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Autore: SAranel    24/10/2013    4 recensioni
John è vicino, eppure è distante. Con lui, vivere è la cosa più naturale del mondo.
John è quello che a Sherlock serviva. John che è una sicurezza e allo stesso tempo un enigma, un'ancora a cui aggrapparsi e un macigno con cui sprofondare.
John, che ama un uomo di carta e sangue.
"Non so se sarei tornato qui ogni sera, se non fosse stato per lui. Forse significa sminuirlo, ma guardare lui è come fissare lo sguardo su uno spettacolo senza fine, su uno di quei film che non comprendi ma che ti lasciano dentro qualcosa, compresa la voglia di tornare a sederti su vecchie poltroncine che puzzano di popcorn stantio per rivederlo, per cercare di scorgere nuovi particolari, per tentare di comprendere quello che il giorno prima ti è sfuggito. Per cercare di capire perché ti piaccia, in fin dei conti, se il significato ti è completamente sfuggito."[...]
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Gli occhi bruciano, come se qualcuno mi avesse lanciato in faccia tizzoni ardenti di una brace.
Mi sono trascinato fin qui completamente alla cieca, forte di quell’istinto su cui oramai faccio totale affidamento, ormai soggetto all’opprimente vertigine che ha decretato il mio ingresso in quella fase della dipendenza da cui difficilmente troverò via di scampo. La ferita sul labbro brucia, ancor più quando porto la lingua a raccogliere il flusso di sangue scuro, suggendolo fingendo che sia acqua fredda e ghiaccio gelido, cercando di figurarmi, nella mente, un sapore del tutto diverso da quello amarognolo e metallico che è così forte da farmi credere di aver ingoiato candeggina.
La mano tocca la superficie familiare di un muro di mattoni sbeccati, che offre gradito sostegno alle mie gambe martoriate dai colpi di bastone e alle mie braccia, costellate di lividi violacei e ferite grondandi goccioline di sangue che si mescolano, spiccando vistosamente, alle più chiare lentiggini.
Un ginocchio cede, andando a cozzare violentemente contro il suolo disseminato di pietrisco aguzzo, provocandomi un dolore sordo che m’impedisce persino di urlare per quanto è forte, insopportabile, acuto. Fa così tanto male che, a un certo punto, il mio corpo sembra abituarsi alla sensazione d’indicibile sofferenza, contemplando l’ipotesi di restare in questa perenne stasi, di accettare questo dolore come una condizione ormai inevitabile, qualcosa con cui, volente o nolente, mi toccherà imparare a convivere.
Quando crollo a terra, con i muscoli ormai incapaci di sorreggere anche solo parzialmente il mio irrisorio peso, il dolore, nuovo e in qualche modo ben accetto perché tale, mi spinge finalmente a spalancare gli occhi sul buio della piazza.
Ancora non mi volto, ormai certo di quel che vedrò e colmo di vergogna nel mostrarmi a lui, a quell’uomo per cui sono soltanto qualcuno di tanti e nulla più, prostrato da un dolore su cui non posso impormi e che non riesco in alcun modo a combattere.
Mi rendo conto, ora che il dolore e il sollievo hanno raggiunto un’insperata tregua, di aver probabilmente acquisito le fattezze dell’uomo di John, in un certo qual modo. Con la camicia ridotta a brandelli che chissà come resta ancora aggrappata al mio torace e il viso ridotto a un indefinibile pasticcio di sangue e sudore, difficilmente John riuscirebbe a distinguermi da lui, se mi vedesse. Mi sento come il giovane garzone di bottega di un rinomato artista, divenuto ormai soggetto fisso di ogni opera del suo maestro. Immagino di star seduto sul mio piedistallo di legno e gesso, osservando la figura austera e carismatica del padrone intenta a scrutarmi in ogni minimo particolare, guardandolo cogliere ogni tonalità dei miei occhi, ogni insignificante sfumatura di rosso nelle mie guance, ogni piccola cresta di muscoli nelle mie braccia esili di uomo malato.
Riesco quasi a vederlo, trovando sollievo nel fissare la luce flebile dell’insegna di un pub chiuso, mentre dolcemente m’invita ad avvicinarmi, così da poter riprodurre le minuscole fossette che ho ai bordi delle labbra e le impercettibili, per chiunque tranne lui, efelidi sulla mia fronte spaziosa.
E’ esattamente così che mi sento adesso, senza alcun dubbio: il pupillo di un vissuto artista, ritenuto inaspettatamente degno di diventare il protagonista della sua opera più bella.
Tenere lo sguardo fisso su qualcosa diventa improvvisamente difficile. La testa comincia a girare, non so se a causa dei colpi ricevuti o della completa astinenza di questa sera, fatto sta che le palpebre diventano pesanti e le membra rigide, pesanti come piombo, tanto da rendermi impossibile sollevarle più di qualche spanna. Il panorama intorno a me comincia a perdere gradualmente i suoi contorni, sfumando pian piano in una nuvola di vapore così fitta da non permettermi di guardare al di là del mio naso. Dovrei reagire, prendere il mio cellulare dalla tasca e chiamare qualcuno, forse Mycroft, forse Lestrade, forse non so chi perché non ho nessun altro. Dovrei sollevarmi, magari bussare a una delle porte perennemente sbarrate qui intorno, ma soltanto pensare di sottoporre il mio braccio allo sforzo di afferrare il telefono nella tasca, per non parlare del tentare di compiere anche solo qualche passo, mi sembra qualcosa di utopico e assolutamente folle. Ingoio un grumo di saliva che graffia le pareti asciutte della mia gola come un cumulo di sabbia e paglia, e sento, non potendo guardare, il colore scomparire dal mio viso riportandolo al consueto pallore. Non trovo più calore nemmeno nei rivoli di sudore che scivolano lungo la mia fronte, congelati in minuscole perle sulle mie tempie.
Potrebbe tranquillamente essere la fine, per quanto mi riguarda. Non lo so con certezza, e non sono neanche sicuro di volerlo sapere. La vista s’oscura del tutto, come la luna durante un’eclissi, e io chiudo gli occhi.
Non so se li riaprirò.
Spero che John non stia guardando.
 
 
Tasche più vuote di ogni altro giorno. La voglia, per sfortuna, non segue l’incostante equilibrio delle mie finanze.
Il sacchetto rubato è un macigno nelle mie tasche, pesante come se pieno di sassi, probabilmente reso più grave dal latente senso di colpa che mi assale, mentre corro senza una destinazione lungo la strada poco illuminata; quello che ho compiuto è un gesto a me estraneo e, sebbene non sia di certo il mio primo
piccolo crimine, mi sembra in qualche modo più imperdonabile di tutti gli altri.
“Lo sai che non si ruba Sherlock?” la mamma mi aveva detto, un’era fa. “Non c’è posto in Paradiso, per i ladri!”
Non lo faccio per il Paradiso. La colpa, comunque, rimane, ma non posso fare niente per mettervi fine. Le mie gambe si muovono di loro spontanea volontà, ma non reggono per più di una ventina di metri.
“Dove cazzo credevi di andare?”
Il primo pugno arriva inaspettato e mi costringe a terra, facendomi sbattere la testa e sanguinare il naso. L’ultima cosa che ricordo è una mano che fruga nella mia tasca.

 
 
 
*
 
 
 
“Silenzio.”
E’ una voce dal tono paterno e allo stesso tempo colma di rimprovero, quella che sento appena metto di nuovo piede, inaspettatamente, nel mondo dei vivi. E’ accompagnata da un tocco che è delicato e allo stesso tempo troppo brusco, quasi la mano sconosciuta non sia più abituata ad aver a che fare con qualcosa di vivo, reattivo, capace di provare sensazioni.
“Silenzio” la stessa voce calma, addolcita da una nota di stucchevole compassione, si premura di ripetermi.
Non so se avrei aperto gli occhi, se fossi riuscito ad abbinare a questa voce il volto del suo proprietario. Penso che sarei rimasto in uno stato di perenne sonno comatoso, in attesa, tormentato dall’indecisione di mostrarmi a lui o persistere nella mia condizione di codardo.
Io non ho parlato, ma forse non è alle parole che si sta riferendo. Un gemito di dolore represso, attutito dalla stoffa dei suoi calzoni, lo spinge a concedermi una leggera carezza sulla fronte, forse mirata a spostare un ciuffo di capelli dal mio volto. Il suo gesto mi avvisa che è esattamente a questi piccoli versi spontanei che mi sta intimando di metter fine.
La realizzazione che John sappia della mia esistenza, che abbia effettivamente avuto modo di constatare che esisto, sono corporeo, vivo e cosciente del mio posto nel mondo, non mi fa l’effetto che ho sempre creduto mi avrebbe fatto. E’ come se improvvisamente io sia diventato un altro Sherlock, rannicchiato accanto a quel che ero, e stia osservando la scena come un’entità esterna, un gemello invisibile chiamato a sorvegliare il fratello che, al contrario suo, è stato scelto per vivere una vita reale.
Sono confuso, ancora afflitto da una parziale cecità, ma mi basta aver intravisto il viso di John, aver intuito la sua presenza e il suo calore mescolato al mio, per non aver bisogno di nient’altro.
Di nuovo la sensazione di assoluta sicurezza mi avvolge, donandomi un tepore simile a quello di un fuoco caldo in un gelido inverno inglese. Mentre lui armeggia con qualcosa attorno alle mie ferite, tamponandole con dolcezza o delineandone i contorni con contrapposta indelicatezza, mi chiedo cosa sia accaduto, cosa sia successo, quale infinitesimale tassello sia stato brutalmente spostato nell’immenso mosaico dell’Universo affinché questo potesse accadere. Sono tentato di riaprire gli occhi, come se la vista del suo volto potesse effettivamente soddisfare la mia ingordigia d’informazioni. Anche la crisi sembra placarsi sotto l’effetto curativo delle mani piccole ma abili di John, e il laccio infuocato che stringe le mie viscere pare allentarsi, tramutandosi in una spirale di ghiaccio e spingendo il mio corpo inerte e pesante a riappropriarsi della vita, lasciando scorrere il sangue nelle vene danneggiate, lo stesso sangue sporco che oggi non uccide ma rinvigorisce.
Non riesco nemmeno a guardarlo o a parlare, intento a immaginarlo, come ogni volta, nelle fattezze del mio guardiano, del mio inconsapevole salvatore, di colui che m’impedisce di soccombere alla morte con i suoi continui enigmi. Incute timore e sicurezza, sentimenti impossibili da scindere in sua presenza, come una figura ultraterrena, simile all’angelo custode della tua infanzia a cui hai fatto appello durante tutta la tua vita senza mai realmente vederlo. E toccarlo, sapere che lui sa che tu ci sei, è un dono, l’inquantificabile ricompensa per la tua fede incrollabile.
“John” finalmente dico, azzardando, osando, accettando per la prima volta di correre il rischio.
Sarebbe sciocco raccontargli tutto? Sarebbe tanto sbagliato dirgli, con schiettezza e sincerità, quel che ho sempre provato? Probabilmente, in preda alle prime avvisaglie di follia, capirebbe. Sono certo che non sarebbe in grado di rispondere in maniera rude, dandomi del pazzo quando lui è il primo a esserlo, sentendomi affermare ancora una volta cosa lui rappresenti per me.
“Lo sapevo, sai?” improvvisamente John distrugge, come una palla demolitrice che sfonda una finestra di cristallo, ogni mio tentativo di formulare il resto del pensiero. “Ero certo che saresti venuto.”
Forse è tutto quello che mi serve sapere o forse non è nulla, perché potrebbe vedere sul mio viso le mie reali fattezze o quelle diverse e antiche di un’allucinazione. La prima ipotesi mi spaventa più della seconda, forse a causa della mia paura, questa volta indotta dalla merda chimica di cui sono ormai assuefatto, che possa aver disgusto di me e di quello che sono. Non me n’è mai fregato niente di essere additato, definito con termini esageratamente dispregiativi alla stregua di un feroce assassino, ma tutto un tratto m’importa di lui, m’importa di quel che pensa, o non pensa, riguardo me e le mie abitudini. Improvvisamente, mi rendo conto del fatto che il mio custode silenzioso possa essere effettivamente un uomo dotato di una propria coscienza, non solo un guscio inanimato alla mercé dei miei desideri.
Non so se potrei smettere per lui. Non so se potrei smettere per chiunque si mostrasse abbastanza interessato a me da implorarmi di provarci.
Ho bisogno che parli ancora, che mi dica di più, che mi porga un altro tassello del puzzle così da delinearne, in mancanza di altro, almeno il contorno. La sua voce torna a farsi sentire ed è leggermente più profonda, palesemente forzata nella sua nota troppo grave. Appare come un ragazzino sulla soglia dell’adolescenza, che in compagnia di ragazzi più grandi tenta di dare una sbirciata a quello che sarà il suo futuro, assimilandolo a piccoli bocconi, anticipando quel che diventerà provando a mostrarsi più adulto di quel che realmente è.
“Ho sempre pensato che in queste condizioni non saresti andato lontano” mi rimprovera, e il tono s’intensifica, “l’ultima volta ho quasi temuto che non saresti più tornato.”
E’ un’assoluta certezza quella rimarcata dalle sue parole, un’affermazione decisa che non sento mia e che mi spiazza. La possibilità che si riferisca alla notte scorsa, quella passata in compagnia di Lestrade, mi appare come una flebile speranza piuttosto che come una solida sicurezza.
“Perdonami” mi scopro a esclamare, prendendo le parti di me stesso e di un altro allo stesso tempo, come per esser certo che lui si rivolga a me comunque, in ogni caso, “non era mia intenzione.”
Quel che ho detto non ha senso e sono il primo a riconoscerlo. La presa sul mio braccio s’allenta, dopo che una benda di fortuna fa la sua comparsa attorno a una delle ferite più profonde. Non risponde. Inaspettatamente, questo riaccende le mie speranze. Forse non tutto e perduto, mi dico, forse è sempre stato qui per me e per nessun’altro.
Dottore, una voce nella mia testa suggerisce. Avrei dovuto capirlo subito.
Forse l’uomo dei disegni è solo qualcuno di un passato lontano, e in questo momento io sono soltanto io, il compagno di notti insonni, quello che forse si è sempre divertito a veder crollare addormentato contro il muro di mattoni.
“Ho fatto come mi hai detto” la voce torna alla sua naturale sfumatura, quella leggermente cantilenante e tendente a una dolcezza esasperata. “Come facevamo da bambini. Ho riempito il bianco con l’ultima immagine di te che ricordavo.”
Questa frase non ha alcun senso logico, per me. Mi lascia stranito, spiazzato. Annulla in un secondo ogni traccia della mia proverbiale intelligenza per far spazio a un vuoto cosmico, incolmabile, nero come la corteccia di un albero arso. Accenna a ricordi non miei, che vorrei lo fossero con tutto me stesso.
“Quando lasciavi la città per l’estate mi dicevi di pensarti, di riempire il mio quaderno con immagini di te in quei pantaloni blu che odiavi, quelli che tua madre ti costringeva a indossare per il viaggio” John arriva, inconsapevolmente, a fornirmi la risposta agognata, “dicevi che in questa maniera avrei fatto sì che il tempo passasse più velocemente. Che le distanze tra noi si restringessero sempre di più.”
Non ho molti ricordi della mia infanzia. Solo qualcuno legato a mia madre, fin troppi della scuola, nessuno riguardo amici o presunti tali. Ho la conferma che non sono io, l’uomo di cui racconta. Mi sorprendo di essere ancora capace di soffrire, quando quasi ogni giorno tento in ogni maniera di anestetizzare qualunque funzione fisica possa ricordarmi che sono vivo oltre lo stretto necessario. Non capisco perché il cuore mi faccia tanto male, in questo momento, e perché io stia per porre una domanda cui non voglio davvero conoscere la risposta.
“John” esclamo, sentendo estranea la mia stessa voce, “ricordi il mio nome?”
Tutto intorno a me sembra fermarsi, dall’impercettibile pulviscolo trasparente che svolazza intorno ai nostri volti, trasportato dalla brezza leggera, a qualunque cosa in questa piazza abbia mantenuto una parvenza di vita fino a questo preciso momento. Anche noi due, immobili, non siamo dissimili da due vecchi manichini esposti nella vetrina di un negozio abbandonato. L’espressione di John si fa grave, cupa, indecifrabile: pare confuso, sinceramente stranito da ciò che gli ho appena chiesto.
“Sciocco” esclama, con voce rotta da un sentimento che non riconosco, “Stupido sciocco, è il tuo nome.”
Non è la risposta che mi sarei aspettato e, in fin dei conti, non credo di poterla ritenere una vera e propria risposta. E’ un ulteriore punto interrogativo nella mia vita, come se già non ne avessi abbastanza, un tassello in più di un puzzle che ha già troppi pezzi in eccesso.
Non presta più attenzione a me, concentrato nell’occuparsi della ferita che ho in fronte, tamponandola con un panno bagnato e donando refrigerio al mio viso adesso sudato e quasi in fiamme.
Qualcosa vien fuori dalle sue labbra, in un sussurro basso quanto un gemito.
"I'm leaving, Captain, I must go, there's blood upon your hand, but tell me, Captain, if you know of a decent place to stand"5 canticchia, come incapace di percepire la tensione tra noi e di leggere sul mio viso la voglia di sputargli in faccia, scaricando su di lui una colpa non sua, la mia delusione, il mio astio, il mio risentimento per aver troncato con due sole parole quel qualcosa che credevo esistere tra di noi. Qualcosa di vano, inesistente, totalmente basato sulle convinzioni di un tossico senza nulla da perdere che cerca una ragione della propria esistenza in un’onirica allucinazione.
“Non smettevi mai di cantarla, al campo” poi aggiunge, bloccando sul nascere una nuova cantilenante accozzaglia di parole, “non l’ho dimenticata.”
Ricordo un’ipotesi formulata su di lui un’era fa, quando avevo presunto che avesse un passato militare o che, comunque, avesse frequentato quel determinato ambiente abbastanza a lungo. La postura, il taglio di capelli, persino il modo in cui impugnava la matita, improprio per un artista ma assai consono a un uomo avvezzo all’uso di armi da fuoco, avevano più volte sollevato in me un dubbio. Adesso, seppure John non abbia detto nulla che possa confermarlo, la mia supposizione appare improvvisamente più verosimile.
Sembra perso in un vortice di pensieri che non riesco in alcun modo a decifrare, nemmeno concentrandomi, come posso, sulla fronte leggermente corrugata e sui suoi occhi fissi su di me. Mormora qualcosa d’inudibile e ho come la sensazione, in cuor mio, che stia ripercorrendo mentalmente ogni nota della sua canzone, riportandone alla mente le parole e i ricordi legati a esse.
“Sono felice che tu non l’abbia fatto” mi costringo a dire, come un attore trascinato a forza su un palco non suo che è costretto a improvvisare, di fronte a un vasto pubblico che non attende altro che la sua battuta, “ero certo che te ne saresti ricordato.”
E’ quello che avrebbe voluto sentirsi dire. Non ho bisogno di avere un cuore rodato per capirlo.
Lui infatti sorride e gli occhi s’inumidiscono, avvolti da una patina di lacrime che forse non scorreranno. Rimarranno lì, senza scendere lungo le guance né tornare indietro, per rendere quanto sta accadendo più reale, quanto di più lontano da un’allucinazione esista al mondo.
E il modo in cui sorride, in cui continua a dar corda alle mie parole come se inconsapevolmente gli stessi dicendo davvero quel che vuole sentire, come se i miei tentativi di sembrare qualcuno che non sono si stessero rivelando credibili oltre ogni previsione, mi lascia interdetto, impaurito, insicuro più di prima.
“Anche io” lui mi dice, allargando il suo sorriso e permettendo a un’unica lacrima perlacea di azzardarsi appena al di là delle sue ciglia, “perché l’ultima volta che ti ho visto, tu non mi hai sentito.”
E’ una folgorazione, improvvisa come il rombo del tuono che segue il lampo, come quelle che ti colgono di sorpresa durante una giornata fino a poco prima serena, trasformando il cielo in una cupola grigia disseminata di nembi scuri e quasi luminescenti nell’atmosfera uggiosa e cupa. Prima che possa parlare, lui mi precede.
“Mi hanno dato una tua foto, dopo la tua partenza. C’era l’intera divisione, sai? La tua figura, però, spiccava tra tutte” mi spiega, con il tono cadenzato del buon oratore. “Eri coperto di sangue, riverso a terra. E’ una tua abitudine, abbastanza fastidiosa. Ho chiesto a Bill quando sarei potuto venire a trovarti, ma lui non ha risposto.”
E’ la storia di una lenta e dolorosa ascesa alla pazzia, quella che sto per ascoltare dalle labbra di chi ha vissuto tutto quanto sulla propria pelle. E’ la storia di un uomo che incontri per strada e neppure noti, e che quando lo fai ti appare simile a mille altri. E’ nel trascorrere inesorabile dei suoi giorni che mi sta coinvolgendo, rendendomi del tutto simile a uno di quegli uomini che si fermano a guardarlo veramente per la prima volta, sorpresi nel constatare che quel fantasma possieda fattezze particolari, mai osservate su altro viso.
“Così gli ho detto che saresti tornato, che ti avrei dato dello stronzo per esserti impelagato in qualcosa di troppo impegnativo per te, e che poi avrei fatto pressione sui piani alti affinché ti rispedissero a casa” mi spiega, e un lieve tono di rimprovero scalfisce ogni parola, arrotandone i contorni. “Poi a casa ci sei tornato e sei scomparso.”
Mi imprigiona in una gabbia dalle sbarre spesse e per nulla distanziate tra loro: mi pone in una posizione in cui non posso far altro che mentire, per assicurarmi la libertà.
“Perdonami” è l’unico modo che trovo, ancora una volta, per riempire il gravoso silenzio, appropriandomi di un diritto non mio.
John scuote la testa, ed è combattuto, per la prima volta da quando tutto questo ha avuto inizio. Mi lascia andare, finalmente, lasciandomi posare la testa contro la sua spalla. E’ un’intimità che mi spaventa ma da cui non voglio sottrarmi, vittima della morbosa ma umana attrazione per tutto quello che ci incute timore.
“Così sono venuto in questo posto, perché sapevo che è qui che ti avrei ritrovato. Questo te lo ricordi?” indica il telaio arrugginito che troneggia, nella sua maestosa decadenza, alle sue spalle. “E’ quello dove ci siamo conosciuti. Sin dal primo giorno ho provato a chiamarti, come quando eravamo bambini. All’inizio è stato imbarazzante, poi ho smesso di pensarci. E adesso, sei arrivato.”
E’ impossibile pensare di poter udire dalla vittima di un orrendo crimine dettagli su come questo sia stato compiuto, ma John riesce a fornirmi ogni particolare con una naturalezza che mi spiazza e sconvolge.
Finalmente ho compreso anche quale sia stata la mia figura, il mio ruolo, in questa recita grottesca e surreale.
Assorto in una nebulosa trance, seguito di chissà quale delle mie dipendenze, ho volontariamente calato me stesso nel ruolo di un uomo che non conosco ma che, inconsciamente, mi sono ritrovato a voler diventare a tutti i costi. Ho rubato per necessità, ma allo stesso tempo sento di averlo fatto affinché la mia trasformazione in lui potesse avere inizio, incapace di fare completo affidamento su me stesso. Ho visto nel volto per niente bello dell’uomo che ho derubato l’unica persona in grado di potermi veramente aiutare.
Ho fatto di lui, che ormai conosco meglio di quanto conosca un mio consanguineo, un artista, designato a mutare il mio aspetto fino a rendermi quantomeno simile all’oggetto del desiderio di John.
Sono una volgare copia, meno dettagliata dell’originale, un falso venuto fuori dalle mani inesperte di un imbrattatele di ultim’ordine. Eppure, non sento di aver sbagliato nel fare quello che ho fatto: il vero modo di comprendere a fondo un equazione, è immedesimarsi in una delle variabili.
Una mano di John si sposta, senza che possa accorgermene, sulla mia guancia, accarezzandola con delicatezza estrema, quasi io sia fatto di cristallo. Il suo viso è fin troppo vicino al mio, tanto che non distinguo più il mio dal suo respiro, e per un attimo non so se aspettarmi un bacio o un’affettuosa confidenza, celata in un sussurro appena udibile. Ho timore di entrambe le possibilità, poiché non ho un reale desiderio del primo e  nemmeno abbastanza controllo di me stesso per far sì che il suo segreto possa rimanere tale. Mi bastano dieci secondi appena, forse anche meno, per rendermi conto che non è più dei miei desideri che devo curarmi, ma di quelli dell’uomo che sono diventato. Se John sentirà il bisogno delle mie labbra, se il mio guardiano esprimerà la volontà di possedere qualcosa mai elargito a nessuno, io sarò pronto a concederglielo.
E’ la mia ossessione, quella che mi ha portato ad abbandonare il vecchio me stesso per uno nuovo, e non ho intenzione di provare a ritrovare una sanità mentale e fisica di cui non ho quasi più ricordo. Mi serve John, ho bisogno della sua capacità di focalizzare la mia attenzione su di sé per non crollare, per non tornare alla completa apatia di un passato nemmeno troppo lontano, quando tirare avanti giorno dopo giorno era diventato semplicemente una casualità, qualcosa fatto senza realmente accorgermene, un evento per nulla legato a una mia coraggiosa volontà.
La bocca di John chiede il permesso, o forse lo ritiene scontato, o forse fa entrambe le cose allo stesso momento: esita, poi si china di nuovo e si posa sulle mie labbra ferite, incurante del sapore ancora intenso del sangue, incurante di ciò che potrebbe accadergli, del dolore che io, nel mio estremo e imperdonabile egoismo, potrei star elargendogli senza che lui lo sappia.
Non mi sottraggo e non rispondo al bacio, restando fermo, immobile, uniformandomi ancora di più a quel che è il mio personaggio, privo di forze e completamente alla mercé delle amorevoli attenzioni dell’uomo che, per lui, ha perduto il senno.
Non so come assecondarlo, se non accarezzando la mano più vicina alla mia con quella che spero somigli a dolcezza, chiudendo gli occhi, incapace di distinguere bene i suoi occhi ormai troppo vicini. La testa gira, in un nebuloso circo di luci e spirali infuocate.
“Non devi fare niente” John poi esclama, con una tenerezza che rischia di mandare il mio cuore in pezzi, “riposa.”
Le sue mani s’insinuano nella mia camicia lacera ma solo per stringermi meglio a sé, per non frapporre tra l’uomo che ama, o chi si spaccia per lui, e la propria pelle un’inutile barriera. Mi attira contro il suo petto come se lasciarmi andare sia l’ultimo dei suoi pensieri, portando il mio ad aderire al suo, così vicino da poter sentire il profumo pungente del suo sudore invadermi le narici.
Rispondo, per nulla desideroso di mostrarmi ancora passivo al suo affetto, riparando come posso alla mia mancanza, imitando la danza delle sue labbra pur essendo ignaro dei passi e della musica che ad essi si accompagna. Lo abbraccio, facendo forza sulle mie braccia gracili impossibilitate a ricambiare il suo con una stretta ugualmente salda, rimediando come posso, cercando in ogni maniera di dirgli, a modo mio, che non voglio che tutto finisca.
Siamo più vicini, in un modo in cui non sono mai stato con nessuno. C’è intimità, affetto, rispetto, devozione, in una quantità tale da confondermi, da spingermi a chiedermi perché per John sia così facile mentre io mi ritrovo, oggi, a provare tutto questo per la prima volta.
Non c’è nulla di sessuale nel suo tocco, nonostante il modo in cui le sue mani scivolano sul mio petto possa essere definito intimo, nel significato più innocente del termine. Mi tratta come se io fossi qualcosa d’infinitamente prezioso, uno scrigno colmo dei più magnifici tesori, un crogiuolo di meraviglie fatto solo per essere ammirato e amato, sfiorato il meno possibile. C’è dolcezza in ogni suo movimento, quasi abbia paura che osando qualcosa di più io possa respingerlo, fuggendo via ancora senza più ritornare, questa volta. Mi accorgo di aver definito il mio guardiano un uomo che ha sempre reputato me, o l’uomo che si cela dentro di me, come il suo. E’ ed è stata una reciprocità buona, utile, necessaria perché entrambi arrivassimo fino a oggi, giorno del nostro ricongiungimento, vivi.
Il bacio s’interrompe, così come il contatto dei nostri corpi e quello delle sue mani sulle mie spalle, ed ecco tornare la visione di un John spaventato, timoroso di aver osato troppo, di essere stato troppo ingordo. Sembra non aver ben compreso l’entità del suo gesto, quasi abbia agito seguendo un’innato istinto piuttosto che la propria volontà, e adesso mi guarda intimorito, attendendo da un momento all’altro una mia veemente reazione. Non ne sarei mai capace, nemmeno appellandomi a tutta la forza che mi rimane.
Lui è sollevato dal persistere della mia espressione bonaria, leggermente curiosa, di certo sconvolta ma non così tanto da rappresentare una vera e propria preoccupazione. Gli occhi lucidi e attenti, intenti a scrutare il mio volto in ogni più trascurabile dettaglio, sono esatto riflesso dei miei, impegnati nello stesso minuzioso studio di ogni solco del suo viso. Prendo tempo, per non pensare a quel che inevitabilmente sta accadendo e che probabilmente non sono per nulla preparato ad affrontare. Lo guardo per salvarmi, pur consapevole di star consciamente fugando ogni suo dubbio, per qualche sciocco motivo convinto che, mostrandomi deciso e sicuro di me, il mio inganno passerà inosservato. Sembra un’altra persona, in un certo qual modo, come un uomo condannato a una perenne cecità che si ritrova, all’improvviso, miracolato dal dono di una vista perfetta: mi scruta come fosse la prima volta, come valutando un presunto errore commesso. Non voglio che mi scopra. Non voglio che veda Sherlock, dietro l’uomo che sono adesso. Mi accorgo in quest’esatto istante che sarei pronto, per John, a compiere sacrifici che mai sarei in grado di sopportare per chiunque altro.
Finalmente i suoi occhi si posano altrove, ed è un definitivo verdetto quello che sta elaborando nella sua mente, fissando il marciapiede spoglio sotto i nostri piedi. E’ un folle che sta venendo a patti con la sua essenza, con l’uomo che ha sempre creduto di essere e con quello che invece è davvero. E’ un uomo innamorato che, forse, sta redendosi conto di aver inseguito un fantasma per troppo tempo. Non voglio che lo faccia ed è un pensiero ingiusto, egoista, da parte mia: la sua pazzia è l’unica cosa che mi tiene al sicuro.
Ho paura che veda, perché è quello che sta per fare. E’ con la verità che sta per distruggere l’intera mia vita, già agli sgoccioli della propria esistenza a causa mia.
Sta per pormi una domanda, lo leggo sul suo viso e sulle sue labbra appena schiuse, come colte da un’improvvisa indecisione. Finalmente torna a guardarmi e il suo viso mi appare quello di un altro, di un uomo che non ho mai conosciuto: è incerto, in un certo qual modo combattuto tra quel che adesso vede e quel che invece vorrebbe vedere.
Non sono pratico di sentimenti, men che meno di quello che li domina sovrano. So che è d’amore, che vuol parlarmi, e io sono pronto e allo stesso tempo talmente spaventato da voler fuggir via senza voltarmi più indietro. Non lo faccio, però. Resisto, perché sono scappato troppe volte.
“Chi sei tu?” finalmente domanda, indeciso se mostrarsi duro o incoraggiante, incerto se lasciar prevalere ciò che lui sembra o quel che invece è. Mi sta mettendo alla prova, non ho bisogno di sentire oltre per comprenderlo.
Sembra ancora così pieno di speranza nel voler rifugiarsi in una fasulla ingenuità pur di non soffrire da farmi star male. E’ così corruttibile, o almeno lo è stato fino a poco fa, tanto da rendermi incredibilmente arduo il dovergli mentire. Eppure, è di certo quello che lui vorrebbe. Una menzogna, pur di non dover scoprire un’ineluttabile verità: una bugia a fin di bene, di quelle che ti rifilano da bambino facendole passare per opere buone, che nella vita adulta acquistano un valore quasi assoluto, per chi non vive di nient’altro che di queste. Mi hanno chiesto chi sono così tante volte da aver perso il conto. Ci sono state persone a cui ho detto la verità, altre a cui ho rifilato quel che avrebbero voluto sentire, altre a cui non ho nemmeno risposto. A te, John, non so cosa dire. All’unica persona cui vorrei dire la verità, non mi è concesso di farlo.
Mi sono ripromesso di tenere addosso la mia maschera fin quando sarà opportuno, venendo a patti con la possibilità di indossarla per sempre, se necessario. Ho accettato di mentire per il mio bene e per quello di John, ma fa male, un male inaspettato e più lancinante di quello causato da un pugno o da un colpo in pieno viso.
Non ho mai avuto un simile rimorso, nemmeno nei confronti di chi professava di tenere a me.
Verità e menzogna s’alternano davanti ai miei occhi come in un carosello di luci e ombre, annebbiandomi la vista e le idee, rendendo tutto più complicato di quanto già sia.
Voglio fidarmi di John, o confermarmi nel ruolo di complice nella farsa di cui lui stesso è creatore?
In fondo, sono fatto di carta e grafite e colore rosso e di nient’altro. Sono la personificazione di un sogno che ha voluto rendersi tangibile pur non avendone il diritto.
Questa notte, sono diventato un ladro. Sono certo che lo capirebbe, il mio John.
Eppure.
“Chi sei?” domanda ancora, e so che non ha intenzione di accettare ancora il mio silenzio come risposta.
E’ così facile, eppure complicato, e il cuore mi batte, più forte che durante una crisi insopportabile, così veloce da farmi dubitare che potrà mai rallentare.
Cosa mi aspetto da John? A cosa ho veramente dato inizio questa notte? Non so dirlo.
John mi guarda. Non riesco a ricambiare il suo sguardo ma mi costringo a parlare, a decidere, a scegliere. Non ho più tempo a mia disposizione, né qualcuno disposto a concedermene un po’ di più, anche soltanto lo stretto necessario.
E’ la resa dei conti. L’ultimo ritocco al ritratto.
Schiudo le labbra.
Prendo un respiro.
 
 
 
*






 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1 Bellissimo ritratto eseguito da Botticelli.

2 Beltane o Beltaine  è festa pagana gaelica che si celebra attorno al 1º maggio. "Bealtaine" è anche il nome del mese di maggio in irlandese ed è anche tradizionalmente il primo giorno di primavera in Irlanda. È il giorno situato a metà fra l'equinozio di primavera ed il solstizio estivo. (wiki)

3 Protagonista del romanzo breve ‘La Morte a Venezia’ di Thomas Mann.
 
4 ‘Lolita’ di V. Nabokov.
 
5 Citazione da The Captain, brano di Leonard Cohen.
  
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