a mio cugino il permesso, avevo paura di guardarlo negli occhi, perché pensavo che se l’avessi fatto allora sarebbe stato tutto vero. 
Io non ero come Janis: io non l’avrei mai portato in un posto appartato per dirgli che non riuscivo più a far finta di nulla. Io avrei portato quel segreto con me nella tomba e avrei continuato a vergognarmene giorno dopo giorno, come ormai facevo da anni. Avrei continuato a fare in modo che nessuno si accorgesse di niente e a fare finta che neanche Janis se ne fosse accorto, avrei visto altri ragazzi di tanto in tanto e prima o poi avrei dimenticato quella cosa strana che sentivo per mio cugino. L’avrei fatto e ci sarei riuscita.
Ma Janis non era come me e io dovevo saperlo: lui non avrebbe mai permesso che una cosa del genere andasse dimenticata, lui avrebbe provato a trattenersi esattamente come me, ma mentre io avrei continuato a farcela, stringendo i denti tormentandomi perennemente, lui prima o poi avrebbe ceduto. E quando avrebbe ceduto lui l’avrei fatto anche io, perché solo così poteva essere. 
Io dovevo saperlo. E dovevo sapere anche che Janis non mi avrebbe mai permesso di non esserne consapevole, per questo mi posò entrambe le mani sul volto e mi costrinse a guardarlo. Fu in quel momento, fu quando incontrai gli occhi di mio cugino che mi resi conto per la prima volta che avevo accettato di macchiarmi di qualcosa di indelebile, qualcosa che mi avrebbe tormentato per tutta la vita e che non avrei mai potuto dimenticare. Una voce nella mia testa, lontana anni luce, mi gridava di non farlo, perché sarebbe finita male, ma io non l’ascoltai. 
Quando Janis appoggiò delicatamente le sue labbra sulle mie non opposi resistenza, al contrario mi alzai in punta di piedi e mi aggrappai con forza alla sua maglietta, noncurante degli aghi di pino che mi pungevano i piedi e del tronco d’albero a cui ero appoggiata che mi graffiava la schiena a tratti nuda. Janis volle approfondire il bacio e io lo lasciai fare, totalmente incapace di oppormi anche se l’avessi voluto; fece scorrere le mani dalle mie spalle ai fianchi, alzandomi, e io mi aggrappai con le gambe alla sua vita, stringendolo forte anche con le braccia per non cadere.
Non so per quanto tempo rimanemmo così, appoggiati su un tronco di pino a baciarci, non lo ricordo. Dentro di me le immagini si susseguono come se fossero infinite, e ogni volta che mi tornano alla mente reagisco con un tuffo al cuore e una morsa allo stomaco.
Non sono mai riuscita a perdonarmi e penso che neanche Janis mi abbia mai perdonata.

   
 
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