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Autore: Crysalis    09/04/2008    1 recensioni
Terra. 2178.
Non esiste più repubblica, non esiste più libertà... non esiste più niente. solo la Giunta, e una dittatura che dura ormai da quasi vent'anni. E in questo mondo, dei ragazzi normali vivono, sognano... e affrontano ciò che nessun altro può affrontare.
Genere: Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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2.


Passarono alcune ore prima che ci riprendessimo. Io fui l'ultima a riaprire gli occhi - come al solito, vedendo la scheda arancione non si erano certo trattenuti - e quando mi svegliai vidi che tutti i miei amici erano in seduti a terra, spaventati, ad osservarmi quasi con rancore, come se fosse colpa mia il fatto che ci trovassimo là in quel momento.
E non voglio mentire: probabilmente lo era.
"La" era una cella illuminata, larga e spaziosa, con numerosi giacigli posti sulle pareti, un pavimento pulito e brillante come uno specchio. "In quel momento" non sapevamo esattamente quale fosse, ma dovevano essere passate ore da quando ci avevano colpito. Immaginai che le nostre famiglie erano state avvertite, e con un tuffo al cuore mi resi conto che a mia madre non sarebbe stato permesso di entrare. Mi chiesi cosa ne sarebbe stato di noi. Ci avrebbero giustiziati per aver parlato contro la Giunta in pubblico? Non mi sembrava un futuro tanto improbabile in quel momento.
"Tutto bene?" Lyla mi si stava avvicinando, guardandomi comprensiva.
"Sì... a parte un po' di mal di testa.", risposi, poi tacqui. Non volevo chiedere cosa ne sarebbe stato di noi, dove eravamo, perchè eravamo lì. Non volevo sapere qual'era il nostro futuro, sempre che loro lo sapessero. Poi abbassai lo sguardo, vidi e capii. Sul petto di Lyla non c'era più la tessera di riconoscimento. Mentre noi eravamo in cella ce le stavano cambiando. Eravamo stati degradati. Mi ricordai le parole di Roy, e sperai che non venissero degradate pure le loro famiglie. Avrei potuto sopportare l'odio dei miei amici, ma se fossero stati sostenuti anche dalle loro - numerose - famiglie sarebbe stato ben più difficile.
"Non ti preoccupare, non è colpa tua", disse la mia amica, sorridendomi comprensiva. Sorrisi a mia volta. Capiva sempre quello che mi passava per la testa, quasi che mi leggesse dentro. ed era così, in effetti. Ma questo ancora non lo sapevo.
"Sì invece che lo è", alzai lo sguardo, cercando quello di Roy, che evitò accuratamente di guardarmi. "Se non fosse stato per me...."
"Non dire sciocchezze", Van si avvicinò all'angolo dov'era seduta io, guardandomi sorridente. Sembrava che il fatto di essere imprigionato in una cella, attendendo che lo degradassero non lo toccasse minimamente. In realtà sapevo che era terrorizzato. "Non è colpa tua. Tu...", cercò qualcosa da dire ma non gli venne in mente nulla, così tacque. Roy e gli altri - eravamo in tutto sette - continuarono a stare in silenzio, e questo per me era peggio di mille accuse.
Li guardai ad uno ad uno: Lyla, Van, Roy, Myka, Gabrielle e David; erano gli unici amici che avessi mai avuto in vita mia. Se adesso per questa storia li avessi persi... temevo di non saper tornare ad affrontare la solitudine.
Come figlia di una ribelle, ero cresciuta allontanata da tutti e bandita dalla maggior parte delle attività. Anzi, ancora oggi mi chiedo come mai mi fu concesso di frequentare la scuola, sebbene la maggior parte dei ricordi legati alla scuola sono infelici e umilianti. Anche per questo divenni in breve una persona solitaria, poco avvezza a rapporti con estranei. Dai cinque ai diciotto anni, l'unica persona con cui parlavo e poteva parlare era mia madre. E, se calcoliamo che per buona parte della mia infanzia avevo odiato mia madre, ritenendola responsabile dell'isolamente cui ero condannata, si capisce che non ero la persona più amichevole e solidale del mondo.
Questo finchè non conobbi Lyla. Lei, la sua dolce comprensione, la sua amichevole vitalità, mi avevano sollevato dalla mia solitudine e mi avevano trascinato all'interno della vita.
Alzai lo sgaurdo sul volto della mia salvatrice: i tranquilli occhi castani, che sembravano sapere tutto ciò che mi passava per la testa, riuscirono in qualche modo a rasserenarmi. E non solo me. Il suo sorriso comprensivo riusciva sempre a quietare gli animi di tutti.
"Già, hanno ragione", disse dopo un po' Roy. Lo guardai sorpresa. Lui abbassò lo sguardo, arrossendo. "E'... è stata colpa mia. Sono stato io l'idiota che mi sono messo ad urlare quelle sciocchezze nel bel mezzo del parco..."
Deglutii. Mai avrei creduto di udire quelle parole da Roy. Sorrisi incerta. "Non dire sciocchezze, io... se io non ti avessi provocato..."
Lui scosse la testa. "Non è così", si limitò a dire.
Avrei voluto rispondere, prendere le colpe che meritavo, farmi gettare a terra e calpestare come uno straccio vecchio. Dopotutto, ero io quella con la scheda arancione. Ero io quella che tutti svilivano e discriminavano. Ma un rumore dei passi fermò i miei pensieri prima che si trasferissero nella gola e nella bocca, trasformandosi in parole.
Penso che quei corridoi sono fatti apposta per far sentire già da lontano i passi pesanti e ritmati delle guardie, tanto per aumentare l'angoscia dei prigionieri. Che, ve l'assicuro, in una prigione come quella, dove non si sa per nulla cosa la follia della Giunta può costarti, se una multa, una degradazione o la testa, non era nemmeno poca.
Tutti ci voltammo, guardando la porta con i muscoli tesi, le orecchie rizzate, gli sguardi attenti. Eravamo a dir poco terrorizzati.
Ci mise un po' ad arrivare, il proprietario di quel rumore. Quando infine la porta si aprì, vedemmo un uomo alto e slanciato, con pochi capelli grigi in testa e un paio di occhiali sulla punta del naso. Aveva l'aria sperduta e confusa, i lineamenti caduti e parecchie rughe a rigargli il volto. Lo guardammo quasi delusi.
"Salve ragazzi", salutò in un tono vivace e allegro fino a risultare odioso, in un fallito tentativo di risultare amichevole. Ma quando vide che nessuno di noi rispose, limitandoci ad osservarlo storditi, il suo tono mutò, mantenendo però il volto quell'espressione confusa. "Ho detto: SALVE RAGAZZI!", quasi ruggì, strappandoci un sussulto di sorpresa.
"Buonasera"
"Salve"
"'Sera"
Salutammo tutti improvvisamente terrorizzati, senza staccargli gli occhi di dosso.
"Bene" dichiarò in un tono soddisfatti guardandoci con quell'aria perennemente confusa. "Un po' di sana educazione da un gruppetto di ragazzini è quello che ci vuole. Sapete", continuò, in tono confidenziale, "Io ho sempre suggerito a Hopckins di dover puntare maggiormente su questo punto, ma lui ha sempre sottovalutato i miei consigli in questa direzione." appariva quasi turbato, amareggiato, mentre ci fissava ad uno ad uno. Immaginai che, se non avesse avuto quell'aria confusa, ci avrebbe guardati con astio. "In realtà, se avessimo fatto come dicevo io, adesso non ci troveremmo con un branco di ragazzini maleducati che passa il suo tempo a discutere sui danni della Giunta!", concluse iroso. Poi scosse la testa, cercando di abbozzare un sorriso. "A proposito, io sono Ser Lewick Powell... al vostro servizio", concluse con una forte nota di ironia.
Probabilmente, se non fossimo stati terrorizzati di trovarci di fronte al capo in seconda della Giunta, il reale cervello di tutta l'organizzazione che si celava dietro il bel faccino del Generale Hopckins, avremmo anche potuto trovare irritante quel tono scanzonatorio.
Questa volta rispondemmo con uno sguardo di confusione allo stato puro, pari almeno al suo. Nel mentre Ser Lewick Powell era entrato nella cella, dove faceva su e giù mentre chiacchierava amichevolmente. Non osammo nemmeno lontanamente provare ad interromperlo.
"Lo so, lo so", stava dicendo, "Vi starete chiedendo come mai un elemento della mia levatura si è degnato di venire a parlare con un branco di ragazzini rivoluzionari.", non annuimmo. In fondo era più che palese che fosse quello il nostro pensiero. "Vedete, di solito quelli come voi vengono trattenuti un giorno in galera, multati e degradati per una settimana. Tanto per far loro assaggiare cosa succederebbe in caso venissero completamente degradati", sorrise amichevole nella nostra direzione, sorriso però che risultò inquietante accompagnato dalla smorfia confusionale dello sguardo. "Ma vedete, vi ho trovati interessanti... dopotutto, abbiamo qui una figlia di due rivoluzionari", dichiarò osservandomi. Questa volta non arrossii nè mi vergognai: lo fissai negli occhi in silenzio, in una smorfia di muto risentimento. Non persi tempo a sottolineare che i miei genitori non erano rivoluzionari , visto che ai tempi in cui avevano combattutto non era ancora pienamente affermta la Giunta, ma semplici salvatori. Lui ridacchiò. "Che noto dallo sguardo possedere la stessa tempra dei genitori", disse, come se fosse soddisfatto. "Sai, andavo a scuola con tuo padre. Come ti chiami?"
Rimasi per un attimo in silenzio, spiazzata dalla dichiarazione dell'uomo più temibile della Giunta... come poteva essere compagno di mio padre? Rimasi in silenzio un secondo, mentre su di me avvertivo lo sguardo dei miei amici, prima di rispondere. "Morrigan", dissi, in tono deciso. "Morrigan Olivaw", sottolineai in tono orgoglioso.
Lui annuì. "Sapevi che eravamo compagni ai tempi della scuola?", mi chiese sorridendo in un imprecisato tentativo di risultare gentile.
"No", dichiarai, "E a conti fatti nemmeno mi interessa. Non è certo delle compagnie che frequentava in gioventù che dovrebbe render conto mio padre"
Stavolta Ser Lewick Powell rise di gusto, divertito. C'era una nota di disprezzo in quella risata, che cominciò a farmi dimenticare a chi mi trovavo di fronte mentre l'irritazione cresceva esponenzialmente. "Oh, sì, non dubito di questo. Nè voglio allontanarti dal ricordo glorioso che possiedi del tuo genitore. Sei orgogliosa di lui, vero?", mi chiese. Non risposi nemmeno. Non avevo bisogno di concedergli questa soddisfazione. "Ma sai, ci sono... cose... che non sono mai state dette... per non incrinare la visione della Giunta, ovviamente, e anche, immagino quella del più grande rivoluzionario conosciuto", sorrise, osservando la confusione che si dipingeva sul mio volto. Forse voleva spingermi a dubitare, a chiedergli di cosa stesse parlando. Non aprii bocca, non disposta a mostrargli che era riuscito ad insinuare il seme del dubbio in me. Così si accigliò, per quanto possa dire che si fosse accigliato senza perdere la sua espressione confusa, e andò avanti. "E poi, chi abbiamo? Oh, ma certo, la figlia di Evelyn Carson", sorrire. Tutti ci voltatto verso Lyla, che arrossì e abbassò la testa. "Oh, suvvia, ragazza mia, non è il caso di vergognarsi", continuò Lewick.
Lei alzò il volto. "Io non mi vergogno", dichiarò in un soffio. Si vedeva che aveva paura a parlare con quell'uomo, ma non esitò nè abbassò lo sguardo. "Mia madre è stata strumentalizzata, usata e poi gettata come uno straccio vecchio. Non è come voi volete far credere..."
Io, come i miei amici del resto, ero confusa. Non avevo mai sentito nominare prima la madre di Lyla, nè sentito altro in proposito. Lei non ne parlava mai molto. Tutto ciò che sapevamo, è che era morta quando Lyla era poco più di una neonata.
"Certo... certo", sorrise Lewick, "La colpa, ovviamente, è sempre e solo della Giunta. Mi dispiace deluderti, ragazzina, tua madre ci servì fedelmente e con orgoglio, fino in fondo. Solo nel momento in cui rimase incinta di... quell'uomo... cambiò idea e cominciò ad andare contro i principi del Generale.Per questo decise di abbandonarci"
"Menti", sibilò Lyla, ma non aggiunse altro. L'uomo sghignazzo, sebbene Lyla non mostrasse alcun tipo di sgomento.
"Oh, no, e lo sai bene. Lo stai vedendo in questo momento, vero?", chiese, e un'espressione di giubilio spazzò per un attimo via la confusione dal suo sguardo quando vide che infine il volto della ragazzina si era aperto a mostrare un sentimento: sgomento, stupore e rabbia.
"Cosa... come...", balbettò lei.
"Oh, cara mia, tu... come dire... sei frutto degli stessi esperimenti che tua madre condusse per noi. Non sei poi tanto differente dalle creature sfornate dal nostro laboratorio", disse in tono divertito. Noi la guardammo incerti, confusi sulle parole di quell'uomo. Bhè, ok, è un eufenismo questo. Non ci stavamo letteralmente capendo nulla.
"Menti", ripetè la ragazza, abbassano il volto e arrossendo. Ma questa volta era davvero molto meno sicura. Avevo sempre saputo che Lyla possedeva una sorta di sesto senso che le permetteva di capire cosa passasse realmente per il cervello delle persone; forse, aveva intuito che, di qualunque cosa stesse parlando Lewick, stava dicendo il vero. Sebbene non capissi pienamente a cosa si stesse riferendo, mi sentii dispiaciuta per la mia amica.
Intanto lui stava continuando, dopo aver scosso teatralmente la testa. I suoi occhi stavolta si posarono su Roy, che rabbrividì di anticipazione. Non potei immaginare cosa avrebbe detto di lui, ma dopotutto non avrei mai nemmeno immaginato che avrebbe detto qualcosa su Lyla. "Roy Deneve, giusto?", chiese in tono dolce, quasi premuroso. Lui non rispose, si limitò ad abbassare il volto per non sentire cosa avrebbe detto. Cosa che forse già sapeva. "Già, già, non avevo dubbi... assomigli moltissimo a tuo fratello. Sebbene lui non avesse quell'espressione arrogante e presuntuosa sul volto... e non andava in giro a parlare contro la Giunta, ovviamente. Chissà come sarebbe deluso se sapese...", disse in un tono quasi triste. Strinsi le mani, irritata sempre di più. "A proposito, è tanto che non lo vedo. Come sta?", chiese in tono adorabile. Tutti noi sgranammo gli occhi di fronte all'apparente intimità con cui Powell si riferiva al fratello di Roy. Quest'ultimo si limitò a bofonchiare qualcosa all'apparenza incomprensibile, ma che parve soddisfare l'uomo che continuava a passeggiare avanti indietro per la cella. In quel momento, mi accorsi che, stando seduti a terra e fissando con un'inclinazione del capo scomoda l'uomo che ci stava praticamente torturando, tutti i muscoli e le ossa cominciavano a dolore. Pregai che durasse ancora per poco quella sceneggiata senza alcun senso. Da parte sua, Powell pareva starsi divertendo un mondo e non avere ancora nessuna intenzione di smetterla. "Mi fa davvero piacere", rispose al mugugno incomprensibile di Roy con un sorriso divertito. "Potresti dirgli da parte mia che mi farebbe piacere sentirlo presto? Mi piacerebbe sapere che progressi ha fatto nei suoi studi...". A quel punto ricordai: il fratello di Roy, Auguste Deneve, era uno scienziato di modesta fama. a quanto pare, era collegato in qualche modo alla giunta. Il ragazzo non rispose, ma Lewick non parve badarci: a quanto pareva non gli interessava veramente che auguste lo andasse a trovare, gli bastava che avesse turbato quel ragazzo.
I suoi occhi andarono oltre: il prossimo, a quanto pareva, era Van. Aprì la bocca per cominciare a parlare, quando un'allarme risuonò limpido e duro lungo la cella. L'espressione confusa di Powell parve accentuarsi mentre alzava lo sguardo, come se il tetto della prigione potesse fornirgli un qualche tipo di risposta, ma ci mise solo qualche istante a capire che non vi avrebbe letto l'ultimo gazettino degli attacchi.
"Voi potete andare", dichiarò dopo un attimo Powell, guardandoci duramente dietro la solita espressione confusa. "Non penso di poter mandare qualcuno a prendervi, ma basta che seguiate le indicazioni per trovare l'uscita. troverete le vostre schede all'ingresso", disse, in tono frettoloso. Ci stupimmo per il suo sangue freddo in quel momento di fornirci quelle indicazioni per farci uscire, ma dopotutto Ser Lewick Powell non sarebbe diventato chi era se non con un gran cervello. Questo non ce lo rese più simpatico o ammirevole, anzi: era semplicemente più pericoloso.
Dopo solo pochi istanti il nostro carceriere era svanito nei corridoi, correndo in modo ben poco decoroso, e noi ci rimettemmo in piedi esitanti. Nessuno disse nulla su quanto era stato detto dall'uomo, ci limitammo ad uscire in silenzio dalla cella e cominciare a seguire le indicazioni, che sembravano apparire solo al nostro passaggio.
Camminammo per un'apparentemente infinito dedalo di corridoi, cominciando quasi a temere che fosse l'ennesima punizione della Giunta, farci girare fino a morire di stenti per le sale labirintiche del carcere, quando infine giungemmo in una sala scarsamente illuminata, ampia e con un numero impressionante di scrivanie, tutte vuote.
Doveva essere la sala principale del carcere, quella adibita agli uffici, alle denuncie e alle pratiche amministrative. Era completamente vuota, con alcune scrivanie rovesciate, sedie ammucchiate in un angolo, fogli sparpagliati ovunque, come se fosse stata invasa da un branco di uomini impazziti. Non c'era niente di rotto o simile, eppure aveva un'aria spettrale, accentuata da una luce malsana che entrava dalle finestre.
Non avevamo mai visto una luce simile: era gialla, arancione e contemporaneamente grigia, malata. Nessuna luce naturale poteva creare simili giochi di colori.
Attraversammo di corsa la sala, dirigendoci verso l'uscita. Come ci aveva promesso Powell, trovammo lì le nostre schede, identiche a prima. Ce le appuntammo velocemente sul petto, prima di uscire nella strada.
In quel momento assaggiammo un sentimento che avevamo già conosciuto per tutta la serata, ma che adesso raggiunse livelli incommensurabili. Guardando in alto, in basso, intorno a noi, vedemmo strane macchine che strisciavano, camminavano e volavano, emettendo luci di colori spettrali che illuminavano le strade buie di grigio e di bianco. Qua e là erano scoppiati piccoli incendi, e uomini armati di tutto punto, con le divise nere, si aggiravano intorno ai macchinari. Non vedemmo uomini della Giunta là intorno, nè dell'esercito della città. forse li avevano già tutti uccisi, o catturati.
Rabbrividimmo, senza sapere se provare sconforto o gioia.
La città, e con essa la Giunta, era sotto attacco.

  
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