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CAPITOLO 12 ▪
quando chiami un posto paradiso,
digli pure addio.
Lyosha ed
Ariel si erano abbeverati al torrente, decidendo poi di ritornare nella foresta
sotto di loro – avevano incontrato troppi guai in mezzo a quella nebbia e,
considerando che ormai conoscevano i segreti dell’arena, non era così
invivibile quel caleidoscopio fatto di foglie e fiori.
Lo stomaco del più grande brontolava, così
rumorosamente talvolta da farlo arrossire; Ariel non era da meno. Tuttavia
sopportavano bene la fame, c’era stato un periodo in cui a casa arrivavano a
fine mese senza più cibo e dovevano patire la fame, certo, ripensando alle
leccornie di Capitol City di cui erano stati riempiti
non era il modo migliore per sopravvivere alla furia di una pancia affamata, ma
bastava non pensarci.
La giornata passò tra camminata e riposo, non
si dirigevano in un posto specifico ma piuttosto si limitavano a seguire quei
sentieri scavati naturalmente per terra che da
qualche parte dovevano portare – ottimisticamente alla Cornucopia, ammesso
che non ci fosse nessuno.
Verso il tramonto, i due si erano riparati in
una rientranza nella roccia nascosta da alcune liane per riposare – le gambe di
Lyosha tremavano dallo sforzo di mantenere sempre e
comunque un passo abbastanza veloce, inoltre erano già deboli e scarne di loro,
la stessa Ariel si era tolta gli scarponi per massaggiarsi i piedi gonfi e
umidi, esattamente come quelli del fratello che, tra l’altro, aveva uno stivale
praticamente a pezzi ancora dalla caduta nel fiume di qualche giorno addietro.
Non passò neanche mezz’ora che la piccola si
addormentò con il volto appoggiato alla gamba del fratello, mettendosi le mani
sotto le ascelle come per proteggersi il petto, in silenzio, Lyosha la guardava accarezzandole i capelli sporchi del
sangue fuoruscito dalla ferita alla tempia.
Presto sarebbe morto, pensava, tra poco tocca a me. E più il pensiero
di morire si faceva concreto assieme alla possibile vittoria di Ariel, più Lyosha credeva che fosse un traguardo impossibile da
raggiungere, per uno come lui, che di
buono sapeva solo cucire – e non era abbastanza per portare il pane a casa:
aveva bisogno delle tessere. Sarebbe stato capace di uccidersi e lasciare Ariel
da sola? Anche se ce l’avesse fatta, ad arrivare in finale, Capitol
City avrebbe apprezzato il suo suicidio in diretta? Chi glielo garantiva che
non avrebbero escogitato un modo per uccidere sua sorella prima che lui facesse
la fatidica mossa?
Prima che riuscisse a porsi queste domande, la
mano iniziò a prudergli e, guardandola, notò con orrore e allarme che ora anche
le seconde falangi di ambo le dita erano diventate nerastre – inoltre non
riusciva più a muoverle. Doveva prendere dei provvedimenti – non gli sarebbe
piaciuto avere tutta la mano in quelle condizioni.
Chiuse la mano a pugno nel sentire Ariel
svegliarsi, dopo qualche minuto erano già in cammino.
Camminava a passo svelto, brandendo la spada
con maestria e tagliando i rami e le foglie che le sbarravano il cammino, con
l’altra mano reggeva una bottiglia d’acqua ormai vuota che aveva intenzione di
riempire con dell’acqua potabile – ricordava che fosse tutto velenoso, in quel
posto.
Si ritrovò ben presto in una radura che aveva
qualcosa di… magico, semplicemente perché sopra di
lei vi era un letto di foglie che intrappolava al suo interno la luce,
rendendola soffusa ma brillante, sui rami degli alberi più bassi alcuni passeri
neri e blu erano appesi a testa in giù, gonfiando ritmicamente il petto ed
emanando dei suoni simili a cinguettii. Più in alto, un altro uccello del
piumaggio color terra apriva le ali lasciando muovere le lunghe piume bianche
sul suo dorso – cantando anch’esso.
Ai suoi piedi, una terza variazione di quei
uccellini saltellava di qua e di là, come se ballasse, le ali aperte a formare
come una circonferenza attorno al suo busto, sembrava avesse la gonna.
Lexi
dovette ammetterlo: era uno spettacolo davvero fantastico – era paradisiaco e
in netto contrasto contro gli orrori dell’Arena che il suo cervello si sforzava
di ignorare, come farebbe una Favorita,
una vincitrice.
E in quel momento, davanti al suo naso un
esemplare di quei uccelli neri dal dorso colorato e – particolare di cui non si
era accorta prima – la coda biforcuta a formare due ricciolini iniziò a volare
stando sospeso in aria, come un colibrì. Istintivamente, la ragazza allungò una
mano e gli sfiorò il capo con il polpastrello, non avendo avuto reazioni
contrarie dal volatile, percorse tutto il profilo dell’esemplare, arrivando
alla coda e – sempre mossa dall’istinto – prendendogli i due ricciolini alla
base.
A quel contatto, l’uccello gracchiò e il suo
petto si gonfiò terribilmente, gli occhi sembravano quasi usciti dalle orbite, Lexi gli lasciò le penne ma, prima che riuscisse a fare un
passò indietro, l’uccellino scoppiò in un’esplosione di piume e polvere che la
ragazza si ritrovò ad inalare.
Poco dopo sentì la gola gonfiarsi, gli occhi
bruciare e il viso prudere, cadde a terra, dapprima tossendo, poi ridendo fino
ad alternare l’una all’altra. Gli uccelli rimasero fermi, in silenzio, per poi
volare via quando Lexi si rialzò, lasciando a terra
lo zaino e allontanandosi da quell’angolo di paradiso che di paradiso non aveva
nulla, brandendo la sua spalla.
«Lyosha, che cos’è
questo?» chiese Ariel, prendendogli la mancina e indicandogli il mignolo e
l’anulare ormai violacei – in realtà, si era già aperta qualche ferita che
aveva iniziato a sanguinare senza che lui se ne accorgesse.
Il ragazzo ritirò la mano, frustrato per la
scoperta della sorella: non voleva che lei le vedesse, sapeva che, se le avesse
notate come di fatto era successo, Ariel non avrebbe fatto altro che lamentarsi
sul fatto che poteva essere grave, esattamente come faceva sua madre.
C’erano volte, al distretto otto, in cui si diffondevano
delle terribili malattie che colpivano le mani e l’apparato respiratorio dei
lavoratori in fabbrica, Capitol City era sempre in
cerca di tessuti sfarzosi e le loro industrie non erano finalizzate solo alla
produzione delle tute dei Pacificatori – quanto anche a fornire alla Capitale
vestiti, forse non rifiniti totalmente, ma comunque pregiati. Ed era proprio
quella ricerca per il nuovo che
faceva sperimentare ai “cervelli” del distretto nuovi prodotti sui tessuti,
rendendoli sì lussureggianti per i Capitolini, ma comunque non lavorabili a
causa delle modifiche chimiche apportate alle stoffe. Allora le persone
iniziavano a soffrire di mal di dita per poi scoprire che tendini e ossa si
stavano corrodendo, oppure la pelle dei polpastrelli iniziava a cadere a pezzi
– in alcuni casi addirittura il tessuto era stato imbevuto in qualche sostanza
particolare che con il calore dei macchinari e del sovraffollamento dei
magazzini evaporava, le persone lo inalavano e, a lungo termine, morivano.
Lyosha scosse
la testa, cercando di dimenticare tutti i dolori e le disgrazie del suo
distretto – tentava di ignorare anche le prediche di Ariel riguardo alle sue
dita malate: non sarebbe riuscito a dare nessuna risposta, non tanto perché non
poteva parlare, piuttosto perché non aveva idea del motivo di tale morbo.
Assieme al sole che tramontava, alla voce di
Ariel che scemava stufa di cercare di cavar fuori qualche informazione dal
fratello, scese dal cielo un contenitore di generose dimensioni color platino,
il paracadute si impigliò tra i rami e il vaso fece scattare qualcosa tale per
cui si scollegò dall’attrezzatura, cadendo per terra con un tonfo e aprendosi.
Era un aiuto dagli sponsor che fece comprendere
al ragazzo la gravità della situazione. Raccolse il dono e con Ariel cercò un
luogo dove ripararsi.
Ariel si strinse le ginocchia contro il petto,
schiacciandosi contro la parete della piccola rientranza in cui si erano
nascosti, «Lyosha…» chiamò flebilmente, senza
riuscire a catturare l’attenzione del fratello.
Il maggiore guardava ciò che gli sponsor gli
avevano mandato: un coltello simile a quello che usavano i macellai del
distretto, qualcosa di vagamente simile a degli anelli e poi…
un brivido gli percorse la schiena nel rivedere quegli oggetti. Inspirò ed espirò
tre volte, chiudendo gli occhi, per poi ripetere quelle parole a mente e
sillabarle con le labbra, come per prendere coscienza della loro concreta
esistenza: ago e filo.
Non ci voleva un genio per capirlo: Capitol City voleva che lui si tagliasse le dita e che si
cucisse da solo la ferita – erano a conoscenza della sua capacità nel cucito,
così come erano a conoscenza del fatto che avrebbe fatto di tutto per rimanere
con Ariel e portarla fino alla fine.
Con la mano le fece segno di uscire, la piccola
ubbidì senza dire nulla: avevano già discusso di questo.
Quando la vide sparire dietro ad un albero, con
un altro sospiro afferrò con la mano tremante gli anelli di mezzo centimetro di
larghezza per poi metterli nel mignolo e nell’anulare, sentendo che si restringevano
a dismisura fino a bloccargli il flusso sanguigno, quando iniziò a sentire le
dita formicolanti, decise che era ora di procedere. Si fece forza, prendendo
con la destra il machete mentre appoggiava le due dita su una pietra vicino
alla parete rocciosa. Doveva tagliarsi le dita, dai moncherini avrebbe estratto
della pelle sana e con quella, a mo’ di toppa, si sarebbe cucito la ferita.
Senza
anestesia – la paura folle del dolore lo paralizzò seduta stante, non poteva
farcela, sentiva di non potercela fare.
L’ultimo respiro prima di convincersi davvero
della sua insufficiente forza d’anima e con un colpo secco brandì la lama,
chiudendo gli occhi una volta che si fosse assicurato la traiettoria.
Il dolore lo avrebbe fatto urlare, ma si sentì
solo il ferro della lama colpire la pietra e le due dita rotolare giù, cadendo
tra rami, fango ed erba.
Ines infilzò il tridente a terra, sedendosi e
appoggiando la schiena contro la propria arma, sospirando, «che stanchezza»
esordì flebilmente, incrociando le braccia e scostandosi la lunga coda dalla
schiena alla spalla, in modo che non le dessero fastidio: erano sporchi, non li
aveva ancora lavati né aveva intenzione di tagliarseli perché fossero più
pratici, voleva vincere e mostrare la sua chioma intatta.
Liv rimase in piedi, nonostante non lo
dimostrasse i piedi le facevano un gran male e avrebbe volentieri tolto le
scarpe e messi a bagno nell’acqua calda – come faceva dopo gli allenamenti al
due. «Vado a cercare qualcosa, o qualcuno… sì» disse
non molto convinta, sovrappensiero.
Non avendo avuto risposta o obbiezione
dall’altra, imboccò un sentiero naturale tra due alberi, ritrovandosi in una
brillante radura con una piccola cascata e un laghetto. Un sorriso le si
dipinse sul volto – si tolse lo zaino dalle spalle, prese una bottiglia d’acqua
e la svuotò, avvicinandosi poi alla riva per riempire la bottiglia di liquido
fino a metà del contenitore, rimettendola poi nella sacca e ritornando
dall’alleata.
«Sei tornata presto» constatò Ines, assonnata,
il sole morente le illuminava i capelli di oro, facendogli sembrare rame caldo.
Esisteva, il rame caldo? «Hai
dell’acqua? Ho finito la mia scorta…» chiese poi,
particolarmente disinteressata.
Era il momento che Liv aveva previsto, annuì un
po’ troppo vigorosamente e si scrollò lo zaino di dosso, prendendo la bottiglia
che aveva riempito poco prima.
Bevila. Pensò
Liv, quasi come volesse ordinarglielo.
Bevila. Vide
le labbra di Ines avvicinarsi al collo della bottiglia, l’acqua scorrere lungo
la caraffa per poi sparire nella bocca di lei. Riuscì quasi a cogliere il
movimento della sua gola nell’ingoiare il sorso.
E’
fatta. E quasi come se si fosse tolta un peso dalle spalle, si lasciò cadere
seduta a terra, sospirando mentre Ines la guardava con aria interrogativa.
Tre minuti dopo, la ragazza del quattro morì
tra tosse e vomito, mentre i suoi occhi si spegnevano fissi sull’immagine di
Liv.
Un colpo di cannone risuonò nell’Arena e Ariel
si svegliò di colpo: si era addormentata tra le lacrime nel pensare a quello
che il fratello stava facendo all’interno di quella piccola grotta. Le sue dita.
Non riusciva a pensare ad altro, alle sue dita.
Si stava tagliando le dita, se le stava cucendo. Sembrava quella storia
dell’orrore che si raccontava nel distretto otto, di quelle donne che erano
diventate delle bambole di pezza e ogni volta che qualcuno entrava nel loro
magazzino, gli strappavano via la pelle per farci dei pupazzi come loro, o
delle bandiere, delle coperte… ebbe un brivido che le
scosse le spalle e si scoprì le guance nuovamente umide: piangeva di nuovo.
Si rese improvvisamente conto che a svegliarla
era stato l’avviso della morte di un nuovo tributo, e dato le circostanze
poteva essere benissimo Lyosha. Il panico prese
possesso del suo corpo, si alzò scattante cadendo quasi in avanti e, scivolando
sulla terra che non le sembrava essere mai stata così scivolosa in vita sua.
Nel buio della notte, cercava a tastoni il
corpo del fratello, trovando il suo piede, poi la gamba, il busto e il viso.
Era steso per terra ma non rispondeva al continuo toccare dell’atra – facendola
impanicare.
«Ly… rispondimi»
mormorò, consapevole che non le avrebbe mai detto nulla. Confidava nel
movimento della mano, di un fischio, le bastava anche sentirlo respirare!
La pioggia iniziò a cadere nell’Arena, bagnando
qualsiasi cosa si trovasse sotto di lei. Il freddo era aumentato di colpo e da
qualche parte suonò un tuono, si girò verso l’entrata e vide un lampo, subito
dopo ancora il brusio del temporale.
A sovrastare il rumore del nubifragio fu un
altro colpo di cannone, e Ariel riprese a piangere.
«You call some
place paradise, kiss it goodbye.»
[EAGLES; “The Last Resort”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»
Alè :D
Allora, questo è il penultimo capitolo
di Die on the front page, just like the stars. E ovviamente mi piange il cuore in una maniera
terribile, tanto che – ribadisco quello che c’è dentro la mia listography – dopo il tredicesimo capitolo (quello
conclusivo), ci sarà l’epilogo e poi tre “pagine rubate”, ovvero missing-moments pre/post/durante
gli Hunger Games, devo
ancora decidere bene. Il primo di questi MM sarà
appunto l’intervista alla madre che non ho potuto/voluto inserire nella fan
fiction.
Sempre a scopo informativo, vorrei
avvisarvi che l’aiuto per Lyosha (ah, Lyosha!) è arrivato proprio dall’intervista della madre
alquanto toccante che ha smosso qualcosa nei Capitolini – sì. Riguardo a questo
non vi dico più nulla uvu
Insomma, altri due tributi sono morti eve e gli altri decederanno(…) tutti nel prossimo capitolo,
lasciando solo un vincitore – eheh.
Ultima cosa e poi vi lascio ♡
Il titolo del capitolo è la traduzione
italiana della canzone a fine testo, ho voluto sottolineare l’aspetto
paradisiaco dell’Arena proprio perché succedono un sacco di cose collegate a
questa, nel capitolo che avete appena letto. E un po’ perché non mi veniva
nulla da scrivere la sopra come titoletto, eheh.
L’ultimo capitolo, secondo le mie
stime, verrebbe pubblicato giovedì/venerdì e l’epilogo (già scritto ♡) domenica sera o lunedì, comunque uno
scarto abbastanza breve tra una cosa e l’altra perche mi piacerebbe che fosse
una cosa abbastanza continua, insomma.
Come al solito, ringrazio chi
segue/recensisce palesandosi o meno çvç)/ mi spronate
sempre a continuare e non posso credere che sia quasi finita, ahahahah.
Alla prossima!
radioactive,
▪ a n g o l o s p a m ▪
Sarò lì quando cadrai
― {
Soprannaturale – LONG • yingsu }
I’m frozen to the
bones ― { Hunger Games – LONG – 73esima Edizione – Roel (D2) • yingsu }
Blur ― { Hunger Games –
LONG – Klaus & London (D6) • ivola }