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Autore: char18    16/10/2013    1 recensioni
Questa non è la classica storia che ha come protagonista una ragazza piena di valori che affronta la sua vita all'insegna della moralità e della sobrietà. Questa è la storia di Nicole Leinghton, una 25enne piena di vizi e cattive abitudini. La sua vita è il risultato di un'interminabile lista di errori che l'hanno cambiata in maniera irreversibile e che l'hanno fatta diventare una persona cinica e menefreghista. Dopo aver toccato il fondo tra cliniche di disintossicazione e relazioni clandestine con suo cognato, Nicole capisce che è arrivato il momento di cambiare vita.
Londra fa da sfondo perfetto ad una storia fatta di famiglie sgretolate, storie segrete, scelte discutibili, tradimenti e, perchè no, anche un po' di emozioni.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2
 

Londra, 27 settembre 2011

La sveglia suona come tutte le mattine alle sette in punto ed io, come da routine, la faccio tacere con un colpo poco aggraziato. Mi strofino gli
occhi che bruciano a causa delle poche ore di riposo e sbadiglio sonoramente.

Sono le sette in punto e sta per iniziare una lunga giornata perfettamente identica a tutte le altre: colazione veloce, venti minuti di camminata per arrivare al negozio, pranzo al sacco, chiusura dell’attività, rientro a casa giusto per l’ora di cena e poi a letto non prima di mezzanotte. La mia quotidianità è quasi sempre sviluppata in questo modo.

A volte penso che avere già una vita così monotona a venticinque anni è piuttosto deprimente, che dovrei provare a fare qualcosa di nuovo di tanto in tanto - che so, qualche corso di ballo, qualche lezione di cucina, imparare a suonare uno strumento, riprendere le lezioni di italiano – ma poi capisco che invece l’unica cosa che mi permette di avere una stabilità è proprio questo: la noiosa routine. Del resto, l’ultima volta che ho vissuto una vita all’insegna della sregolatezza ho fatto una brutta fine.

Nonostante la monotonia, l’aver tagliato definitivamente ogni ponte con la vita che mi sono lasciata alle spalle, la terapia e i sette anni di astinenza da ogni tipo di droga, non ho ancora imparato dai miei errori e, soprattutto, non ho ancora imparato a non farne più: le scappatelle con Pierre, qualche sbornia di troppo, la totale incuranza per la mia salute, lo sperpero di soldi in vestiario, estetista e vino italiano, le troppe sigarette e una sfilza interminabile di storie finite male. L’ultimo errore da aggiungere alla lista, poi, è proprio di fianco a me.

Sospiro e mi volto su un fianco.

«Jack» dico scuotendo da una spalla l’uomo addormentato dall’altra parte del mio letto matrimoniale «svegliati. Sto facendo tardi e tra poco devo uscire.»

Lui mugola, allunga i muscoli delle braccia e si volta verso di me. Mh, ieri sera dopo i tre drink che mi ha offerto sembrava molto più bello e affascinante, adesso, in piena capacità di giudizio, non è niente di che. Il naso è un po’ più abbondante di quanto mi ricordassi, i suoi capelli ricci sono arruffati e la sua mascella è piuttosto squadrata. Troppo squadrata.

«Buongiorno.» mi fa esibendo un sorriso radioso nonostante la stanchezza.

«Buongiorno.» ribatto frettolosa, averlo nel mio letto mi infastidisce. «Hai sentito quello che ti ho detto? Devi rivestirti.»

«Non possiamo rimanere insieme altri cinque minuti?» domanda allungando le mani verso di me.

Per schivarlo mi sporgo dal materasso e raccolgo la camicia che è stata abbandonata a terra. La appallottolo e gliela lancio addosso.

«No Romeo, è proprio ora di andare.»

Il ragazzo fa finta di lamentarsi e affonda la faccia nel cuscino, ma poi, proprio mentre sto per invitarlo nuovamente a smammare, con uno scatto felino scende dal letto e va alla ricerca dei suoi vestiti.

Ho incontrato Jack all’inaugurazione di un ristorante proprio di fronte al mio negozio. L’alcool scorreva a fiumi e io non mi sono fatta pregare troppo per entrare nel vivo della serata. Da alticcia si vede tutto sotto un altro punto di vista e farmi accompagnare a casa da un affascinante contabile non mi sembrava una brutta idea. Adesso mi rendo conto che è stata una scelta discutibile. Non c’è niente da fare: la routine è l’unica ancora di salvezza che in qualche modo mi tiene alla larga dalle decisioni sbagliate.

Non che non mi sia divertita stanotte – anzi, tutt’altro – ma il Jack, Mark, Carl o Jerry di turno non fanno altro che lasciarmi addosso una strana sensazione di disagio. Tutta l’eccitazione che la notte porta scompare come per magia con l’arrivo del mattino.

La cosa che più di tutte mi fa incazzare è che, purtroppo, tutte le volte continuo a ricascarci: tutte le volte li faccio salire a casa e tutte le volte li faccio rimanere. Quando poi se ne vanno, io rimango a fissare il soffitto e mi domando che cosa ho fatto di male nella vita per sentirmi così… vuota.

«Posso richiamarti?» mi chiede il ragazzo mentre si abbottona il colletto della camicia azzurra «Mi piacerebbe molto portarti a cena una di queste sere.»

Sorrido e cerco a tastoni il pacchetto di Camel sul comodino. Ne prendo una tra le labbra, l’accendo e aspiro con gusto il sapore familiare del tabacco.

«Jack, Jack, Jack…» sospiro facendo uscire una nuvola di fumo «E poi saremmo noi quelle che cercano sempre un legame emotivo?»

«Non ci trovo nulla di emotivo in una cena.» risponde lui evidentemente divertito.

«Stanotte è stato bello, ci siamo divertiti e tu sei stato fantastico quindi… non roviniamo il momento. Io credo che sarebbe meglio conservare il ricordo di questa notte.»

Jack ride. «È questa la frase che dici a tutti? Te la sei studiata apposta per tirarti fuori da queste situazioni imbarazzanti?»

Nonostante mi abbia dato praticamente della poco di buono, il modo in cui l’ha detto mi fa sorridere.

«Diciamo di sì.» ammetto «Cambia di situazione in situazione, ma sostanzialmente è questa.»

«Beh, dovresti studiarne una nuova, questa fa un po’ schifo.»

«Grazie per il consiglio.»

Jack recupera la cravatta dall’angolo del letto e se l’appoggia intorno al collo come se fosse un asciugamano. «Posso almeno chiederti di aiutarmi a fare il nodo alla cravatta?»

Mi stringo bene il lenzuolo attorno al mio corpo nudo e gattono verso di lui. Tendo la sigaretta in equilibrio tra le labbra, afferro la cravatta da entrambi i lati e inizio ad annodargliela. Adesso che siamo vicini posso sentire il suo odore, sa di profumo costoso.

«Sai, ieri notte appena ti ho visto ho pensato che eri bellissima.» mi dice sorridendomi beffardo «Te ne stavi lì seduta con addosso il tuo vestito rosso a sorseggiare un drink e ho pensato che se non te ne avessi offerto uno sarei stato un vero cretino. Poi quando siamo venuti a casa tua e ti ho visto senza vestito… mi sono ricreduto. Non eri bellissima, eri meravigliosa.»

Sorrido a mia volta e alzo le sopracciglia. «È questa la frase che dici a tutte? Te la sei studiata apposta per far cambiare idea a chi non vuole lasciarti il numero?»

Jack si mette a ridere di gusto. Mi trattengo dall’arricciare il naso: la sua risata è odiosa.

«Diciamo di sì. Cambia di situazione in situazione, ma sostanzialmente è questa.»

«Beh, dovresti studiarne una nuova, questa fa un po’ schifo.»

«Quindi non mi lascerai il tuo numero?»

«Credo proprio di no.»

Stringo il nodo della cravatta, gli sistemo il colletto della camicia e sospiro soddisfatta. indietreggio fino alla spalliera e continuo a guardarlo mentre si riveste.

«Le scarpe credo che siano in salone.» dico prendendo un altro tiro di sigaretta.

Jack sorride e si avvicina a me mentre stringe la cintura dei pantaloni. «Allora… ci salutiamo così?»

Alzo le spalle. «Direi di sì.»

«Va bene.»

Si sporge verso di me e, nonostante un attimo d’esitazione, accetto di dargli un bacio. prima che lui ci infili la lingua, mi stacco e sorrido in modo eloquente. Il ragazzo ride, prende la sua giacca da terra e si avvia verso la porta.

«Comunque» dice voltandosi un’ultima volta «il mio nome è John.»
 
 
 

Mezz’ora più tardi osservo di sfuggita la mia immagine dal grande specchio appeso nell’androne del mio condominio. Il trench beige abbinato alla sciarpa bianca fanno risaltare i miei capelli neri lisci come la seta. Gli occhi scuri sono nascosti dietro un paio d’occhiali di Gucci. I tacchi delle mie Louboutin risuonano sul pavimento lucido di marmo. La ragazza che a stento riconosco essere io sembra appena uscita dalla copertina di Vogue.

“Un guscio impeccabile. Il problema è che dentro sta morendo, si sta consumando poco a poco.”

Faccio uscire la voce del mio psicanalista dalla testa e riprendo a camminare. Esco dal portone e mi accorgo che il cielo londinese oggi è stranamente limpido. Essendo abituata a questo tempo so che purtroppo non durerà molto.
In questa settimana le parole del Dottor Barnes mi hanno assillato in ogni singolo istante, da quando aprivo gli occhi la mattina a quando li richiudevo la sera. Non riesco a pensare ad altro e nemmeno una notte di sesso sfrenato è riuscita a darmi pace.

“Ha mai pensato al fatto che, forse, lei si odia a tal punto da continuare a mettersi in situazioni sbagliate e pericolose?”

Sì, ci ho pensato spesso e mi sono sempre sforzata di credere che non fosse così, che ero semplicemente sfortunata o troppo debole e incline all’autodistruzione. Ma dentro di me sapevo qual’era la risposta: io odiavo me stessa. Io odio me stessa. Non c’è una ragione in particolare, lo faccio e basta.

Tutto è partito dal 1999, l’anno in cui morì mia madre. Io avevo solo dodici anni e da quel fatidico 15 luglio è iniziata la discesa che mi ha portato dritta alla clinica di disintossicazione.

Maria Abate era una splendida donna, sposata con il proprietario di un ufficio contabile ben avviato e madre di due splendide bambine.

Maria nacque in Italia – in Sicilia per la precisione – e si trasferì in Inghilterra quando era molto piccola. Conobbe Robert Leinghton a ventuno anni, a ventidue diventò sua moglie e a ventiquattro gli regalò una figlia. Per crearsi una vita con l’uomo che amava, Maria andò contro i suoi genitori estremamente conservatori e decise anche di abbandonare i suoi studi universitari per dedicarsi del tutto alla sua nuova famiglia.

Dopo tre anni la coppia diede alla luce un’altra bambina e niente poteva andare meglio: l’ufficio di Robert stava pian piano allargando il giro di clienti, Claire ed io eravamo sane e piene di vita e Maria pensava ad accudirci e a dirigere la vita domestica.

Dieci più tardi, i Leinghton erano una delle famiglie di riferimento del prestigioso quartiere di Primrose Hill, il nostro giardino era pieno di ragazzini che giocavano felici dall’ora di pranzo fino al tramonto e mia madre ogni tanto faceva capolino con vassoi di pane e marmellata.

Tuttavia, il lavoro di Robert lo portava via da casa sempre di più e di conseguenza il tempo a disposizione per stare insieme era poco. Maria soffriva molto di questa cosa e, anche se non lo dava a vedere alle sue figlie, la sera non era difficile sentirli litigare dal piano di sotto.

L’apice delle loro discussioni avvenne una notte d’inverno quando avevo la febbre molto alta e, approfittando delle attenzioni di mia madre, iniziai a fare i capricci. Quel giorno era una delle poche occasioni in cui mio padre era riuscito a liberarsi dal lavoro per passare la serata insieme. Decidemmo di mangiare take-away cinese sul divano e di vedere un film. Era quasi ora di cena e io iniziai a litigare con Claire perché volevo vedere a tutti i costi Jurassic Park, mentre lei preferiva Notthing Hill, da poco uscito nelle sale. Ovviamente lei aveva quindici anni e non voleva vedere film di fantascienza considerati “da bambini”. Anche Robert cercò di convincermi a optare per il film scelto da mia sorella, visto che avevamo la cassetta HDV a casa e non dovevamo uscire per andarlo a prendere. Io non sentivo ragioni. Alla fine l’ebbi vinta io e mia madre uscì per andare a noleggiarlo. Era quasi l’ora di cena e doveva sbrigarsi visto che la videoteca stava per chiudere.

Due ore dopo non era ancora tornata a casa. In realtà, Maria non tornò più.
 
Esco su Lancaster Gate e, ticchettando sulle Louboutin di vernice color nocciola, mi avvio verso Bayswater Road. Costeggio tutto l’Hyde Park evitando di tanto in tanto le decine di persone che fanno jogging e che di solito affollano il parco a quest’ora. Quando arrivo a Marble Arch imbocco Oxford Street e, alla prima traversa a sinistra, svolto per Portman Street. Rovisto nella borsa e vado alla ricerca delle chiavi del negozio.

«Ciao Nicole.»

Alzo la testa che ho quasi infilato dentro la mia Dolce & Gabbana e sorrido cordialmente ad Amir, il proprietario di un negozietto alla fine della strada che ormai da tanti anni è la fermata fissa che faccio prima di tornare a casa.

Arrivo sotto ad una grande insegna color argento su cui spicca la scritta Black Diamond -Diamante Nero. È questo il nome che ho scelto di dare alla mia attività quando l’ho aperta nel 2006. Mi sembra una vita fa, eppure sono passati solamente sei anni.

Infilo la chiave nella serranda elettrica e sento il familiare rumore meccanico che fa girare gli ingranaggi. Mentre aspetto di entrare in negozio sbadiglio rumorosamente e per un attimo chiudo gli occhi. Fare le ore piccole insieme a John, Jack o come diavolo si chiamava non è stata una bella idea.

Quando la serranda è alzata del tutto apro anche il portone e tasto il muro alla ricerca dell’interruttore della corrente. Quando l’ambiente viene illuminato a giorno e i colori dei miei completini intimi mi risaltano agli occhi sospiro e mi preparo ad affrontare una lunga giornata.
  
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