He
~
(Chapter
one )
Quella
mattina era riuscita a precedere persino la sveglia.
Avril,
alle sei, se ne stava seduta a gambe incrociate sul letto.
Dalla
cucina poteva avvertire solo dei passi poco felpati che si affrettavano
a fare
qualcosa di indefinito.
Sua
madre era già in piedi, ma non c’era da
sorprendersene. Oltre ad essere una
mattiniera, aveva la mania – o, come la chiamava la figlia,
smania – di far
brillare a specchio tutta la casa.
Infatti,
se non ci pensava la sveglia a buttarla giù, spesso e
volentieri era merito
suo. Ok, possiamo dire sempre.
Ma,
quella mattina, non era merito ne dell’una e ne
dell’altra.
In
quella ventilata mattina di fine settembre, si era svegliata di sua
spontanea
volontà.
Aveva
avuto l’ardente desiderio di osservare con attenzione le luci
dell’alba. Suo
padre diceva che infondessero felicità e molta voglia di
vivere.
Ma
da dove diavolo l’aveva sentito?!
Da
troppo tempo, non c’era niente e nessuno che potesse
trasmettere un poco di
buon umore.
In
quanto alla voglia di vivere … beh, aveva tentato
più volte di farla finita in
tantissimi modi. Per mancanza di coraggio, però, non aveva
mai portato a
termine il suo intento.
Avril
preferiva di gran lunga il tramonto. Misterioso e oscuro, un
po’ come lei.
Amava
vedere quei raggi di sole – a volte soffocati dalle nuvole -
scomparire tra le
verdi colline del suo piccolo paesino sperduto.
Aiutata
dalla spinta delle braccia, scattò in piedi e si diresse
verso la finestra.
Scostò
di più i tendaggi bianchi per osservare meglio e
poggiò i gomiti sul davanzale.
Doveva
ammettere che amava come le prime luci del giorno giocassero,
dipingendo il
cielo di accecanti colori, mentre il sole faceva capolino.
Il
suo sguardo si posò inevitabilmente verso il basso.
Le
strade erano desertiche, forse per l’ora o forse
perché Napanee popolata non
era mai stata. E mai lo sarà.
La
cosa positiva era che, abitando in una piccola città, tutti
si conoscevano e si
volevano bene, come in una famiglia – molto allargata. Tutti
tranne lei, però.
Poco
più lontano, scorse una panchina sulla quale dormiva un
barbone.
Accennò
un piccolo sorriso nostalgico.
Ricordò
i giorni in cui era piccola e giocava per quei viali alberati, mentre
dagli
alberi cadeva qualche foglia.
Su
quella panchina, invece, ci si sedeva ogni volta che qualcosa non
andava. Lo
faceva anche ora che era cresciuta. Ma c’era solo una sottile
differenza.
Da
bambina aveva qualcuno che la consolava, adesso no.
Ogni
volta le si avvicinava un biondino e le si sedeva accanto. Sapeva come
farla
star meglio, anche con un semplice abbraccio. Quel bambino era suo
fratello
Matt.
Lavorava
come chef in Italia, a migliaia di chilometri da lei. Lo poteva vedere
solo
nelle festività, quando tornava a casa.
Non
era mai andata a trovarlo. La sua era una famiglia che non viveva nelle
migliori condizioni e non si poteva permettere un viaggio
così costoso. Si era
dovuto pagare tutti gli studi da solo, svolgendo ogni tipo di lavoro,
ma ne era
valsa la pena.
Aiutava
i suoi familiari a vivere meglio, mandando dei soldi ogni mese e
pagando tutte
le bollette al posto loro. Lo stimava per questo. Se non ci fossero
stati lui e
suo padre a mantenerli non voleva nemmeno immaginare cosa sarebbe
potuto
accadere. Non voleva farlo, già stava male di suo.
A
volte aveva la possibilità di chiamarlo ma ad ore assurde,
per via del fuso
orario. Quella stupida cornetta, però, la separava
tantissimo da lui. Lo voleva
con sé, voleva parlargli, dirgli quanto le mancava.
Delle
lacrime calde iniziarono a scenderle lungo il viso.
L’entrata
inaspettata di una persona la fece voltare di scatto. Era sua madre
– con
un’armata di aspirapolvere e scope.
Rimase
paralizzata per un po’, con gli occhi appena umidi e ancora
lucidi. Si affrettò
ad asciugarli.
-Avril
scusami, non pensavo fossi già sveglia. Ti ho disturbata?-
sussurrò appena,
facendo attenzione a non svegliare gli altri.
La
ragazza scosse la testa, come per dire “non ti
preoccupare.”
Allora
afferrò l’aspirapolvere – uno dei
molteplici – e attaccò la spina. Ancora si
chiedeva dove li trovava i soldi per comprare ogni dannatissimo
“utensile per
pulire e non solo” di ogni insignificante marca.
Il
rumore assordante le ronzò nelle orecchie in un modo
talmente acuto e
dannatamente fastidioso che fu costretta a tapparsele. Odiava quel
maledettissimo ed inutile … ehm, coso!
Tutti
i tentativi di non far svegliare il resto della famiglia erano
ufficialmente
andati a farsi fottere, come ogni santissima mattina.
Infatti,
poco dopo, si materializzò – quasi dal nulla
– sua sorella Michelle.
Si
stropicciò un occhio mentre continuava a sbadigliare
ripetutamente, a ritmi
irregolari.
-Cosa
succede? Cos’è tutto questo rumore alle
… -, si interruppe e lanciò un’occhiata
all’orologio a muro. –Sei e un quarto di mattina?-
Avril
scosse la testa. Sua madre era sempre la solita.
-Non
preoccuparti tesoro, torna a dormire.-
Aprì
la bocca, ma fu preceduta.
-Lo
so, non vuoi essere chiamata tesoro perché sei grande.
Michelle
era tredicenne già da un po’, anche se tutti la
trattavano ancora come se fosse
una bambina. E, in fondo, ci somigliava vagamente.
In
piena età di sviluppo, riusciva a conservare quei preziosi
lineamenti infantili.
Forse era quello il motivo o, almeno, lo era per quasi tutti. Lei,
invece,
faceva finta di considerarla ancora tale semplicemente per farla
irritare un
po’.
Diciamo
che era la pecora nera della famiglia. Pareri differenti, aspetto
fisico
stravolto ma soprattutto stato d’animo opposto.
Anche
se non si trovavano esattamente nella migliore situazione economica,
riuscivano
ugualmente ad essere felici e gioiosi. Lei no.
Lei
soffriva ogni giorno e piangeva lacrime amare. Odiata e disprezzata da
tutti,
paragonabile al peggio più assoluto, insultata come non mai.
Era l’esempio da
non seguire in tutto il liceo, forse persino in tutta la
città.
Si
ritrovò nuovamente da sola in quella camera che, a volte, le
sembrava fin
troppo immensa. Si sedette a terra, con le ginocchia contro il petto e
si
rabbuiò.
Davanti
alla sua famiglia e ai compagni di classe era costretta a sorrisini
forzati e
ad ironia spudorata, nella sua stanza – magari con le
tapparelle abbassate,
giusto per dare un tocco di inquietudine – smetteva di fare
l’ipocrita e si
sfogava.
Darei
oro per tornare a sorridere,
come quando ero bambina. Darei oro per non essere più
trascurata. Darei oro per
avere almeno una persona che mi capisca e della quale possa fidarmi
…
***
La
campana suonò l’intervallo e tutti si affrettarono
ad uscire. Avril, invece,
era ancora lì, seduta al suo banco.
Si
era imbarcata alla ricerca disperata di un qualcosa su cui scrivere.
Quella
mattina si era svegliata con una strana ed irrefrenabile voglia di
comporre;
vedere Napanee desertica – non che fosse una
novità – l’aveva ispirata.
Sì,
era una scrittrice in erba ma non di romanzi, bensì di
canzoni.
Amava
cantare, la sua unica e vera passione. Aveva una voce pazzesca, fuori
dall’ordinario. Era un vero talento, dicevano.
Secondo
suo padre, doveva approfittare di quel dono che pochi potevano
permettersi di
possedere. Lei ci aveva provato ma non si era mai esibita davanti ad un
vero
pubblico – solo una volta, davanti ai suoi peluche e ai suoi
fratelli -, la sua
insicurezza la bloccava.
E
se non ne fossi capace? Non sono
poi così brava.
Solo
chi l’aveva sentita, almeno una volta nella vita, poteva
affermare senza ombra
di dubbio il contrario.
Riuscì
finalmente a trovare l’occorrente, all’interno
della sua borsa e si avviò verso
il cortile sul retro.
Era
sicuramente uno dei luoghi più tranquilli di tutta la
scuola, poco affollato
anche durante la ricreazione e la pausa pranzo.
Era
uno dei suoi posti preferiti ma, soprattutto, adorava la panchina
situata sotto
il salice piangente.
Quell’albero
era in assoluto il suo preferito, per via delle sua strane fronde
all’ingiù.
Fornivano un’ottima protezione dal resto del mondo, e questo
le piaceva.
Si
sedette sulla panchina in legno e poggiò la penna sul foglio.
Di
solito non scriveva canzoni vere e proprie, bensì partiva da
alcuni, come li
chiamava lei, “pensieri perversi.” Descriveva,
cioè, ciò che provava e lo
riportava poi sotto forma di testo.
L’inchiostro
nero si estendeva per tutto il foglio, prendendo via via sempre
più forma.
Parole
lungo quelle righe. Parole che ti emozionano ma che ti fanno anche
riflettere.
Parole dure, per far intendere a tutti com’è la
vita. Parole incise, di quelle
che ti colpiscono dritte al cuore, senza troppi raggiri.
Non
sapeva perché continuava a scrivere, se a nessuno faceva
ascoltare tutto ciò.
Forse lo faceva per sfogo personale, ma non era nemmeno lei del tutto
sicura di
questo.
Ma
continuava, continuava senza mai fermarsi. Passava ore ed ore a
comporre quelle
frasi, non faceva altro. Se non piangeva, infatti, scaricava tutto su
un
blocchetto. E aveva proprio bisogno di farlo, sempre.
Fiochi
raggi di sole si infiltravano tra quelle foglie e le illuminano appena
la pelle
pallida. Ma, ad un certo punto, si accorse che la luce era stata
offuscata.
Deglutì
più volte, continuando a tenere lo sguardo fisso a terra.
Sapeva di chi si
trattava.
Non
guardare, potrebbe ferirti. Ti
prego non farlo!
Alzò
la testa. Sì, erano proprio loro.
Il
suo sguardo rimase impassibile. Voleva sembrare naturale, far capire
che lei
non aveva paura. E infatti non ne aveva, ma continuava ugualmente a
soffrire.
I
suoi due “persecutori” erano due ragazzi
dell’ultimo anno: Jake e Thomas.
Jake
era alto e smilzo. Capelli bruni, occhi dello stesso colore e uno
stradannato
ghigno fastidioso dipinto sempre in faccia. Alle volte si chiedeva come
i suoi
amici facessero a sopportare il suo atteggiamento
all’apparenza menefreghista.
Thomas,
invece, era poco più basso ed ugualmente magro. Un
cappellino rosso sempre
sulla testa, capelli mori e occhi di ghiaccio. All’apparenza
poteva sembrare
uno di quei ragazzi solitari e chiusi; nessuno avrebbe mai pensato che
fosse un
bullo.
-Ehi,
che fai? Non ci saluti?- domandò Jake, beffardo.
Corrugò
appena le sopracciglia e mimò con le labbra un
“lasciatemi stare.” Poi lo disse
a voce alta, senza rendersene conto. Come avrebbe voluto non farlo
…
-Hai
sentito? L’anoressica ci sta cacciando via!-
bofonchiò Thomas, portandosi le
mani alla testa.
La
afferrarono per le braccia e la tirarono su nel modo più
rozzo che possa
esistere. Tentò di dimenarsi, ma la loro presa era forte.
Aveva la sensazione
che, per un attimo, la circolazione del sangue fosse stata interrotta.
Si
sentiva debole, poteva accasciarsi al suolo da un momento
all’altro … se non
fosse stato per quei due.
-Ehi,
ma tu guarda!- esclamò il moro, tirando più forte
il braccio sinistro e
torcendolo.
Soffocò
un grido.
Studiarono
per un po’ entrambi il taglio sul polso che si era procurata.
Ecco, lo sapevo.
Il
ghigno sulla faccia del bruno tornò a regnare incontrastato
mentre scuoteva la
testa.
-Cattiva
bambina. Che fai adesso? Cominci anche a tagliarti?-
-Adesso
è anche un’emo. La depressione deve fare veramente
brutti scherzi … -
Come
fare a spiegare a due esseri privi di cervello che era stato un
episodio
casuale, un incidente? Facile, non puoi!
Thomas
sfilò dalla tasca il suo amico fidato coltellino, lo portava
sempre con sé. Un
altro taglio, vicino a quello che già aveva.
Strinse
i denti mentre del sangue cominciava a scendere per tutto il braccio;
qualche
goccia andò a finire anche sui ciuffi d’erba.
Le
figure davanti a lei cominciarono a brillare, ad offuscarsi.
Lentamente,
cominciava a non mettere più a fuoco nulla. Gli angoli degli
occhi pizzicavano,
le palpebre si stavano appesantendo.
Non
puoi piangere proprio ora, non
devi atteggiarti a debole davanti a loro.
-Lasciatemi
stare, andate via!- ripeté quella frase più
volte: prima balbettando, poi con
più convinzione.
Corrugarono
le sopracciglia, facendo spuntare delle piccole rughe sulla fronte.
Thomas
le prese il viso tra le mani: –Ora ti facciamo vedere che
cosa accade a chi ci
manca di rispetto.-
Un
cenno. Jake le tirò un calcio dietro la schiena, tanto
potente da farla
barcollare e cadere a terra a gattoni, contando solo
sull’appiglio delle mani.
I
due bulli si allontanarono con aria soddisfatta lasciando Avril sola.
Lacrime
salate cominciarono a solcarle il viso, mischiandosi tra di loro e
cadendo
sull’erba appena tagliata. I singhiozzi divennero ben presto
udibili. Un nodo
in gola le impediva di urlare, sfogarsi. Rimase lì immobile,
senza muovere un
muscolo, come se non avesse il coraggio di rialzarsi e di continuare a
vivere.
Tutto
il mondo si era fermato, sembrava sparito. Adesso c’era solo
lei, l’angoscia,
il rimorso e tanta sofferenza.
-Ehi,
tutto bene?-
Una
voce roca le ricordò in quale luogo si trovava. E non era
sola.
Alzò
la testa e incrociò lo sguardo di due occhi color cielo.
Appartenevano ad un
ragazzo biondo e dal bel fisico. La scrutavano come quelli di un
bambino
curioso ed ingenuo.
Lui
le tese la mano per aiutarla a rialzarsi, lei ignorò il
gesto di cortesia e
scattò in piedi.
-Ti
ho fatto una domanda e gradirei una risposta: come mai te ne stai qui
tutta
sola?-
Avril
ricacciò indietro i residui di lacrime che non erano finite
ad uscire e cercò
di assumere un’espressione irritata, per via della sua
presenza.
-Chi
diavolo sei e che cosa vuoi da me?- domandò a raffica.
–Non ti conosco e vorrei
che tu mi lasciassi in pace, se non ti è di troppo disturbo.-
Fece
per andarsene. Gli passò davanti ma lui, prontamente, la
bloccò, afferrandole
l’avambraccio.
Ghignò
strafottente.
-Insomma,
che diavolo vuoi?- urlò la ragazza, spazientita.
–Sei duro d’orecchi? Vattene,
ho detto, voglio stare da sola!-
La
stretta non era forte, fu facile liberarsi da quella sottospecie di
prigionia.
Scappò
via veloce e cercò di far cessare le lacrime che,
prepotenti, avevano
cominciato a solcarle violentemente il viso.
Non
sapeva chi fosse quel biondino e che cosa volesse ma, da un passato
come il
suo, ci si poteva aspettare solo tanto dolore. In fondo tutti la
conoscevano in
quel liceo, lui non poteva rappresentare un’eccezione.
***
Finalmente
quella noiosissima lezione di storia era giunta al termine.
Evan
ripose i libri dentro la sua borsa blu e, con lo stomaco vuoto,
s’incamminò
verso la mensa.
Per
tre ore non aveva fatto altro che rimuginare sull’incontro
con quella ragazza,
l’aveva urtato pesantemente. Non riusciva ancora a capire
perché gli avesse
risposto in modo così preparato e, soprattutto, brusco.
Apparte
il fatto che non conosceva il verbo “essere
rifiutato” dato che era uno dei più
popolari della scuola e che, per ogni ragazza, mettersi con lui
rappresentava
la via della popolarità e del successo.
Proprio
non capiva perché, non ci riusciva.
Intanto
era arrivato in mensa ed era già in coda per accaparrarsi il
pranzo, prima che
potesse finire e prima che fosse stato costretto a mangiare strani
miscugli
verdi scaduti da tre settimane o forse più.
Non
riusciva a smettere di pensare a quella mattina e a quella figura
affranta. Si
stava facendo complessi mentali per un incontro durato pochi secondi,
istanti,
non ci poteva credere.
Si
aggirava per quella stanza spaesato, come se fosse nuovo di
lì … finché non
sentì due voci familiari che gli fecero da navigatore. Non
che ce ne fosse
realmente bisogno …
-Ehi
amico, vieni qui!-
-Sì,
dai, siediti qui con noi. È da un po’ che non si
parla.-
Si
voltò ed incrociò i sorrisi strafalsi di Thomas e
Jake. Li conosceva da quando
aveva sette anni, erano sempre stati i suoi migliori amici. Si
stimavano a
vicenda e tutti
godevano di una certa
popolarità.
Non
ne era del tutto certo – non era mica così
informato – ma alcune voci dicevano
che quei due erano dei bulli – e fin qui ci siamo, ne era
consapevole – e che
avevano preso di mira una ragazzina da diversi anni.
Stentava
a crederci, erano sempre stati dei bravi ragazzi … per
quanto ne sapeva. Ma non
conosceva la loro vera identità o, almeno, non conosceva la
reputazione che si
erano guadagnati in quel liceo. Era da tempo che non li frequentava.
-Scusate
ragazzi, ho una questione urgente da sbrigare.-
Questione
urgente? Stai perdendo
colpi, caro.
Le
sue gambe cominciarono a camminare da sole, tanto che si chiese anche
lui dove
stesse andando. Ormai correva, aveva fretta di arrivare in quel luogo, sapeva che lei
era lì.
Continuava
a percorrere quel corridoio e rischiò quasi di urtare un
professore. Poco gli
importava.
Arrivò
al cortile con il fiatone, ma realizzato: la scorse pochi metri
più avanti,
sdraiata sul manto verde. Accarezzava i ciuffi d’erba e
osservava rapita il
cielo.
Mille
domande gli frullavano in testa, tipo “Cosa ci fai qui
all’ora di pranzo?”
oppure “Perché prima stavi
singhiozzando?” Sì, decisamente domande troppo
stupide, anche per uno come lui.
-Sapevo
che ti avrei trovata qui.- fu la frase che, sibilando, uscì
dalla bocca del
ragazzo.
E
con questo ti sei appena
aggiudicato il premio “frase più stupida
dell’anno”, congratulazioni!
Lei,
abituata a percepire anche il rumore più piccolo, si
voltò di scatto. Pareva
spaventata ma, dopo aver realizzato la situazione, la sua espressione
tornò
seria. Non dopo essersi concessa un sospiro di sollievo, ovvio.
Lo
guardava in cagnesco. Brutta mossa,
amico.
-Cosa
diavolo vuoi ancora da me?- ringhiò.
Questa
è una bella domanda. Tralasciando
sempre il fatto che nemmeno lui sapeva che cosa voleva sul serio.
Si
avvicinò e si abbassò fino a raggiungere la sua
altezza. In quel momento le
sembrò la cosa più giusta da fare, oltre che la
più ovvia.
-Evan
David Taubenfeld.- si presentò, allungando la mano verso la
ragazza.
Rimase
inizialmente sorpresa: mai si sarebbe aspettata una reazione del
genere. Poi
parve addolcirsi.
-Avril
Ramona Lavigne.- rispose, stringendogliela calorosamente.
Era
felice. Finalmente aveva trovato qualcuno di cui poteva fidarsi
ciecamente.
Qualcuno che poteva essergli amico e stargli accanto.
Angolo
dell’autrice
Perdonatemi
gente. Lo so, sono in un ritardo ABISSALE!
I’m sorry.
Il
fatto è che mi sono concentrata molto su un altro fandom ed
ho trascurato
questo.
Cercherò
di farmi perdonare, oltre che con questo aggiornamento, anche non una
futura e
probabile shot. Non ne sono del tutto sicura ma…
chissà.
Allora,
che ne dite del capitolo?
Ok,
forse nella parte finale sono entrata un po’ troppo nello
scontato. Ma dovevo
pur farli conoscere! E ci tenevo tanto.
Giovanni:
Almeno sei consapevole delle idiozie che scrivi. L’importante
è che ci credi
tu.
Ehm…
grazie .-.
Ora
devo correre e mi aspetto più recensioni in questo capitolo,
anche se tre sono
buone (soprattutto per iniziare).
Solluxy
♥