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Autore: radioactive    26/10/2013    5 recensioni
CAP. 6 Il cigolio del legno si mischiava al battito del cuore del ragazzo tanto da confondergli le idee, non capiva più se il suo cuore era malandato come quelle travi o se l’Arena era viva quanto il suo cuore, aveva il terrore che ciò che lo teneva sospeso in aria crollasse sotto i suoi piedi.
Ma Ariel si bloccò di colpo, Lyosha avrebbe voluto chiederle che diamine stesse facendo, che erano inseguiti!. Ma lei non si muoveva, immobile, fissava ciò che solo in un secondo istante il fratello identificò come Sean, quello che li aveva derubati.
«Ciao, otto»
[...] Stavano per morire, stavano per morire!
CAP. 10 Caesar Flickerman trattava tutti i tributi come validi concorrenti, Lyosha invece, agli occhi del presentatore, era già morto.
| 72esimi Hunger Games ● Lyosha e Ariel Isaacs ● DISTRETTO 8 |
EDIT - testo in via di revisione e betaggio (01 capitoli su 14) + cambio grafica [in data 11/11/2013]
→ I capitoli 15, 16 e 17 sono degli SPINOFF di Die on the front page, just like the stars.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO 12

                 quando chiami un posto paradiso, digli pure addio.

 

 

 

Lyosha ed Ariel si erano abbeverati al torrente, decidendo poi di ritornare nella foresta sotto di loro – avevano incontrato troppi guai in mezzo a quella nebbia e, considerando che ormai conoscevano i segreti dell’arena, non era così invivibile quel caleidoscopio fatto di foglie e fiori.

Lo stomaco del più grande brontolava, così rumorosamente talvolta da farlo arrossire; Ariel non era da meno. Tuttavia sopportavano bene la fame, c’era stato un periodo in cui a casa arrivavano a fine mese senza più cibo e dovevano patire la fame, certo, ripensando alle leccornie di Capitol City di cui erano stati riempiti non era il modo migliore per sopravvivere alla furia di una pancia affamata, ma bastava non pensarci.

La giornata passò tra camminata e riposo, non si dirigevano in un posto specifico ma piuttosto si limitavano a seguire quei sentieri scavati naturalmente per terra che da qualche parte dovevano portare – ottimisticamente alla Cornucopia, ammesso che non ci fosse nessuno.

Verso il tramonto, i due si erano riparati in una rientranza nella roccia nascosta da alcune liane per riposare – le gambe di Lyosha tremavano dallo sforzo di mantenere sempre e comunque un passo abbastanza veloce, inoltre erano già deboli e scarne di loro, la stessa Ariel si era tolta gli scarponi per massaggiarsi i piedi gonfi e umidi, esattamente come quelli del fratello che, tra l’altro, aveva uno stivale praticamente a pezzi ancora dalla caduta nel fiume di qualche giorno addietro.

Non passò neanche mezz’ora che la piccola si addormentò con il volto appoggiato alla gamba del fratello, mettendosi le mani sotto le ascelle come per proteggersi il petto, in silenzio, Lyosha la guardava accarezzandole i capelli sporchi del sangue fuoruscito dalla ferita alla tempia.

Presto sarebbe morto, pensava, tra poco tocca a me. E più il pensiero di morire si faceva concreto assieme alla possibile vittoria di Ariel, più Lyosha credeva che fosse un traguardo impossibile da raggiungere, per uno come lui, che di buono sapeva solo cucire – e non era abbastanza per portare il pane a casa: aveva bisogno delle tessere. Sarebbe stato capace di uccidersi e lasciare Ariel da sola? Anche se ce l’avesse fatta, ad arrivare in finale, Capitol City avrebbe apprezzato il suo suicidio in diretta? Chi glielo garantiva che non avrebbero escogitato un modo per uccidere sua sorella prima che lui facesse la fatidica mossa?

Prima che riuscisse a porsi queste domande, la mano iniziò a prudergli e, guardandola, notò con orrore e allarme che ora anche le seconde falangi di ambo le dita erano diventate nerastre – inoltre non riusciva più a muoverle. Doveva prendere dei provvedimenti – non gli sarebbe piaciuto avere tutta la mano in quelle condizioni.

Chiuse la mano a pugno nel sentire Ariel svegliarsi, dopo qualche minuto erano già in cammino.

 

Camminava a passo svelto, brandendo la spada con maestria e tagliando i rami e le foglie che le sbarravano il cammino, con l’altra mano reggeva una bottiglia d’acqua ormai vuota che aveva intenzione di riempire con dell’acqua potabile – ricordava che fosse tutto velenoso, in quel posto.

Si ritrovò ben presto in una radura che aveva qualcosa di… magico, semplicemente perché sopra di lei vi era un letto di foglie che intrappolava al suo interno la luce, rendendola soffusa ma brillante, sui rami degli alberi più bassi alcuni passeri neri e blu erano appesi a testa in giù, gonfiando ritmicamente il petto ed emanando dei suoni simili a cinguettii. Più in alto, un altro uccello del piumaggio color terra apriva le ali lasciando muovere le lunghe piume bianche sul suo dorso – cantando anch’esso.

Ai suoi piedi, una terza variazione di quei uccellini saltellava di qua e di là, come se ballasse, le ali aperte a formare come una circonferenza attorno al suo busto, sembrava avesse la gonna.

Lexi dovette ammetterlo: era uno spettacolo davvero fantastico – era paradisiaco e in netto contrasto contro gli orrori dell’Arena che il suo cervello si sforzava di ignorare, come farebbe una Favorita, una vincitrice.

E in quel momento, davanti al suo naso un esemplare di quei uccelli neri dal dorso colorato e – particolare di cui non si era accorta prima – la coda biforcuta a formare due ricciolini iniziò a volare stando sospeso in aria, come un colibrì. Istintivamente, la ragazza allungò una mano e gli sfiorò il capo con il polpastrello, non avendo avuto reazioni contrarie dal volatile, percorse tutto il profilo dell’esemplare, arrivando alla coda e – sempre mossa dall’istinto – prendendogli i due ricciolini alla base.

A quel contatto, l’uccello gracchiò e il suo petto si gonfiò terribilmente, gli occhi sembravano quasi usciti dalle orbite, Lexi gli lasciò le penne ma, prima che riuscisse a fare un passò indietro, l’uccellino scoppiò in un’esplosione di piume e polvere che la ragazza si ritrovò ad inalare.

Poco dopo sentì la gola gonfiarsi, gli occhi bruciare e il viso prudere, cadde a terra, dapprima tossendo, poi ridendo fino ad alternare l’una all’altra. Gli uccelli rimasero fermi, in silenzio, per poi volare via quando Lexi si rialzò, lasciando a terra lo zaino e allontanandosi da quell’angolo di paradiso che di paradiso non aveva nulla, brandendo la sua spalla.

 

«Lyosha, che cos’è questo?» chiese Ariel, prendendogli la mancina e indicandogli il mignolo e l’anulare ormai violacei – in realtà, si era già aperta qualche ferita che aveva iniziato a sanguinare senza che lui se ne accorgesse.

Il ragazzo ritirò la mano, frustrato per la scoperta della sorella: non voleva che lei le vedesse, sapeva che, se le avesse notate come di fatto era successo, Ariel non avrebbe fatto altro che lamentarsi sul fatto che poteva essere grave, esattamente come faceva sua madre.

C’erano volte, al distretto otto, in cui si diffondevano delle terribili malattie che colpivano le mani e l’apparato respiratorio dei lavoratori in fabbrica, Capitol City era sempre in cerca di tessuti sfarzosi e le loro industrie non erano finalizzate solo alla produzione delle tute dei Pacificatori – quanto anche a fornire alla Capitale vestiti, forse non rifiniti totalmente, ma comunque pregiati. Ed era proprio quella ricerca per il nuovo che faceva sperimentare ai “cervelli” del distretto nuovi prodotti sui tessuti, rendendoli sì lussureggianti per i Capitolini, ma comunque non lavorabili a causa delle modifiche chimiche apportate alle stoffe. Allora le persone iniziavano a soffrire di mal di dita per poi scoprire che tendini e ossa si stavano corrodendo, oppure la pelle dei polpastrelli iniziava a cadere a pezzi – in alcuni casi addirittura il tessuto era stato imbevuto in qualche sostanza particolare che con il calore dei macchinari e del sovraffollamento dei magazzini evaporava, le persone lo inalavano e, a lungo termine, morivano.

Lyosha scosse la testa, cercando di dimenticare tutti i dolori e le disgrazie del suo distretto – tentava di ignorare anche le prediche di Ariel riguardo alle sue dita malate: non sarebbe riuscito a dare nessuna risposta, non tanto perché non poteva parlare, piuttosto perché non aveva idea del motivo di tale morbo.

Assieme al sole che tramontava, alla voce di Ariel che scemava stufa di cercare di cavar fuori qualche informazione dal fratello, scese dal cielo un contenitore di generose dimensioni color platino, il paracadute si impigliò tra i rami e il vaso fece scattare qualcosa tale per cui si scollegò dall’attrezzatura, cadendo per terra con un tonfo e aprendosi.

Era un aiuto dagli sponsor che fece comprendere al ragazzo la gravità della situazione. Raccolse il dono e con Ariel cercò un luogo dove ripararsi.

 

Ariel si strinse le ginocchia contro il petto, schiacciandosi contro la parete della piccola rientranza in cui si erano nascosti, «Lyosha…» chiamò flebilmente, senza riuscire a catturare l’attenzione del fratello.

Il maggiore guardava ciò che gli sponsor gli avevano mandato: un coltello simile a quello che usavano i macellai del distretto, qualcosa di vagamente simile a degli anelli e poi… un brivido gli percorse la schiena nel rivedere quegli oggetti. Inspirò ed espirò tre volte, chiudendo gli occhi, per poi ripetere quelle parole a mente e sillabarle con le labbra, come per prendere coscienza della loro concreta esistenza: ago e filo.

Non ci voleva un genio per capirlo: Capitol City voleva che lui si tagliasse le dita e che si cucisse da solo la ferita – erano a conoscenza della sua capacità nel cucito, così come erano a conoscenza del fatto che avrebbe fatto di tutto per rimanere con Ariel e portarla fino alla fine.

Con la mano le fece segno di uscire, la piccola ubbidì senza dire nulla: avevano già discusso di questo.

Quando la vide sparire dietro ad un albero, con un altro sospiro afferrò con la mano tremante gli anelli di mezzo centimetro di larghezza per poi metterli nel mignolo e nell’anulare, sentendo che si restringevano a dismisura fino a bloccargli il flusso sanguigno, quando iniziò a sentire le dita formicolanti, decise che era ora di procedere. Si fece forza, prendendo con la destra il machete mentre appoggiava le due dita su una pietra vicino alla parete rocciosa. Doveva tagliarsi le dita, dai moncherini avrebbe estratto della pelle sana e con quella, a mo’ di toppa, si sarebbe cucito la ferita.

Senza anestesia – la paura folle del dolore lo paralizzò seduta stante, non poteva farcela, sentiva di non potercela fare.

L’ultimo respiro prima di convincersi davvero della sua insufficiente forza d’anima e con un colpo secco brandì la lama, chiudendo gli occhi una volta che si fosse assicurato la traiettoria.

Il dolore lo avrebbe fatto urlare, ma si sentì solo il ferro della lama colpire la pietra e le due dita rotolare giù, cadendo tra rami, fango ed erba.

 

Ines infilzò il tridente a terra, sedendosi e appoggiando la schiena contro la propria arma, sospirando, «che stanchezza» esordì flebilmente, incrociando le braccia e scostandosi la lunga coda dalla schiena alla spalla, in modo che non le dessero fastidio: erano sporchi, non li aveva ancora lavati né aveva intenzione di tagliarseli perché fossero più pratici, voleva vincere e mostrare la sua chioma intatta.

Liv rimase in piedi, nonostante non lo dimostrasse i piedi le facevano un gran male e avrebbe volentieri tolto le scarpe e messi a bagno nell’acqua calda – come faceva dopo gli allenamenti al due. «Vado a cercare qualcosa, o qualcuno… sì» disse non molto convinta, sovrappensiero.

Non avendo avuto risposta o obbiezione dall’altra, imboccò un sentiero naturale tra due alberi, ritrovandosi in una brillante radura con una piccola cascata e un laghetto. Un sorriso le si dipinse sul volto – si tolse lo zaino dalle spalle, prese una bottiglia d’acqua e la svuotò, avvicinandosi poi alla riva per riempire la bottiglia di liquido fino a metà del contenitore, rimettendola poi nella sacca e ritornando dall’alleata.

«Sei tornata presto» constatò Ines, assonnata, il sole morente le illuminava i capelli di oro, facendogli sembrare rame caldo. Esisteva, il rame caldo? «Hai dell’acqua? Ho finito la mia scorta…» chiese poi, particolarmente disinteressata.

Era il momento che Liv aveva previsto, annuì un po’ troppo vigorosamente e si scrollò lo zaino di dosso, prendendo la bottiglia che aveva riempito poco prima.

Bevila. Pensò Liv, quasi come volesse ordinarglielo.

Bevila. Vide le labbra di Ines avvicinarsi al collo della bottiglia, l’acqua scorrere lungo la caraffa per poi sparire nella bocca di lei. Riuscì quasi a cogliere il movimento della sua gola nell’ingoiare il sorso.

E’ fatta. E quasi come se si fosse tolta un peso dalle spalle, si lasciò cadere seduta a terra, sospirando mentre Ines la guardava con aria interrogativa.

Tre minuti dopo, la ragazza del quattro morì tra tosse e vomito, mentre i suoi occhi si spegnevano fissi sull’immagine di Liv.

 

Un colpo di cannone risuonò nell’Arena e Ariel si svegliò di colpo: si era addormentata tra le lacrime nel pensare a quello che il fratello stava facendo all’interno di quella piccola grotta. Le sue dita.

Non riusciva a pensare ad altro, alle sue dita. Si stava tagliando le dita, se le stava cucendo. Sembrava quella storia dell’orrore che si raccontava nel distretto otto, di quelle donne che erano diventate delle bambole di pezza e ogni volta che qualcuno entrava nel loro magazzino, gli strappavano via la pelle per farci dei pupazzi come loro, o delle bandiere, delle coperte… ebbe un brivido che le scosse le spalle e si scoprì le guance nuovamente umide: piangeva di nuovo.

Si rese improvvisamente conto che a svegliarla era stato l’avviso della morte di un nuovo tributo, e dato le circostanze poteva essere benissimo Lyosha. Il panico prese possesso del suo corpo, si alzò scattante cadendo quasi in avanti e, scivolando sulla terra che non le sembrava essere mai stata così scivolosa in vita sua.

Nel buio della notte, cercava a tastoni il corpo del fratello, trovando il suo piede, poi la gamba, il busto e il viso. Era steso per terra ma non rispondeva al continuo toccare dell’atra – facendola impanicare.

«Ly… rispondimi» mormorò, consapevole che non le avrebbe mai detto nulla. Confidava nel movimento della mano, di un fischio, le bastava anche sentirlo respirare!

La pioggia iniziò a cadere nell’Arena, bagnando qualsiasi cosa si trovasse sotto di lei. Il freddo era aumentato di colpo e da qualche parte suonò un tuono, si girò verso l’entrata e vide un lampo, subito dopo ancora il brusio del temporale.

A sovrastare il rumore del nubifragio fu un altro colpo di cannone, e Ariel riprese a piangere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






«You call some place paradise, kiss it goodbye.»      

[EAGLES; “The Last Resort”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Alè :D

Allora, questo è il penultimo capitolo di Die on the front page, just like the stars. E ovviamente mi piange il cuore in una maniera terribile, tanto che – ribadisco quello che c’è dentro la mia listography – dopo il tredicesimo capitolo (quello conclusivo), ci sarà l’epilogo e poi tre “pagine rubate”, ovvero missing-moments pre/post/durante gli Hunger Games, devo ancora decidere bene. Il primo di questi MM sarà appunto l’intervista alla madre che non ho potuto/voluto inserire nella fan fiction.

Sempre a scopo informativo, vorrei avvisarvi che l’aiuto per Lyosha (ah, Lyosha!) è arrivato proprio dall’intervista della madre alquanto toccante che ha smosso qualcosa nei Capitolini – sì. Riguardo a questo non vi dico più nulla uvu

Insomma, altri due tributi sono morti eve e gli altri decederanno(…) tutti nel prossimo capitolo, lasciando solo un vincitore – eheh.

Ultima cosa e poi vi lascio

Il titolo del capitolo è la traduzione italiana della canzone a fine testo, ho voluto sottolineare l’aspetto paradisiaco dell’Arena proprio perché succedono un sacco di cose collegate a questa, nel capitolo che avete appena letto. E un po’ perché non mi veniva nulla da scrivere la sopra come titoletto, eheh.

L’ultimo capitolo, secondo le mie stime, verrebbe pubblicato giovedì/venerdì e l’epilogo (già scritto ) domenica sera o lunedì, comunque uno scarto abbastanza breve tra una cosa e l’altra perche mi piacerebbe che fosse una cosa abbastanza continua, insomma.

Come al solito, ringrazio chi segue/recensisce palesandosi o meno çvç)/ mi spronate sempre a continuare e non posso credere che sia quasi finita, ahahahah.

 

Alla prossima!

radioactive,

 

 

 

a n g o l o s p a m

            Sarò lì quando cadrai { Soprannaturale – LONG • yingsu }

         I’m frozen to the bones { Hunger Games – LONG – 73esima EdizioneRoel (D2) • yingsu }

         Blur { Hunger Games – LONG – Klaus & London (D6) • ivola }

   
 
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