[N.d.A.
ed ecco a voi questa one-shot abbastanza breve che ho
scritto a più riprese. L’idea iniziale era quella di una serie di one-shots legate da un fattore comune (il motel), ma per
adesso è venuto fori solo questo. Probabilmente tornerò all’idea iniziale, ma
per ora dovrete accontentarvi di questa storiella qui… ^^ Lasciatemi un
commentino e fatemi sapere cosa ne pensate. Besos]
E siamo qui. Di nuovo.
In
questo squallido buco, ai margini del mondo
conosciuto, al di sotto della nostra incantevole, perfetta e inviolabile
società.
Qui
ogni cosa non fa che rammentarmi il posto che occupiamo
sulla terra, nell’ordine di tutte le cose. A cominciare da quella macchia di
muffa sul tetto.
Già.
E’
squallida, orrida, triste, lugubre.
Ed è quello che ci meritiamo.
Noi,
esseri blasfemi, luridi peccatori.
E’
questa la nostra condanna. Dobbiamo nasconderci, correre lontano, errare in
eterno.
Dobbiamo uscire dall’Eden, non è più posto per noi.
Abbiamo
peccato.
“mi
passi il cappotto per favore?”
La
tua voce mi distoglie un attimo dai miei pensieri. Inutili, per altro.
Allungo
la mano per afferrare il tuo cappotto nero e te lo porgo lentamente. Sono
abbastanza stanco e sinceramente questo posto mi da la
nausea.
Ieri
ho lavorato senza sosta e credo anche di avere un po’ di febbre. Sarei
volentieri rimasto a letto, ma vederci (e non intendo incontrarci in un bar o a
casa di amici, intendo vederci seriamente) è diventato ormai una cosa talmente rara e
difficile che non potevo certo rinunciarci oggi.
“ti
senti bene?” mi chiedi, mentre tiri fuori una sigaretta dalla tasca.
Annuisco
col capo e tu accenni un sorriso cercando l’accendino.
“l’hai
preso tu? Ricordavo di averlo portato…”
“forse
lo hai lasciato in macchina”
“cazzo…”
“dovresti
smetterla con questa merda. Finirai col farti venire un tumore ai polmoni”
Neanche
mi senti. Continui a frugare nelle tasche innervosito,
ancora con la sigaretta in bocca.
Apro
il cassetto del comodino e, come al solito, ci trovo
dentro dei fiammiferi.
Veniamo
qui da sei mesi ormai e non lo hai ancora imparato.
Te
li lancio e tu li prendi al volo.
Scoppi
a ridere.
“devo scrivermelo da qualche parte, non me lo ricordo mai!”
Sorrido
di rimando e mi sdraio sul letto ormai disfatto, osservandoti fumare la tua
preziosa sigaretta.
E’
strano vederti ridere quando siamo qui, non succede quasi mai.
E in effetti non c’è molto da ridere se da mesi ti chiudi con
il tuo amante in uno schifoso motel da quattro soldi mentre tua madre pensa che
tu sia ad un convegno per lavoro.
Lo
capisco il fatto che tu non rida, lo capisco
benissimo.
Capisco
perfettamente se mentre mi dici che mi ami hai lo sguardo rivolto altrove e i
muscoli tesi.
E
capisco anche quando non parli, quando stai in silenzio e fai solo ciò per cui sei venuto, zitto, senza fiatare, senza emozioni.
Lo
capisco, davvero.
Ma mi fa male.
Mi
uccide vederti così assente, così arrabbiato, così teso da
far paura.
Mi
uccide sapere che tu potresti avere una vita diversa. Lontano
da tutto questo, lontano da me.
Io
no, io non potrei stare diversamente, non potrei vivere in altro modo. Mi basta
sapere che sentirò la tua voce a fine giornata, per
essere felice. Sapere che ti ho, per me, solo per me. Mi basta.
Ma a te no, lo so, è più che evidente.
Lo
sento ogni volta che parli, traspare da ogni cosa che fai. So che ci pensi ed è
perfettamente normale.
In
fondo perché dovresti continuare a fare questa vita? Non e avresti motivo.
Tu
hai tutto. La famiglia perfetta, la casa perfetta, a macchina
perfetta, il lavoro perfetto, vestiti perfetti. Tu PUOI avere un’altra
vita.
Io
non posso.
Sei
TU la mia vita.
Mi
avvicino e ti schiocco un bacio sulla guancia.
“grazie”
Ti
volti e mi scruti stupito.
“e di cosa?”
Del fatto che tu sia qui. Ora.
Anche se so che non sarà per sempre.
“così”
Mi
guardi, triste. Poi mi baci ma io mi ritiro subito.
Sono stranito. Di solito non lo fai, o meglio, lo fai solo quando è necessario,
non così, non inaspettatamente.
Mi
alzo e indosso la vestaglia che mi hai regalato.
“dove vai?”
“da
nessuna parte. Ho solo freddo”
“in
questo postaccio non si preoccupano neanche di riscaldare le stanze. Che schifo…”
Pugnalata in pieno
petto.
So
che non volevi ferirmi, ci mancherebbe, ma io,
sentendoti lamentare, non posso far altro che sentirmi una merda.
E’
colpa mia se tu al momento non sei a cena con dei facoltosi amici dei tuoi o se
non puoi andartene in giro mano nella mano con una donna o se non sei ad un fottuto pic-nic con i tuoi
colleghi di lavoro o se non sei un albergo a cinque stelle con tanto di aria condizionata.
Lo
so già.
Non
è necessario ricordarmelo.
E
scusa se ti metto in bocca parole che non hai detto.
Devo
essere completamente impazzito… che cazzo mi viene in mente? Non hai detto
nulla e io ti accuso mentalmente di chissà cosa.
Il
fatto è, inutile mentire a me stesso, che tu ti stai stancando di me, e io non
riesco ad accettarlo.
Senza
accorgermene mi sono seduto sulla poltrona e ho cominciato a fissarti.
Sei
nervoso, e si vede.
Quando
non sei nervoso e cerchi di fare il gentile a tutti i costi vuol
dire che stai cercando di nascondere il tuo effettivo nervosismo.
“c’è
qualcosa che non va?”
La
mia voce suona più preoccupata di quanto vorrei dare a vedere.
Stacchi
improvvisamente gli occhi dal televisore ma cerchi di ricomporti subito.
Colpito e affondato.
“potrei chiederti la stessa cosa”
Cazzo,
la tua faccia tosta è impressionante.
Sai
che per me sei un libro aperto, lo sai. Eppure cerchi di
rigirare la frittata e di sviare il discorso. Sapendo che lo odio, tra
l’altro.
“non
cercare di fare il furbo con me. Se c’è qualche problema dimmelo a basta”
“non
c’è nessun problema. Sei tu che sei pensieroso”
E due.
“quando la smetti di rigirare il discorso e di fare il
misterioso fammi un fischio. Io vado a farmi una doccia”
L’acqua
è fredda, ma io ho voglia di far scivolare via l’odore di questo posto, la
sensazione di star facendo qualcosa di impuro, di
sbagliato, di malato.
Al
diavolo, mi sto congelando.
Esco in fretta dalla doccia, mi asciugo e indosso la
vestaglia. Morirò di ipotermia, me lo sento.
Probabilmente
tu stai ancora leggendo.
“io
ho finito, ti serve la doccia per caso?”
“no,
macchè, ho troppo freddo”
Come
siamo loquaci oggi…
Mi
rivesto in fretta, nonostante sia ancora umido, e ti raggiungo sul letto.
E’
strano. Siamo qui da quasi quattro ore eppure i sembra
che ne sia passata solo una. Sembra banale, ma è sempre così quando stiamo
insieme.
I
minuti corrono, veloci, irraggiungibili, e ci tolgono il respiro. E’
maledettamente assillante,
C’è
uno scarafaggio che non la smette di girare attorno al letto. E’ come se anche
lui si sentisse indignato per quello che facciamo.
Siamo
davvero più ripugnanti di uno scarafaggio?
In
fondo ci nascondiamo nello stesso posto.
Fuori da qui non c’è luogo.
Fuori da qui c’è il gelo.
Lui
verrebbe ucciso da un insetticida.
Io
perirei sotto le tacite accuse della gente.
Non
accuse contro di me, intendiamoci. Io a quelle ci ho fatto l’abitudine da un
pezzo.
Io
morirei vedendo accusato te.
Scarafaggi. Cancro
dell’umanità. Depravati. Peccatori.
Bisogna scacciarli.
Calpesteranno il nostro
prato.
Devieranno i nostri fanciulli.
Distruggeranno il
genere umano.
Perdonateci
allora. Perdonate la nostra deleteria e inutile esistenza.
Ti
guardo e a volte penso che tu sia un egoista. Poi me ne penso, si, ma lo penso.
Ti capisco, si, ma lo penso. Voglio proteggerti, si, ma lo penso.
Perché non l’hai mai detto a nessuno?
“sai”
dici “ho comprato un nuovo tostapane”
“mh…
davvero?”
Hai mangiatola
mela. Te ne sei forse pentito?
“devi
venire a provarlo uno di questi giorni”
Sono gli alti o sei
forse tu a non ritenerci degni dell’Eden?
“ci
verrò, anche se non vedo cosa ci sia da provare in un tostapane. Ne ho uno
anch’io, che ti credi?”
Se è così dillo, e io ti seguirò nel più oscuro e terribile
girone dell’inferno.
“sottovaluti
il mo acquisto. Non è mica un tostapane da due soldi!”
“il
mio è un normalissimo tostapane, e funziona benissimo”
“dici
così solo perché non hai provato il mio!”
Dillo.
“…”
“davvero, credimi. Provalo e mi saprai dire”
“da
come ne parli comincio a pensare che il tuo fantomatico tostapane abbia i
superpoteri”
Dillo,
cazzo. Dì qualcosa!
Ma non ti nascondere.
“lo
vedrai. Io li so scegliere, i tostapane”
Silenzio.
Il
tuo cercare di apparire normale e puerile, lo sai?
So
che pensi a qualcosa. So che sta per finire tutto, lo sento.
“mi
ami?”
Pausa.
“certo”
“certo…
dai tutto per scontato, tu”
“se non fosse scontato adesso non saremmo qui”
Già.
Il
fatto è che a volte vorrei che tu me lo dicessi, così, solo perché c’è chi ha
bisogno di sentirselo dire.
Io
ne ho bisogno.
Ma forse pretendo troppo.
Da
te, da voi, da questo cazzo di mondo che ci obbliga a
starcene chiusi qui, che ti potrebbe portare via. Che
forse ti ha già portato via.
Questo
mondo che ci fa vergognare, che ti fa vergognare.
Che ci fa star male e ci fa sentire colpevoli.
Che ci vuole con la maschera. Una bella maschera
bianca, magari di plastica.
Ma forse non dovrei dire “mondo”. No… non mi sono mai
piaciute le generalizzazioni.
Dovrei
dire “nostro mondo”. Si. E’ il nostro, stranamente, che ci è
ostile.
O forse no.
Forse
non lo sarebbe, ma non lo sapremo mai, perché tu hai paura di affrontarlo.
Una
paura matta.
Ecco.
Ti sto accusando di nuovo.
E mentre io penso e ripenso, e penso ancora, tu te ne stai
fermo, silenzioso, maledettamente nervoso. Ma fai
finta di niente.
“vuoi dirmi cos’hai?”
“niente”
Torni
a leggere il tuo libro. O fingi di leggerlo, dato che
da venti minuti sei fermo a pagina quattro.
“ok”
“e adesso non fare l’incazzato. Ti ho detto che non ho
niente”
“l’incazzato?
L’incazzato?? Se non ti credo sono paranoico, se
chiudo la discussione sono incazzato… ma cosa vuoi che dica?”
Certe
volte sei propri un bambino.
Torni
a fissare il libro senza vederlo, di nuovo. Nervoso. Un bambino.
Tiro
un profondo respiro e mi massaggio le tempie.
“senti,
voglio solo sapere cos’hai. Nient’altro. Ma se non vuoi dirmelo fa lo stesso”
Scagli
il libro contro il comodino e ti siedi sul bordo del
letto dandomi le spalle.
“è
possibile che non ti vada mai bene nulla? E’ possibile? Volevi trascorrere il
natale insieme a me, e ho prenotato una baita in montagna,
volevi conoscere i miei colleghi d’ufficio e te li ho presentati, e adesso
siamo qui. Cosa vuoi ancora? Cosa??”
Tutto
questo è ridicolo.
Tu
sei ridicolo.
Ma mi aspettavo uno sfogo del genere, davvero. Sei
prevedibile.
“va
bene, io vado”
Allungo
la mano per prendere la giacca ma mi blocchi il
braccio.
“no,
scusa… cioè… non volevo”
Si,
certo.
Comodo.
E’
facile piantare un pugnale nel petto di qualcuno, pisciargli sulla testa e poi
dire “non volevo”.
Veramente
comodo.
“si,
certo”
Cerco
di divincolarmi ma tu stringi la presa.
“siediti.
Ti prego”
Obbedisco,
e tu finalmente mi molli il braccio.
“senti…”
Ti
volti e inizi a scrutare il muro di fronte a te, come a cercare di leggere fra
quelle crepe le parole che non riesci a trovare.
Stai
per piantarmi, ma io non sono stupito, né costernato, e, inaspettatamente,
nemmeno ferito.
Lo
sapevo, e da molto anche. Diciamo che ho avuto modo di metabolizzare la cosa.
Probabilmente
quando uscirò da questa stanza mi butterò da un ponte,
o mi taglierò le vene dei polsi, chi lo sa, ma al momento non ho nessuna
reazione.
E’
buffo pensare che tu ti stia affannando a cercare le parole per dirmi qualcosa
che già so.
Potrei
risparmiarti la fatica e dirti che ho già capito tutto. Potrei dirtelo e
andarmene, rendendoti le cose molto più facili, ma
penso di meritarmi lo sfizio di vederti in crisi e a disagio mentre mi strappi
gli organi interni e li getti in un cassonetto.
Voglio
concedermi almeno questa soddisfazione.
“da
quanto stiamo insieme?”
Ottimo.
Il più classico nonché banale degli approcci. Mi sarei
aspettato qualcosa di più originale da te veramente, ma tant’è…
da quattro anni stiamo insieme, da quattro. Vuoi che non lo
ricordi? Da quattro, da quattro stramaledetti anni ho avuto una sola ed unica
ragione di vita, e vuoi che non lo sappia?
Neanche
ti rispondo, guarda. Preferisco tacere.
“bè,
da tanti…”
Hai nostalgia
dell’Eden, forse?
Vuoi gettare Eva da un
dirupo e cancellare i tuoi peccati con una spugna?
Vuoi tornare nel tuo
bel giardino fiorito?
Chiederai scusa al tuo
Dio e tornerai a pascolare con le altre candide pecore?
Vuoi ficcarti due dita
in gola e vomitare la mela?
Fallo.
“sai
meglio di me cosa sono stati questi quattro anni, lo sai”
Si, lo so. MOLTO meglio di te.
“lo
sai, ma… io… lo sai”
Ti
ho già detto che lo so.
“io…
lasciamo stare”
Oh
no, non finisce così. Non puoi rimangiarti tutto.
Ormai hai rimesso un
piede nel giardino, non voltarti indietro.
“parla,
ormai il grosso è fatto”
“cosa?”
“parla,
e fai in fretta. Ti manca solo la frase conclusiva”
Bene.
Hai capito che ho capito. L’ultimo sforzo ed è fatta.
Tornerai ai tuoi prati
verdi.
“senti,
non credere che per me sia facile! Cazzo, non rendermile cose più difficiili!”
Pugnalata. Un’altra.
Un’altra ancora. Sangue a fiumi.
“già.
In fondo sai com’è… per me sono facili…”
Ti
passi una mano nei capelli. Odio quando lo fai.
“non volevo dire questo”
“già”
Ti
alzi e vai verso la finestra. Ho intravisto una lacrima cadere.
“io…
non posso più”
Era
ora.
Colpo di grazia.
“si, lo so”
Torna nel giardino, in
fretta.
Questo
luogo non è per te, non più. E’ quello il tuo posto.
Una candida e pulita
prigione dorata.
Adesso
stai piangendo e io non so cosa dirti.
Pensavo
che sarei stato io a piangere, che questo ruolo spettasse a me, ma evidentemente
mi sbagliavo.
Io
ero semplicemente più preparato.
Tu
hai nascosto la testa sotto la sabbia per troppo tempo.
Con
i tuoi cari, con me, con te stesso.
Ora
l’hai tirata fuori, e il sole ti fa male agli occhi.
Ma è così che dev’essere.
Le
prigioni dorate hanno un prezzo, non sono come i
motel.
Quelli
possono permetterseli tutti.
Prendo
la mia giacca ed esco dalla stanza.
Chiudo
la porta alle mie spalle.
Torno
nel limbo.
FINE