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Autore: Francine    27/10/2013    6 recensioni
È emozionato. E sente un groppo in gola.
Coraggio, è quasi finita. Domani. Aspetta solo fino a domani e poi potrai urlarlo al mondo intero.
La pezza di lana riprende a scorrere con maggior foga sull’acciaio.
Prima pubblicazione:19.07.2007
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Il giorno del Ricordo
(13 Elesias 1371 A. V.)

 

1.

Lo straccio scorre veloce sull’acciaio.
Di più. Sa che può brillare ancora di più. Deve passargli sopra ancora il grasso, una dose generosa di lucido e panno di lana, e l’armatura andrà più che bene per la cerimonia di domani.
Certo, avrebbe bisogno di una cura ricostituente somministrata dalle mani di un fabbro esperto come Ronnie Groilop, e magari anche un paio di martellate date per il verso giusto, ma va bene anche così.
Alita sulla gorgiera che gli rimanda il suo viso deformato. Orgoglio.
Si sente scaldare il cuore quando pensa che, tra meno di dodici ore, lui sarà nel piazzale maggiore con l’armatura indosso e il sole che illuminerà gli stemmi sul petto e i coprispalle.
È emozionato. E sente un groppo in gola.
Coraggio, è quasi finita. Domani. Aspetta solo fino a domani e poi potrai urlarlo al mondo intero.
La pezza di lana riprende a scorrere con maggior foga sull’acciaio.


 

2.

Il modo migliore per togliersi i crucci dalla testa è far lavorare le mani.
Zia Lia ci crede fermamente, e lui ricorda che quando si trovava a dover prendere delle decisioni importanti si metteva a trafficare con le mani. Puliva tutte le tende di casa, rassettava la dispensa e poi ne catalogava con scrupolo il contenuto, oppure ricamava il solito mazzolino di verbene che avevano assunto ormai un colore indefinito, o cambiava la disposizione dei trofei di caccia di zio Combustus.
Lui credeva che fossero tutte balle, di quelle che si raccontano ai ragazzini per far fare loro quello che vogliono gli adulti. Perché mandare Goldie in città e sottrarla ai suoi doveri di scopa e ramazza quando c’era il piccolo Arp da spedire al trotto a prendere quello che occorreva?
Bastava mettere quel monello sul calessino, affidargli la lista delle commissioni e aspettare il suo ritorno con le sporte piene; così zia Lia aveva preso ben tre piccioni con una fava: il lavoro a casa proseguiva senza intoppi, aveva risolto l’imprevisto che minacciava di mandarle a gambe all’aria tutta una giornata e aveva dato al nipote un’occasione per non perdere tempo e per pensare.
Inutile per lui ribattere di non averne bisogno. 
« Sciocchezze», rispondeva zia Lia. « Tutti hanno qualcosa cui pensare, e per il bene dei tuoi umori è meglio non rimestare troppo certi sentimenti. Non sai mai cosa si nasconde sotto al fango.»
Zia Lia aveva deciso di lasciarlo in pace quando era entrato in quell’età in cui ogni ragazzo ha dei motivi che lo spingono a sedersi in un angolo, da solo, a meditare. Lei lo vedeva impegnarsi in incarichi che lo sfiancavano e lo riducevano ad uno straccio, e sapeva che ormai lui poteva andare avanti da solo. Aveva imparato il sistema.
L’unica volta in cui zia Lia si era preoccupata era stata quando si era slogato un polso aiutando Sammie, il figlio dello stalliere, a strigliare per benino Sheep, il giovane baio che il vecchio patriarca, Augustus, aveva deciso di regalare al rampollo di casa Copperplate per indurlo a chiedere la mano di Bruthia Saller, la figlia del secondo produttore di formaggi della valle.
Bruthia era una bella ragazza, un fiore dai grandi occhi scuri e la voce pacata; suo padre Gor non vedeva l’ora di creare un’unica, grande famiglia con quella del suo rivale in affari, Balestruccio Horace.
Se non altro, si sarebbero spartiti il mercato caseario delle Marche d’Argento dell’Ovest come fosse una torta alla crema, e lui non si sarebbe più dovuto preoccupare di un rivale pericoloso e scaltro come il futuro consuocero.
Consuocero che non aspettava altro che incamerare l’altro per espandersi in tutto il territorio, da Monte Griusp fino alla Costa della Spada. Lui aveva i migliori formaggi ad Ovest della Grande Foresta, ma i soldi, quelli che servivano per incrementare gli affari, tintinnavano felici nelle tasche di Gor Saller.
Il ragazzo non ne voleva sapere. O meglio, non gl’interessava quell’argomento, al punto che il vecchio Augustus aveva temuto che vi fosse un’altra gonnella nella mente del nipote. Arpegius passava il tempo ammazzandosi di fatica, quasi senza sentire le parole che suo zio tesseva per decantare la bella Bruthia, che non aspettava altro che accasarsi con il rampollo dei Copperplate e sfornargli una mezza dozzina di marmocchi.
E temendo che Arpegius potesse dire di no quando il chierico Applesonn si fosse trovato nel bel mezzo della cerimonia, quella vecchia volpe di Horace aveva pensato di distrarre il ragazzo con un bel cavallo dal pelo marrone con cui correre su e giù per la Grande Pianura.
I vecchi dicono sempre che l’uomo propone e che gli dei dispongono. E infatti Horace aveva fatto i conti senza l’oste, un oste particolarmente ingombrante che già in passato aveva mandato a gambe all’aria i suoi piani; uno di quelli cui non si può dire scacciare con un paio di sventagliate come fosse una gallina che razzola al di fuori dell’aia. 
L’oste in questione si chiamava Torm. Il dio Torm.


 

3.


Ahorn sa che quando lui non vuol pensare, preferisce tenersi impegnato in altro modo. Ormai l’ha capito. Di solito, si sfianca di esercizi giù nella palestra. Prende lo spadone, scende nel cortile – o si porta sui camminamenti che collegano le quattro torri – alza l’arma e mena fendenti in aria, provando e riprovando a colpire un ipotetico nemico secondo varie inclinazioni della lama.
Oggi, 12 di Elesias è uno di quei giorni.
Si è alzato con un peso sul cuore mentre tutti i suoi compagni sono schizzati giù dalle brande, eccitati all’idea della grande e solenne Festa che si svolgerà domani al Tempio Maggiore di Tantras.
“Che faccia è, quella? Vuoi far concorrenza ad Ahorn? Il suo muso lungo non lo batte nessuno, ma se ti alleni puoi piazzarti bene!”
Blumenweg è andato avanti per tutta la mattina con questi sfottò, ridendo di cuore. Come dargli torto? Il viso tranquillo e sicuro di sé di Arpegius è solcato da un’ombra scura che nessuno sa spiegare. 
Lo hanno notato anche gli altri membri storici del loro tavolo, Shelab Occhio di Lince, Tabitha Sprooge e Nilof Gnithiutr. Insieme costituiscono un gruppetto di seguaci che, per un motivo o per un altro hanno ricevuto la chiamata del dio Torm superati i vent’anni.
Nilof è arrivato dopo una vita passata in giro per la Sembia al seguito della carovana di suo padre, un mercante di spezie pregiate, e quando questi è passato a miglior vita, ha lasciato la carovana ai fratelli minori ed ha viaggiato a dorso di cammello sino a Tantras.
Tabitha ha trovato il coraggio di abbandonare la casa di suo padre, sacerdote di Tempus, e abbracciare la fede tormita, mentre Shelab racconta poco di sé, e nessuno è intenzionato a scucirgli più di quel poco che lui stesso ha raccontato con quattro parole in croce. 
Si sussurra che facesse il cacciatore di taglie prima di arrendersi a quelle rose candide che trovava ogni giorno sul suo cuscino, ma nessuno ha sufficiente coraggio per affermare questa tesi a voce udibile: gli occhi neri di Shelab troncano la lingua ai chiacchieroni meglio di un paio di cesoie arroventate.
È stato proprio lui a mettere una mano sul polso di Blumenweg, quando questi ha fatto per alzarsi e far sputare a suon di pugni il rospo al giovane Copperplate.
“Lasciatelo stare. Tutti”, ha abbaiato spiccio e Blumenweg non ha replicato.
Ci sono segreti che un uomo vuole restino tali. Shelab sembra saperlo bene, tuttavia… tuttavia Ahorn non è del suo stesso avviso.
Sì, il giovane Copperplate è completamente pazzo, e a volte non sai chi abbattere per primo, se lui o Blumenweg, ma li considera amici. E se un amico è nei guai, lo si aiuta. Non ci stanno santi.
E Arpegius, in uno stato di depressione come quello di oggi, ha bisogno di aiuto.
Non ha nemmeno replicato alle sfrecciatine del compagno dai capelli rossi. Si è alzato, ha preso le sue consegne per tutta la mattina e all’ora di pranzo ha piluccato muto il suo pasto mentre tutti gli altri sembravano ignorarlo.
Come mai? Eppure, quella di domani non è una tra le feste più importanti e solenni per ogni buon tormita che si rispetti? Come mai Arpegius Copperplate, che ha fama di essere un fervente seguace della Furia Leale, è così cupo?
Questo si è chiesto per tutto il giorno Ahorn, il compagno che occupa la branda alla sinistra del giovane paladino. E non vedendolo in giro, né a ridere degli scherzi che Blumenweg ama tirare ai poveri malcapitati, Ahorn è andato a cercarlo in quei posti che conosce come i suoi rifugi.
Che si fottano pure, Shelab e le sue teorie da lupo solitario.
La palestra è deserta, così come la Sala Comune e i camminamenti. In genere è lì che si ritrovano a metà mese, quando lo zio di Arpegius invia al nipote una cassa piena di cibarie, vesti e libri, insieme alle notizie sulla famiglia. Si ritrovano senza un appuntamento preciso, verso l’ora libera del pomeriggio. Si siedono a terra, in silenzio, e si dividono il formaggio e il pane, mentre guardano il lago su cui s’affaccia la rocca diventare rosso e oro nel tramonto.
Il pacco è arrivato, puntuale come sempre. Non poteva non notarlo: una grande cassa, un fodero da spadone piuttosto vetusto e un’armatura goffamente celata. 
Gli zii di Arpegius sono dei ricchi possidenti che non badano a spese per mantenere il ragazzo e armarlo di tutto punto; perché tutto quel mistero?
Che abbiano inventato quella maldestra messinscena per non far vedere quale corazza abbiano destinato al nipote per quel giorno così importante? 
Non avrebbe molto senso, ma quando si parla dei Copperplate, sono poche le cose che hanno senso.
Un refolo di vento e Ahorn decide di scendere in camerata. Da qualche parte sarà quel maledetto idiota!


 

4.


Arpegius se ne sta seduto ai piedi del letto con uno spadone appena estratto da fodero posato sul cuscino, pezzi d’armatura sparpagliati su tutta la branda, una gorgiera tra le mani e un barattolo di latta, grasso speciale a prima vista, accanto. Ahorn lo osserva in silenzio. Pare non essersi accorto della sua presenza; eppure, la porta della camerata cigola non poco se solo la si sfiora.
“Ci diamo alle grandi pulizie?”
“Hn”.
Cominciamo male, pensa Ahorn. È lui il taciturno della camerata, quello che passa buona parte del suo tempo libero da solo a migliorare la sua tecnica con la spada lunga, o a dormire, stremato dagli allenamenti supplementari a cui si sottopone. 
Arpegius, invece, è più solare e scanzonato, pur condividendo la stessa spartana metodologia d’allenamento e lavoro, e vivendo con molto zelo e serietà la sua chiamata.
Ahorn s’avvicina, si siede sulla propria branda e lo osserva. La sua presenza, che spesso cerca pur facendo finta di niente, lo disturba, lo vedrebbe anche un cieco. 
Passa velocemente lo straccio sulla protezione d’acciaio, più e più volte, curando quasi ossessivamente ogni singola porzione della gorgiera. Lavora con perizia, ma non troppo: se così fosse, indurrebbe il seccatore ad avvicinarsi e a chiedergli incuriosito a cosa stia dedicando tanto lavorio e perché. Invece, Arpegius lavora quasi distrattamente, con la fretta di chi ha altre cose da fare; come a volergli dire: Non vedi che sono occupato? Lasciami in pace!.
Ma Ahorn non molla: quando si mette in testa una cosa, è dura fargli cambiare idea. E Arpegius lo sa.
“È tua?”
“Sì.”
“Bell’armatura.”
“Grazie.”
“Quando?”
“Ieri mattina, insieme al pacco che lo zio m’invia ogni mese. C’è anche il cacio, se vuoi, La cassa è sotto al letto” risponde Arpegius alitando sull’acciaio.
“Non mi riferivo a quello”, precisa l’altro cercando il formaggio.
“E a cosa, allora?”
“Quand’è successo?”
La mano di Arpegius si ferma. Rimane per alcuni istanti a fissare se stesso riflesso sulla superficie grigia, poi si volta in direzione del compagno. Come ha fatto a capire? , pensa il ragazzo.
“Tu come…”
“… lo so?”, termina la domanda Ahorn sempre cercando quel benedetto cacio. “Semplice: lo spadone ha una fattura vecchia di almeno trent’anni, e l’armatura ha troppe ammaccature per essere nuova. Sinceramente, non ce lo vedo tuo zio che ti regala un’armatura vecchia, visto che t’invia ogni mese una cassa piena di ogni ben del Cielo dalle Marche d’Argento fino a Tantras. E quei simboli”, prosegue indicando con il mento il palmo del guanto d’arme su fondo rosso che decora il centro del giustacuore, “hanno la stessa età della corazza.”
Poi Ahorn riprende a cercare il formaggio, mentre l’amico lo fissa basito. E bianco in volto.
“Quella è l’armatura di un tormita. E non s’indossa una cosa del genere senza avere un buon motivo. Ah, eccolo qui…” Trova il cacio, si siede sulla propria branda ed inizia a trafficare per aprirlo. “Tuo fratello?”
“Mio padre.”
Ahia, pensa Ahorn, ma ormai la frittata è fatta. “Quando?”
Arpegius sospira. “Saranno tredici anni domani…”
Le mani di Ahorn smettono all’istante di combattere con la carta del formaggio. 
“Ah…”, mormora gelato, pentendosi della propria curiosità. E io che volevo aiutarlo, pensa mordendosi la lingua. Vorrebbe ricacciarsi in gola tutti quei discorsi, tutte le sue deduzioni. Ma non si può.
È abile, molto abile a seguire le tracce, Ahorn Flieβendfluβ, capacità di tutti coloro che hanno sangue illuskan nelle vene. Fino a quando il dio Torm non è apparso nella sua vita, come in quella di suo fratello Hailk qualche anno prima, aiutava suo padre a cacciare nei boschi vicino Neverwinter e ha imparato a proprie spese che non si deve arrivare fino alla tana dell’orso se non si è certi di volerlo catturare. E lui nella tana c’è caduto proprio adesso. 
Arpegius si comporta come farebbe un orso disturbato nel bel mezzo del letargo. Lo guarda, perplesso e attonito, come se nella sua testa non fosse possibile che un intruso sia penetrato nei suoi segreti con la grazia di un trabucco lanciato giù da un colle.
In genere l’orso impiega pochi attimi per decidersi ad attaccare l’intruso e a farne uno spuntino. Se non è la cucciolata, è un invasore. E se non è un invasore, allora si tratta di una preda, gli diceva suo padre, e Ahorn sa che il calmo Arpegius sta per saltargli alla gola.
Lo vede nei suoi occhi. Quando quelle pupille nere si dilatano a gran velocità, non è mai un buon segno. Buffo. Anche per me sono una spia del mio umore, pensa mentre il compagno si volta verso di lui. I suoi occhi sono più neri del culo dell’inferno.
“Guai a te se ti lasci scappare una sola parola con qualcuno! Guai a te!”, lo minaccia Arpegius, e se in altre circostanze sarebbero finiti a riempirsi di pugni sul pavimento della camerata, stavolta Ahorn tace. Ma solo per questa volta…
“Perché?” domanda, nonostante il suo cervello gli urli di tacere. 
Cos’è, volete morire prima ancora di scontrarvi contro gli Zhentharim? Bravo, continua su questa strada e poi vedi se non v’ammazzate oggi stesso! Ma che te ne frega, poi?
È un mio amico, pensa mentre l’altro risponde stizzito: “Come sarebbe a dire?”.
“Saranno fatti miei o no?”, domanda Arpegius sempre più adirato.
“Già…” mormora lui rimettendo a posto il formaggio.
“E adesso dove vai?” grida Arpegius esasperato.
“Saranno fatti miei, o no?” risponde prima di scivolare oltre la porta della camerata. 
La pezza sbatte contro il legno di noce.


 

5.

Il vento del primo pomeriggio spira sempre da ovest.
Appoggia le braccia sul parapetto sbrecciato di un camminamento, e osserva la placida superficie del lago incresparsi al leggero passaggio dell’aria. La rocca su cui è costruita Tantras, e che ha nel Tempio Maggiore la propria fortezza, s’affaccia su una vallata ricoperta dalle acque come un leone pronto a balzare sulla preda. Preda che è costituita dalla città di Zentil Keep, che riposa dall’altra parte del lago e che si può scorgere in lontananza nelle giornate più serene.
Proprio da quel luogo, durante il cosiddetto Periodo dei Disordini, quando gli dei vagavano sulla terra per volere del Sommo Ao, il dio Bane giunse a Tantras sotto forma di un gigantesco colosso nero, formato dalle vite dei suoi seguaci prese con l’inganno e si scontrò contro Torm, ingigantitosi grazie all’estremo sacrificio di buona parte della città.
Hailk era tra questi.
Aveva ricevuto la chiamata a divenire servo del dio del Dovere in una fredda mattina d’inverno. Suo fratello s’era alzato e davanti al suo letto era spuntata una rosa bianca, fresca come se fosse appena stata colta da un cespuglio assolato. 
Hailk era partito, distinguendosi per il valore e le imprese in cui s’imbarcava per portare la luce di un dio che nella sua famiglia non era adorato. Lui non ha grandi ricordi di suo fratello. Quando Hailk offrì se stesso al dio Torm – che, al contrario di Bane, assorbì solamente quei seguaci che gli donavano la propria vita, risparmiando i giovani ed i vecchi – lui era solo un bambino di otto anni che cresceva cacciando conigli ed ascoltando i resoconti che suo fratello mandava a casa ogni due mesi.
E quando il dio Torm chiamò anche lui, inutile dire che suo padre non la prese bene. Anzi. Tuttavia, non s’oppose e lasciò che il Servizio gli strappasse anche quel figlio. E Ahorn è sollevato nel poter ammettere che gli dei non sbagliano mai. 
Da quando la sua esistenza ha iniziato a seguire il volere ed il credo di Torm, si sente realizzato. Appagato. Quel che fa, lo fa perché vuole farlo, perché sa che è giusto, non come una serie noiosa di eventi che si ripetono a catena, uno dopo l’altro senza uno scopo. 
Quando ne ha parlato con Fratello Isiolak, il cappellano che si occupa dei giovani vocazionisti, questi, un grosso e rubicondo omone con le guance rosse e i capelli radi, si è fatto una grossa risata tenendosi il pancione. “E cosa credevi? Che gli dei chiamassero i loro servi senza aver pensato una strada adatta a loro? Figliolo, tu sei destinato a Torm e dopo la morte abiterai con lui nella casa della Trinità, stanne pur certo.”
Gli dei sanno quale sia il meglio per i loro seguaci… Dunque, Arpegius deve soffrire in questo giorno di gioia e commemorazione?, si chiede Ahorn, capendo solo adesso di trovarsi di fronte a quelli che la gente di Torm chiama Progenie dei Martiri, i figli di coloro che diedero la vita al dio durante quello scontro memorabile.
Arpegius figlio di un Martire. Chi l’avrebbe mai detto!, pensa posando il mento sulle braccia. E aggiunge un’altra considerazione: perché non l’ha mai detto?
Infondo, non c’è niente di male, anzi! Doveva essere motivo di vanto, per lui, sapere che suo padre ha dato la vita per la causa. E invece no. No! Perché?
La voce di Arpegius gli rimbomba nella testa, rispondendo alle sue domande. Saranno fatti miei, o no?
Abbassa lo sguardo sull’immagine della rocca riflessa laggiù in fondo, sulla superficie del lago. Si sente impotente, e per la prima volta non sa cosa fare. Da quando ha affidato la sua vita al dio Torm, il suo cuore è sempre stato sicuro dei propri passi; ma adesso? Deve lasciarlo stare e rispettare il suo umore scuro, pur non capendo affatto i suoi motivi, o deve scendere giù e farlo cantare a suon di pugni?
La seconda soluzione l’alletta parecchio, ma sa che se vuole essere veramente amico di quel mentecatto di Copperplate, deve lasciarlo cuocere nel suo brodo. Sarà lui che lo avvicinerà, magari per scusarsi in modo goffo come al suo solito. Arriverà, magari offrendogli un pezzo di cacio e del vino sottratto dalle cucine con l’aiuto di quel pazzo di Blumenweg, parlerà del più e del meno e poi gli chiederà scusa. E forse vuoterà il sacco.
Come se me ne importasse qualcosa!, pensa prima di dover ammettere che, in fondo, gliene importa, eccome. Vederlo con quell’espressione scura e dolorosa fa male. Se Blumenweg lo ha sfottuto per tutta la mattina, è stato solo perché, a modo suo, ha cercato di scuoterlo, salvo poi abbandonare l’impresa e lasciare Arpegius ai suoi crucci.
“Ah, sei qui…”
Parli del diavolo e spuntano le corna. Blumenweg è tutto allegro alle sue spalle, le mani sui fianchi ed un sorriso stampato in faccia.
“Allora, com’è andata a te?”
Allude ad Arpegius, ovvio. Ahorn fa spallucce.
“Niente, eh? Ma che t’avevo detto? Dobbiamo lasciarlo in pace, prima o poi canterà. Magari ha perso qualcuno durante quel giorno…”
Blumenweg c’è arrivato all’istante, e Ahorn si chiede se, per caso, non abbia anche lui del sangue illuskan nelle vene.
Si appoggia con gli avambracci al parapetto e lascia che la brezza che spira da ovest corre sui suoi capelli cortissimi. “ Forse vorrà mantenere questa cosa per sé. O forse, gli è stato ordinato di tacere…”
Ahorn lo guarda corrugando la fronte. Perché? Cosa c’è di così strano o vergognoso da dover costringerlo a mantenere il segreto?
Blumenweg inspira la nebbiolina che sale dal lago, poi dice: “Bene, è tempo che io torni alle mie mansioni. Ti saluto” e torna nel corpo centrale del complesso lasciandolo da solo a solo con i suoi pensieri.


 

6.

È stanco. 
Se da un lato sa che non ci sono più ragioni per tacere, e che domani, comunque, vedranno tutti di chi è il figlio, dall’altro pensa che è suo dovere portare a termine il silenzio fino al termine della prova.
Lo Spadone rituale di suo padre è appeso nella Sala delle Armi del Tempio, accanto al nome di ogni tormita che si è distinto nella lotta contro Bane.
Menzione speciale meritano coloro che diedero la vita quel 13 di Elesias di tanti anni avanti, e il cui sacrificio è ricordato tramite una lapide in marmo che gira attorno ad una colonna a base quadrata posta al centro del giardino del tempio. Chierici, guerrieri, paladini, ma anche semplici cittadini, i nomi di tutti coloro che risposero alla Grande Chiamata e che quella sera stessa ascesero alla casa della Triade, sono incisi su quella pietra. I suoi genitori riposano l’uno accanto all’altro.
I primi tempi andava sempre davanti alla colonna per leggere i nomi dei suoi. Si sedeva su una panchina di pietra e fissava un punto ben preciso, fino a quando la commozione non lo costringeva ad alzarsi e a tornare indietro per non essere scoperto.
Mille ricordi riaffioravano nella sua mente, da suo padre che faceva esercizio sul retro della loro casa per bilanciare meglio il Colpo Copperplate e mantenersi in forma, a sua madre che svolgeva le sue orazioni ai piedi del letto, e a volte lo coinvolgeva portandoselo accanto a sé e mettendogli la mano sulla testa. 
La Salvezza si ottiene tramite i servigi resi…
Mentre pregava inginocchiato tra i suoi genitori, il piccolo Arpegius sentiva crescere dentro di lui un amore per un dio che, tutto sommato, gli stava anche simpatico. Chi altri girava con un leone per amico? Helm? Tempus e il suo scudo? Tymora?
Il sogno del piccolo Copperplate era stato per un mese buono quello di accompagnare suo padre al tempio ed essere ammesso alla presenza del dio per parlare sì con lui, e dirgli quanto lo trovava forte e simpatico, e che faceva il tifo per lui contro Bane; ma, quello che non faceva dormire il piccolo Arpegius e lo elettrizzava al punto che non parlava d’altro, era la possibilità, molto remota ad essere sinceri, di andarsene a spasso sul leone.
Cavalcare quella fiera era diventata la scusa che metteva per essere un bravo bambino, una ricompensa gradita per premiare i suoi sforzi. 
Se faccio il bravo, poi posso fare un giro sul leone? 
Se vado a letto presto, mi porti a vedere il leone, papà? 
Se non faccio la pipì a letto, mi racconti ancora del leone?

Era diventata un’ossessione, e alla fine i suoi genitori stavano per cedere alla sua caparbietà.
Poi era venuto il 13 di Elesias, e lui aveva iniziato ad odiare Torm con tutto se stesso.
Perché era rimasto solo? Perché il dio aveva preso i suoi genitori? Non poteva prendere quelli di qualcun’altro? 
Tutti gli dicevano che doveva essere fiero di loro, ma lui si sentiva triste, molto triste. Rivoleva suo padre e sua madre con lui. Era disposto anche a non volerne più sapere del leone per tutta la vita, basta che avesse avuto di nuovo il suo papà e la sua mamma che lo tenevano stretto stretto al calduccio.
Ma per quanto Arpegius pregasse e giurasse sui suoi propositi a così lungo termine, i suoi genitori non tornarono indietro.
Arrivò zio Combustus, che s’era sposato da pochi mesi, raccolse le sue cose e lo riportò indietro, diceva lui, verso ovest, da dove proveniva suo padre.
Torm era sparito non appena il ragazzino aveva messo piede a Copperplate Manor, sostituito da un più rassicurante Lathander, il dio del Sole, mentre l’Armatura di Aurelianus era finita per direttissima in un angolo buio e polveroso della soffitta, dietro a vecchi armadi tarlati coperti da teli grigi.
E il tempo era passato, fino a quando il destino del ragazzo non era venuto a bussare alla sua porta e a reclamarlo tutto per sé.


 

7.


Il gioco che Norianna amava più di tutti gli altri, era nascondersi nei posti più impensati e vedere quanto tempo quello svitato di suo cugino avrebbe impiegato per trovarla.
Com’è naturale che sia, dal momento che il vecchio nonno Horace aveva deciso di combinare il matrimonio del rampollo, e data anche l’età del cugino, un brutto giorno Norianna si era ritrovata a giocare da sola con il cerchio nel cortile del palazzo, mentre Arpegius entrava e usciva dalla stalla in sella ad un cavallo focoso e una ragazza dai lunghi capelli scuri e le ciglia a ventaglio si vedeva un po’ troppo spesso da quelle parti.
Così, la piccola Norianna aveva preso un bel giorno suo cugino da parte e l’aveva costretto a giocare con lei a nascondino. Lui, ovviamente avrebbe dovuto stare sotto e contare molto lentamente fino a cento, cosicché lei potesse trovare un posto difficilissimo da scoprire.
Il problema, è che il posto Norianna l’aveva scelto durante una delle sue ricognizioni preventive, ma era così sicura che Arpegius non l’avrebbe mai trovata che, alla fine, si era addormentata nell’armadio di sua madre, tra un cappotto bordato di pelliccia ed un abito marrone a fiori rosa.
Convinto che la cugina si fosse avventurata in soffitta, o forse tirati dal filo del destino, i piedi del giovane Copperplate erano saliti per tutti i gradini del palazzo, certi che avrebbero trovato Norianna all’interno di un vecchio mobile rovinato dal tempo e dai tarli.
E invece la sua mano era andata a colpo sicuro verso un lenzuolo che sembrava splendere nel buio. E lì sotto c’era l’armatura di suo padre, con una rosa bianca in mano, la rugiada che ancora esitava sui petali. Aveva preso il fiore, ricoperto l’armatura con il telo ed era sceso nella sua stanza, dimenticandosi di Norianna, che dormiva placida e al calduccio. 
Sapeva cosa significasse quel fiore, anche se, dopo quasi dieci anni passati a recitare le orazioni di Lathander, la memoria gli si era un po’ offuscata. Ricordava che sua madre aveva ricamato una grande rosa bianca su sfondo rosso e l’aveva appesa sopra la porta di casa. 
L’ultima cosa che aveva visto, anche una volta chiusi gli occhi e poco prima di cadere nell’oblio del sonno, era stato quel fiore bianco, dalla delicata sfumatura candida e le gocce di rugiada sui petali. Il giorno seguente aveva trovato un’altra rosa accanto al cuscino, mentre alle sue labbra era salita una strana preghiera, che sapeva di antico, ma non di completamente dimenticato.
La Salvezza si ottiene tramite i servigi resi.
A sera, dopo una giornata passata a pensare da solo, seduto sopra i covoni di fieno a guardare il volo degli uccelli o a sfiancare Sheep in corse senza fiato su e giù per le colline, Arpegius era tornato in soffitta senza farsi vedere da suo zio o da suo nonno. 
Il telo lo chiamava ancora. Sebbene avesse perso il colore iniziale della stoffa, una vecchia tela di lino per lenzuoli che aveva trovato miglior utilizzo, e avesse assunto una tinta grigia a causa dello spesso strato di polvere accumulata negli anni, il telo brillava. Sembrava bianco abbagliante, come le lenzuola stese al sole dietro cui correva da bambino tra le grida delle domestiche, terrorizzate che potesse sporcarle con terriccio, erba e altre schifezze che dimorano sulle mani dei ragazzini vivaci.
Arpegius aveva tirato il via il telo ed aveva scoperto l’armatura con in mano un’altra fragrantissima rosa bianca madida di rugiada. E al suo risveglio, il giorno seguente, aveva trovato un’altra prova del passato che sembrava chiamarlo.
Dopo due settimane in cui le rose erano diventate un numero sufficiente da costituire un bouquet da sposa, Arpegius si era deciso a rivolgersi al chierico locale, grande amico di famiglia. Saer Appleson l’aveva ascoltato a lungo, senza pregiudizi, parola per parola senza interromperlo. Poi, quando aveva chiuso la bocca per attendere la risposta del chierico, questi non aveva fatto altro che confermare le sue teorie.
“Stai ricevendo una chiamata da parte di un dio, giovane Copperplate; tuttavia, leggo l’incertezza sul tuo volto.” Aveva annuito e Appleson sorriso. “Se è questo il tuo dilemma, allora chiedi a Torm una prova inequivocabile, che ti chiarisca una volta per tutte quale sia il suo volere.”
Quella sera, quando s’era coricato dopo aver trovato l’ennesima rosa tra i guanti d’arme dell’armatura paterna, una preghiera era salita alle sue labbra.
La Salvezza si ottiene tramite i servigi resi.
E quella notte, a porgergli in sogno una rosa candida imperlata di rugiada, aveva trovato suo padre.


 

8.


Alla fine decide che, di qualunque cosa si tratti, non può cavarla a forza dalla bocca del compagno. Non sarebbe giusto. Ogni persona possiede dei momenti intimi che non vuole condividere con gli altri se non dopo aver ponderato bene se sia il caso di aprirsi o meno. E, soprattutto, con chi farlo.
Ahorn non vuole prendere in considerazione l’ipotesi che Copperplate non l’abbia considerato all’altezza del compito. Non che m’interessi qualcosa dei fatti suoi, pensa lanciando dei ciottoli verso il lago, che riposa placido sotto la rocca; tuttavia, il sapere che Arpegius non ha ritenuto né lui né Blumenweg degni di una tale confidenza, lo disorienta un po’, poiché, anche se non lo darà mai a vedere, né tanto meno lo ammetterà apertamente, ad Ahorn piace la strana alchimia che si crea tra di loro. Blumenweg è lo spaccone sempre pronto allo scherzo e alla battuta, lui l’orso su due zampe e Arpegius è quello che fa da collante.
Hanno fatto gruppo. E la prima cosa che s’insegna al Tempio Maggiore di Tantras è che in un gruppo si soffre insieme, si vive insieme, e si gioisce assieme. Cade uno, cadono tutti, ripeteva ser Llewellyn, il guerriero che li addestrava all’uso dei duelli in formazione, e Ahorn si trova a riconoscere che quei precetti valgono anche al di fuori delle battaglie in campo aperto.
La tristezza di Arpegius si è estesa agli altri membri della camerata, senza contare i tre compagni con cui dividono il posto in mensa.
D’altro canto, cos’altro può fare? Costringerlo a vuotare il sacco, così da farlo inviperire ancora di più? 
Forse avrebbe dovuto dare retta a Shelab e a lasciarlo stare. Prima o poi, quel mentecatto di Copperplate vuoterà il sacco. 
Arriverà, magari offrendogli un pezzo di cacio e del vino sottratto dalle cucine con l’aiuto di quel pazzo di Blumenweg, parlerà del più e del meno e poi gli chiederà scusa. E torneranno ad essere amici.
Resta ad aspettarlo per tutta la sera, finché non si fa l’ora di cena e scende nel refettorio.
Arpegius non c’è, ma non ha appena giurato a se stesso di non tormentarlo oltre e di non andare a cercarlo? 
Prende un vassoio e si mette in fila. Vige già il silenzio. Zuppa di cardo, stufato e patate lesse. Si siede al tavolo solito, gli altri che gli lanciano un’occhiata distratta e poi decidono di lasciarlo stare coi suoi pensieri. Sa che non si tratta tanto di scortesia, quanto di ordini da rispettare. E la prima direttiva per un tormita è il Servizio, e il Servizio implica necessariamente il rispetto degli ordini assegnati.
Immerge il cucchiaio nella zuppa di cardo. Buona, non come quella che fa sua madre, con quel retrogusto d’ortica, ma tutto sommato mangiabile. Blumenweg la gradisce, manca poco che lecchi la scodella con la lingua, sotto lo sguardo disgustato degli altri. 
C’è silenzio, stasera. L’eccitazione per una data così importante è palpabile e ristagna elettrica sulle teste degli aspiranti servi della Furia Leale, e, anche se non l’avessero imposto dall’alto, nessuno riuscirebbe a rompere quel silenzio per dire una cosa seria, figurarsi una facezia per scherzare durante i pasti.
C’è anche qualche defezione, nota Ahorn dando uno sguardo d’insieme al refettorio. Saranno andati al tempio a pregare. Forse, a conti fatti, farebbe bene ad andarci anche lui dopo cena. A furia di pensare ad aiutare Arpegius stava quasi per dimenticare di preparare se stesso ad accogliere il dio Torm l’indomani mattina.

9.


Si incrociano davanti al chiostro. Ahorn, le mani in tasca, alza la testa solo all’ultimo, fingendo di non essersi accorto dell’altro che gli stava venendo incontro a passo sostenuto. Si fermano, l’uno di fronte all’altro. Arpegius è rosso in viso, va di fretta. E indossa l’armatura che stava lucidando nel pomeriggio.
Se hai qualcosa da dirmi, io sono qui, gli suggeriscono gli occhi azzurri di Ahorn. L’altro abbassa lo sguardo, poi rialza la testa di colpo. 
“Sto partendo. Mia cugina Normanna è stata rapita da gente di malaffare.” 
Lo fissa dritto nelle palle degli occhi. Ahorn annuisce.
“Non so quando tornerò, né se tu sarai ancora qui” dice il ragazzo con un attendente che lo incita a sbrigarsi.
“Nobile Copperplate, il vostro cavallo vi attende nella corte” e sentendo che l’uomo gli da del voi, Ahorn capisce che l’amico è stato ordinato paladino prima di lui.
Arpegius annuisce. Il tempo è poco. “Non chiedermi nulla.”
“Non lo farò.”
“Abbi fiducia in me.”
“Lo farò.”
“Acque pacate e dolci risate finché non ci rincontreremo!” si dicono stringendosi la mano, ed entrambi se ne vanno in direzioni opposte, l’uno al dormitorio e l’altro alla corte.


 

10.

Sono passati sei mesi da quando è stato consacrato paladino di Torm. Ricorda ancora la potente mano di sir Applesonn dargli l’accollata e accoglierlo nel novero del braccio armato della Chiesa di Torm, le lodi che s’alzavano squillanti per la volta azzurra del Tempio Maggiore, e le lacrime di commozione che facevano capolino dagli occhi dei confratelli più anziani.
Ha aspettato Arpegius per tre mesi, poi è dovuto partire in missione anche lui, giù nel Cormyr, per aiutare dei confratelli che avevano richiesto assistenza a Tantras, e al suo ritorno, ha scoperto che il vecchio gruppo non esisteva più. Shelab è partito per l’Anauroch, Tabitha è andata ad Icewindale, mentre Nilof e Blumenweg sono stati assegnati al Mare delle Stelle Cadenti.
Lui, però, è tornato. È tornato perché aveva una promessa da rispettare, attendere il ritorno di Arpegius e sentire la storia dalle sue labbra.
Quello che è successo quindici anni avanti lo sa perché l’ha sentito il giorno della Consacrazione, quando i nomi dei martiri che si immolarono per la causa sono risuonati forti e chiari nel Tempio Maggiore. Aurelianus Copperplate e Azalea Fauntleroy Copperplate. Il padre e la madre di Arpegius. 
Solo che Ahorn vuole sentirlo da lui. Vuole che Arpegius si sieda accanto a lui e gli racconti quello che vuole a riguardo, e che sia lui a spiegargli che non poteva aprire bocca per un ordine ricevuto dall’alto.
È una questione di principio.
È il 25 Hammer. Fa freddo, pur essendo Solealto. Il cumulo che è la base degli Zhentharim appare sfocato all’orizzonte, una macchia nera su uno specchio antico. 
“ Chissà quando potremo calare in massa e fare il culo a strisce a quei porci, eh?”
“Ti sei messo a parlare come Blumenweg?” domanda Ahorn inarcando un sopracciglio. 
Non l’ha sentito arrivare. È in piedi, accanto a lui, il profilo che si staglia contro al sole nascosto dalle nuvole, gli occhi fissi sull’altra sponda del Lago.
“Diciamo che nell’ultimo gruppo c’era un elemento che me lo ricordava molto…”
“Ah, immagino che sia per questo che sei passato a miglior vita, perché stavi facendo una delle tue solite idiozie…”
“E tu come lo sai?” domanda Arpegius sorpreso, l’espressione di chi è colto in castagna.
Ahorn fa spallucce. “Le notizie volano, si sa…”
“Sempre le migliori, vero?” prova a scherzarci su, ma si vede lontano un miglio non è propenso a parlare di quell’argomento. Pazienza, aspetterò, pensa Ahorn allungando l’occhio sul fagotto che tiene in mano il compagno.
“Ti trovo bene” sputa fuori, dicendosi che sì, sta molto meglio ora che può vivere il suo passato alla luce del sole.
“Grazie. Anche tu non stai male.” Arpegius posa il fagotto sul parapetto del camminamento. “ Ho del cacio appena appena stagionato. Ne vuoi un po’?”
Ahorn annuisce, e i due si siedono sulle scalinate che portano al corpo centrale. Fa troppo freddo per mangiare sul camminamento come d’estate. Cacio, pane per mandarlo giù e vino rosso per innaffiare quello spuntino.
“Certo, se ci fosse stato anche Blumenweg sarebbe stato più facile trafugare il vino…”
“Sei un paladino, adesso, non un donzello scapestrato” l’ammonisce Ahorn addentando il formaggio.
“Ma ho lasciato una moneta d’oro nella dispensa” lo rassicura l’altro. Ahorn lo guarda perplesso.
Che senso ha? Non avrebbe fatto prima a comprare del vino, pagandolo anche molto meno, piuttosto che trafugarne un fiasco per metà vuoto? Arpegius. Copperplate. È completamente pazzo, pazzo da legare, ricordi?, gli suggerisce la sua memoria, e allora lui addenta un altro morso di formaggio.
Arpegius gli racconta gli ultimi tre mesi con dovizia di particolari. La missione per recuperare Norianna, la Cittadella sotto terra a due passi da Collequercia, il suo ritorno a Tantras e la sua investitura formale, e poi via ancora una volta, a ripescare quella scavezzacollo di sua cugina che si era andata a cacciare ancora una volta nei guai. 
Ahorn ascolta mangiando il racconto dell’amico, poi sta a lui vuotare il sacco e dirgli delle sue missioni, delle sue esperienze, della vita senza quel pazzo di Blumenweg e degli altri tre compagni. “Siamo esplosi come una raffica di triboli”, commenta infine prendendo il fiasco di vino e portandoselo alla bocca.
Arpegius mormora un “già…” di circostanza, come a dirgli che avrebbero dovuto aspettarselo, che avrebbero dovuto sapere che le cose sarebbero cambiate e che il loro destino sarebbe stato lo stesso, ma da svolgersi in luoghi diversi e lontani l’uno dall’altro.
Tacciono. Pane e formaggio sono finiti, e anche il vino è agli sgoccioli. È tempo di vuotare il sacco, pensa Arpegius stringendosi le nocche della destra nella mano sinistra. Ahorn fa finta di non vedere e di questo lo ringrazia. Prende un respiro. Suvvia, che sarà mai? Deve solo aprire bocca e dargli fiato, e in quello è un maestro, specie nel sonno o quando ha alzato troppo il gomito.
Invece ha scelto apposta un fiasco a metà così da non ubriacarsi. Deve restare lucido. Vuole restare lucido. I capelli corti di Ahorn si muovono leggeri nel vento che spira da sud. Tra poco suonerà la campana del pranzo. Tanto vale aspettare che non ci sia nessuno per i camminamenti. Così non avrà più scuse.
Ahorn attende paziente, gli occhi fissi verso la tana degli Zhentharim. E lui decide che, a furia d’aspettare troverà sempre e comunque un motivo per procrastinare ancora e ancora e ancora.
Un po’ si vergogna, ma poi si dice che, dopo tutto, lui già lo sa, e aspetta solo di sentirlo dire dalla sua voce. Avanti, dimostra a tutti che sei un Copperplate!
“Sono arrivati da laggiù…” dice indicando la roccaforte del nemico. “Un colosso nero che si è immerso nell’acqua per poi riemergere ancora più enorme e mastodontico di prima.”
E Ahorn non vede l’ora di ascoltare per filo e per segno tutta la storia, e magari anche qualcosa in più.
   
 
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