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Autore: shanna_b    09/04/2008    4 recensioni
“Dottore, dove va l’amore? Me lo dica, per favore. Adesso. Me lo dica. Dove va l’amore che si prova? I sentimenti che ci sono dove vanno? Sono perduti? Si dissolvono come ombre al sole? O l’amore va da qualche parte? E dove?”
“Non lo sappiamo. E non lo sapremo mai. Per questo vogliamo morire.”
La Shannonite è una malattia pericolosa che cambia la vita in maniera radicale e può, in certi casi, diventare cronica. Scoprite come.
Dedicata a mia cognata Deborah e a tante mie amiche che hanno un attacco di questa malattia (vale anche come Jaredite, eh...). Ho provato a scrivere quello che si prova in questi casi e questo ne è uscito. Ed ovviamente mi sono inventata tutto!! Shannon+Jared Leto non mi appartengono (acc...), non li conosco (acc...) e non ho la minima idea di come siano (acc...). Non l'ho scritta a scopo di lucro, ma solo per me e per chi la voglia leggere. Grazie a chi la leggerà e lascerà un commento.
Questa ff ha visto il Best Male, Best Plot, Best Romance e il Readers' Choice nel Contest "Never Ending Story Awards" primo turno.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shannon Leto
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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OGGI

 

Il mio medico ha detto che fa bene scrivere: che devo mettere nero su bianco quello che provo adesso e che ho provato in passato. Lo scrivere ha una funzione catartica, dice. Solo così posso e possono aiutarmi. Ma a fare cosa poi?

Mio marito mi ha trovata dieci minuti dopo che mi ero tagliata le vene e ha chiamato immediatamente l’ambulanza, risvegliando tutto il vicinato dal torpore estivo. Mi hanno ricoverata e ricucita. Non avevo fatto poi un gran danno alle vene del mio polso. Con quel ritmo di fuoriuscita del sangue sarei morta forse in dieci ore. Un tempo immenso.

Pazienza: un’ulteriore prova della mia incapacità. Non sono più in grado di vivere e nemmeno di morire.

Ora sono ricoverata in una clinica sui colli: dalla finestra della mia spoglia cameretta al terzo piano, vedo tutta la città stesa ai miei piedi e le balze dei colli vicini. Tutte le colline sono verdeggianti e fiorite, mentre la città è avvolta nella sua perenne cappa di smog.

Passo ore a guardare fuori da questa finestra. Una finestra sigillata che non si può assolutamente aprire, da cui non passa alcun suono. Di notte, da quella finestra, quando certe volte si vedono le stelle, passo il mio tempo a contarle.

Non so mai che ore sono, il tempo scorre languido.

Non ho libri, né radio, né TV e nemmeno il mio adorato IPod.

Non ho anelli, né braccialetti, né orecchini e i miei capelli sono sciolti sulle mie spalle, non pettinati, selvaggi.

Non ho una penna, ma una matita, per scrivere, e ogni volta che la devo temperare devo chiamare l’infermiera di guardia alla mia porta. Stessa cosa per i fogli: me ne danno uno alla volta e quando me ne serve uno bianco devo restituire quello scritto.

Ma tutto sommato mi sento bene, anche se ogni tanto mi danno qualche pillola colorata che io prendo senza discutere. Chissà a cosa e, soprattutto, se servono.

E poi ho un bravo dottore. O almeno a me pare così: è piccolino, magrolino, ha i capelli neri e più o meno la mia età. Quando mi chiede qualcosa ascolta la mia risposta con attenzione. Mi piace parlare con lui perché mi capisce e non so come faccia. Certe volte le cose che dico sembrano strane anche a me.

Gli ho detto di Shannon: non ha fatto un piega.

Gli ho detto che mi stavo uccidendo per quell’uomo, solo per lui: non ha detto niente.

Gli ho detto che non sono matta: ha detto che lo sa.

Gli ho detto che sono soltanto follemente innamorata, di un amore che nessuno può capire: ha detto che sa anche questo.

            Allora se non si sconvolge con niente e sa tutto perché sono qui? Mi ha detto che sono qui perché sono gli altri che stanno cercando una ragione per il mio gesto, non io. Io so benissimo perché l’ho fatto, ma la società civile no. E io potrei essere un pericolo per la società.

Mi sono messa a  ridere: come no? Infatti vado in giro a tagliare i polsi degli altri! Ma per favore, che sciocchezze.

Si è messo a ridere anche lui: la verità è che lei potrebbe volersi uccidere ancora, mi dice. Rido nuovamente. No. Non ci riuscirei più: mi bloccherebbe la paura di fallire.

            “Piuttosto mi aiuti a capire, dottore.” Gli dico.

            “Che cosa?”

            “Perché si vuole morire per amore.”

            “Secondo lei, perché?”

            Uffa perché devo sempre rispondere io?

            “C’è una ragione chimica? E` il cervello?” Dico. Ho studiato, sono laureata. “L’amore è una questione di reazione chimica cerebrale, forse? E quando il cervello non riesce a trovare una reazione chimica contraria decide che è il caso di autodistruggersi?”

            “Forse. Chi lo sa? Qualche altra idea?”

            “Io vorrei sapere in generale perché succede. Se c’è una regola, una metodologia. E come evitarlo. Cioè se io non  avessi mai guardato quel video, non mi sarei innamorata, no? Bisogna distruggere le TV? E anche internet poi, bisogna abolirla. E` un calderone ribollente di desideri e tentazioni.”

            Ride nuovamente. Devo essere la sua paziente più divertente, per quello mi chiama spesso. “Quelli sono solo mezzi. Quando non c’erano, la gente si uccideva lo stesso per amore. Romeo e Giulietta, per esempio. Non usavano gtalk per parlarsi.”

            Rido anch’io e, non so perché, m’immagino “I promessi sposi” alle prese con la tecnologia e lo dico al dottore: “Perdio Griso, dice Don Rodrigo, fai funzionare la rete che devo chattare con l’Innominato. E prova a prenotare via internet due biglietti per quello spettacolo, com’è che si  chiama, ‘la Peste’? La prego Don Abbondio, non apra la posta elettronica oggi, dice Agnese, potrebbe esserci una mail dei bravi!”

Ridiamo fino alle lacrime, ma ad un tratto mi viene un dubbio. Mi asciugo la faccia con la manica della vestaglia e mi metto a fissare il dottore. “Non c’è nulla di chimico, vero? E` solo emozione, sentimento, coinvolgimento, impulso, l’amore… non c’è niente di niente di tecnico e razionale. Non si spiega, non si ferma, non si chiude dentro scatole.”

Il dottore mi fissa e non dice niente. Resto a guardarlo per un po’ e mi viene il dubbio che capisca tutto quello che provo, ma non perché è il dottore, ma perché è un essere umano. Ho un’altra domanda, che è da un po’ che mi rode. Vediamo se mi risponde.

“Dottore, dove va l’amore?” Il mio medico abbassa gli occhi, per un istante sembra colpito. “Me lo dica, per favore. Adesso. Me lo dica. Dove va l’amore che si prova? I sentimenti che ci sono dove vanno? Sono perduti? Si dissolvono come ombre al sole? O l’amore va da qualche parte? E dove?”

Non mi risponde, anzi, mi pare stizzito. Non riesce nemmeno a formulare la contro-domanda come fa di solito. Prende la sua agenda e la apre un po’ bruscamente, probabilmente mi sta fissando il prossimo appuntamento, mi sta mandando via.

Ma, girando troppo velocemente una pagina, una foto esce dall’agenda e, malignamente, vola sopra la scrivania fino a fermarsi vicino ai miei piedi, nonostante i tentativi di catturarla del mio medico. La raccolgo velocemente. Chissà cos’è.

La osservo: è una foto ormai vecchia, consumata sugli angoli, un po’ sbiadita e c’è una ragazza con sottili capelli biondi che sorride all’obiettivo. Giovane, carina, un po’ imbarazzata.

Mentre la guardo, mi sfiora un pensiero.

Sollevo la testa e punto gli occhi sulla foto che è appesa nella parete dietro il mio medico: anche lì c’è la foto di una donna, ma questa è castana, con i tratti tipicamente mediterranei, ed è in posa in uno studio fotografico, con due figli.

Quella è la moglie del medico.

Mi metto a fissarlo a bocca aperta e, mettendomi mezza seduta sulla sedia, gli porgo la foto. La trattengo per un attimo mentre cerca di prendermela dalla mano.

“Dove va l’amore?” gli ripeto fissandolo negli occhi. Voglio sapere e credo che lui lo sappia. Lui prende la foto e la rimette velocemente nell’agenda, senza spostare gli occhi dai miei.

“Non lo sappiamo.” Mi dice. Rimaniamo un attimo a guardarci e poi vedo che i suoi occhi si riempiono di lacrime. “E non lo sapremo mai. Per questo vogliamo morire.” Dice a bassa voce, come in un sussurro.

“Come si chiamava?” gli chiedo, ma la voce mi manca.

“Maria.” E anche la sua voce è incrinata. “L’ho vista una sola volta e non l’ho mai più dimenticata.”

Mi siedo abbattuta sulla sedia, le mani in grembo, e mi scappa un lamento quasi animale: mi metto a piangere disperata, in modo convulso. Mi prendo il viso tra le mani e le mie lacrime cadono come non facevano da tempo. Il mio petto è scosso da singulti tremendi, mi manca quasi l’aria.

E` una liberazione.

Sento il mio medico che si alza, prende una sedia e si mette vicino a me. Poi mi abbraccia.

Io stringo tra le mani il suo camice bianco e profumato e singhiozzo come non avevo mai fatto in vita mia. Anche a lui scendono le lacrime.

Siamo nella stessa barca, medico e paziente. Prigionieri di un amore che non sarà mai ricambiato, che non sappiamo frenare e che, visto che non è mai iniziato, mai finirà.

E non possiamo farci assolutamente nulla. Niente di niente.

Il giorno dopo mi dimette. E` solo esaurimento nervoso, sentenzia, dovuto al troppo lavoro in casa e fuori. Non fa parole della mia mania, perché sa benissimo che è simile alla sua.

Io e lui, in codice, la chiamiamo Shannonite acuta.

Ritorno a casa, accolta festosamente da tutti, ma una parte di me è morta e non credo rivivrà più. Guardo mio marito e mi accorgo che ha un sorriso dolcissimo, mentre mio figlio mi salta in braccio e mi appoggia mille baci affettuosi sul viso. Il cane mi lecca una mano, soddisfatto. Non è questo il mio posto, ma è certamente il migliore in cui io possa stare.

Che cazzo mi ero messa in testa? Ma come posso essermi infilata in questa assurda situazione? Cretina. Sono stata una cretina. SONO una cretina.

Mi guardo il polso e giuro a me stessa che ogni volta che tenterò di pensare a Shannon, dovrò guardarmi la cicatrice e pensare a come stavo buttando via la mia vita.

Quando torno in ufficio tolgo i poster dal bagno, li arrotolo e li metto nell’armadio, tanto la mia collega non c’è più: ha avuto il trasferimento in un’altra sede, chissà se la rivedrò ancora. Tolgo anche le foto appese al muro, ormai ingiallite, e il calendario, ormai superato: per il momento metto tutto in un cassetto che non apro mai, poi si vedrà.

Oggi fa meno male farlo, tre mesi fa non ci sarei riuscita.

Poi, senza alcuna esitazione, cancello tutte le foto di Shannon e i video dei 30 Seconds to Mars dal mio hard disk: mentre guardo sul video i files che volano e poi scompaiono in uno sciocco scintillio, penso che stavo facendo la stessa cosa con me stessa, a causa di un uomo che, in fondo, non so nemmeno chi sia.

Ma perché? Che senso aveva?

Decido di tenere soltanto una foto: un primo piano di Shannon dal video “From Yesterday”, il primo che ho visto, l’ultimo che vedrò. Tanto per ricordarmi della mia follia.

Ho finito. Addio, piccolo Shan.

Nessun uomo merita tanto, nemmeno tu.

Mi stavi rovinando la vita: non riesco ad odiarti perché ormai non sento emozioni così forti, obnubilata dagli psicofarmaci come sono, ma non voglio più pensarti, non voglio più sapere niente di te.

Addio, piccolo Shan. Riponiti in un angolino del mio cuore, quello spento, e là rimani per sempre. Ti ho amato troppo e per niente.

Mi squilla il telefono e comincia il lavoro. E ricomincia forse anche la mia vita.

   
 
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