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Autore: Shomer    01/11/2013    3 recensioni
Fine anni '80: in un paesino sulla costa della nostra penisola, un gruppo di amici si ritrova a dover percorrere il difficile cammino che porta alla maturità.
C'è chi è innamorato di qualcuno con cui è incapace di stare insieme, chi non ha idea di cosa fare della sua vita, chi da sempre ottimi consigli ma è il primo a non seguirli, chi non è corrisposto, chi ha un peso che finirà per schiacciarlo, chi cambia giro, chi non vuole cambiare mai. Ci sono le serate in macchina, i litigi per la musica da ascoltare, gli amori, le insicurezze, i ricordi, le decisioni che non si vorrebbero prendere e i segreti che in un modo o nell'altro vengono a galla.
C'è qualcosa che se ne va e non torna più. E il momento in cui ci si rende conto che ad alcuni errori non si può rimediare.
Questa storia si è classificata prima al contest "Quadri e Picche: il contest delle sorprese!" indetto da phoenix_esmeralda, Slappy e Gaea.
Prima classificata al contest "Il meglio di me" di Lilith in Capricorn.
[REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Tre
Se ci fosse la luna si potrebbe cantare. - Francesco De Gregori


Estate 1989


Il cofano anteriore della macchina di Janis era abbastanza lungo, quindi non fu difficile sedersi lì sopra in tre. Il problema di quell’apriscatole con le ruote era che, nonostante fosse una “principessa d’epoca”, come la definiva il suo proprietario, era terribilmente scomoda da usare come divano. Avevo il gomito di Freddie che premeva sulla mia spalla e il bacino di Janis che si scontrava col mio ginocchio. Nessuno di noi poteva fare movimento bruschi, altrimenti saremmo scivolati per terra.
Freddie era sdraiato sul cofano in posizione semiseduta, facendo leva con i gomiti, con una mano teneva una birra e con l’altra una sigaretta. Guardava il cielo con un’espressione strana, a tratti malinconica e a tratti rilassata, lanciandomi ampi sorrisi di tanto in tanto.
Mio cugino a volte si sdraiava e a volte si alzava, appoggiandosi al cofano e dandoci le spalle; raccoglieva delle pietre per terra e le lanciava giù nel dirupo che era a circa cinque metri da noi. Le osservava attentamente mentre erano in aria e sbuffava se il lancio non era abbastanza lungo.
Mi guardai intorno e cercai disperatamente di non pensare ai momenti passati in quella piccola collinetta; mi sforzai di scacciare dalla mente le immagini di tutti noi, felici, che ridevamo appoggiati all'apriscatole e al motorino di Marco, come se fossimo nella nostra oasi felice, lontana da tutti i problemi della “vita reale”.
«Ci vuoi andare, Lenticchia?» mi chiese Freddie, rompendo il silenzio. Vidi con la coda dell’occhio Janis che serrava la mascella e mi si strinse lo stomaco.
Mi voltai verso Freddie senza incrociare il suo sguardo, che era puntato verso le tantissime luci che si riuscivano a vedere da lì.
«Sì» risposi. «Domani.»
«Domani…» borbottò Janis, tra sé e sé. «Allora verranno anche Gaia e Marco.»
Freddie buttò giù un lungo sorso di birra e mio cugino lanciò con rabbia un'altra pietra. Io mi accesi una sigaretta.
«Devi dire a Gaia che sono arrivata» mormorai. «Non voglio scenate. Non domani.»
Janis mi rivolse un’occhiata. Il suo volto era calmo e impassibile, ma riuscii a scorgere una punta di inquietudine nei suoi occhi che erano diventati così impenetrabili.
Gli sfiorai la mano con la punta delle dita, pentendomene subito dopo e ritraendola, ma lui la seguì con lo sguardo.
«Glielo dirò» disse. «Anche se non capisco perché questi compiti poco piacevoli spettino sempre a me.»
«Vorresti che glielo dicessi io?» domandò Freddie dal collo della sua bottiglia, con un sopracciglio alzato.
«Potresti farlo» rispose. «Siamo o non siamo amici?»
«Scordatelo, amico» decretò Freddie. «Non vedo Gaia da settimane. Sei l’unico che la vede.»
Janis annuì sconsolato, come se l’ultima cosa che volesse fare era vedere Gaia, e io ebbi un tuffo al cuore. Provai una piccola morsa di rabbia e gelosia al pensiero che loro due si fossero visti da soli probabilmente per tutto l’inverno, ma cercai di scacciarla subito così come era nata. Sperai che tra loro non ci fosse nulla, ma giurai a me stessa che mai e poi mai gliel’avrei chiesto.
«Perché Marco ad un certo punto ha smesso di volermi sentire?» domandai, cercando un pretesto qualsiasi per cambiare discorso.
Janis sorrise in modo strano. «Ha cambiato giro» disse. «Ha conosciuto una ragazza, una di quelle che la domenica ti invitano a cena con i genitori. Che schifo.»
«Dice di voler mettere la testa a posto» continuò Freddie. «E a quanto pare alla fidanzata non piacciamo.»
«In realtà non piacciamo a nessuno, dopo quello che è successo» commentò Janis, cupamente.
«E’ un piccolo paese, questo. Alla gente non importa molto dei fatti reali.»
Freddie si passò una mano sulla fronte con aria sfinita. Io ero stata via un anno e non potevo sapere quello che avevano passato per tutto l’inverno, però ero perfettamente a conoscenza del tipo di gente che viveva a pochi passi da casa mia. Nel mio paese le persone parlavano e parlavano, esprimendo giudizi su fatti ascoltati al bar o in piazza e quindi del tutto distorti, facendo circolare voci palesemente false giusto per il gusto di fare quattro chiacchiere. E’ così in tutti i piccoli paesi e il mio non era sicuramente da meno.
«Non lo sapevo» ammisi. «Quindi è per questo che mia madre l’altra sera mi ha detto che dovrei cambiare amicizie.»
«Sicuro» disse Freddie, ridacchiando sotto i baffi. «Janis è intoccabile, Gaia e Marco non li vedi più e rimango solo io. Tua madre lo sa che qui in mezzo sono l’unico capace di intendere e di volere?»
Risi, vedendo con la coda dell’occhio Janis che scuoteva la testa. «Che cosa dicevano di voi?» chiesi.
Mio cugino sospirò e si sedette sul cofano dell’auto, continuando a darmi le spalle. «Dicevano che eravamo anche noi nel giro. E che siamo stati noi a trascinarlo… insomma, che la colpa di quello che è successo è nostra.»
«Che stronzi.»
«Mia madre e tua madre non mi hanno dato pace per mesi, poi hanno capito.»
«Ma intanto  quando mi vedono si girano dall’altra parte» borbottò Freddie.
Sospirai profondamente. Mia madre e mia zia non erano famose per la loro discrezione, anzi, se in paese qualcuno avesse stilato una classifica delle donne più pettegole o che più prendevano questo genere di dicerie come oro colato, probabilmente loro due sarebbero state le prime. Nonostante mia zia da giovane si atteggiasse a figlia dei fiori libertina tanto da dare a suo figlio un nome assurdo come Janis, che se non sbaglio era di qualche pacifista che lei aveva conosciuto chissà dove, poi l’influenza di mia madre si era fatta sentire. Non sapevo come mai mia madre durante le nostre brevi telefonate invernali non mi avesse mai parlato di tutto questo, però da una parte ne ero contenta: era meglio non sapere. In questo modo, ero riuscita a staccarmi molto più facilmente dalla vita che avevo condotto a casa e in alcuni momenti ero riuscita a non pensarci. Janis e Freddie, però, avevano dovuto sopportare mesi e mesi di false dicerie, venendo presi di mira e tartassati, ritrovandosi davanti agli occhi qualcosa che avrebbero solo voluto dimenticare. Questo non era giusto. Avrei dovuto esserci.
«Dovevo starvi vicino» mormorai.
Mi sorrisero entrambi, Janis un po’ più amaramente e Freddie con serenità.
«Ci avresti difeso con le tue braccia possenti, Lenticchia?» provò a scherzare quest’ultimo.
«Lenticchia paladina della giustizia» commentò mio cugino.
«Smettetela, idioti» borbottai.
Janis rise e si sdraiò sull’auto, facendo stringere me e Freddie. Rimanemmo lì per ore, stretti, con le nostre spalle che si toccavano e attenti a non fare un qualsiasi movimento che avrebbe potuto far scivolare qualcuno per terra.
Non parlammo più molto perché non ce ne era bisogno, bastava solo essere di nuovo insieme. Ma anche se noi eravamo lì a guardare le stelle, nel luogo dove avevamo passato le serate più felici della nostra vita e con in mano quelle stupide birre che piacevano tanto a Febri, una parte di noi non c’era. Se ne era andata per sempre.

 

 

Estate 1988


Janis aveva quello strano modo di sorridere che riusciva a farmi provare una morsa allo stomaco ogni volta che lo vedevo. Quando sorrideva, gli si formava una fossetta sulla guancia destra e gli si illuminavano gli occhi; per questo fin da bambina io avevo sempre detto  «Janis sa sorridere solo con gli occhi» e ogni tanto gli coprivo la bocca con la mano per far vedere a tutti che riuscivo ad accorgermi quando sorrideva, anche senza guardargli le labbra.
Mio cugino aveva passato tutta la sua vita ad essere felice, costantemente, tanto che un anno prima se qualcuno mi avesse chiesto di ricordarmi il suo volto senza sorriso, gli avrei risposto che era impossibile, che la sua immagina era stampata nella mia mente allegra e spensierata, come era sempre stata. Perfino quando dieci anni prima era morto il suo cane, Furetto, lui aveva piegato la bocca con tranquillità e accettazione dicendo che non dovevamo piangere perché il cane era andato in un posto migliore ed era felice. Ho sempre invidiato la sua capacità di essere ottimista e speranzoso, qualsiasi cosa succedesse. Io sono paranoica e ansiosa e tendo sempre a trascinare le persone nel mio stato di agitazione perenne, come mio cugino non tardava mai a farmi notare.
«Ma per fortuna io sono immune a questo tuo potere» diceva sempre. «Anzi, se ti prendo per le spalle e ti scuoto un po’ riesco pure a farti smettere di essere pazza!»
Quando tornai a casa dall’università trovai però una situazione un po’ diversa: Janis era sempre lo stesso, o meglio così si sforzava di apparire agli altri, ma un’osservatrice attenta come me se ne accorgeva, che anche lui era stato segnato. Quando sorrideva gli occhi gli si piegavano di meno, e quando mi guardava non riusciva più a trasmettermi tutta la sua positività e la sua voglia di vivere e di spingersi sempre al limite.
Se qualcuno un anno prima mi avesse chiesto perché era così difficile per me stare lontana da mio cugino, avrei risposto che mi faceva sentire viva e che ero innamorata di lui perché quando gli ero accanto sentivo di poter fare qualsiasi cosa. E poi perché sapeva sorridere.
Se qualcuno, ad un anno di distanza, mi avesse chiesto se ero ancora innamorata di lui, anche se non sorrideva più come prima e si era spento, avrei risposto: «sì». E sarebbe stato un «sì» sincero, perché nonostante avessi provato per un anno a staccarmi da lui e forse un po’ anche a dimenticarlo, avevo dovuto accettare il fatto che mai e poi mai ci sarei riuscita, perché avrei portato una parte di Janis con me per sempre, anche se non fossi riuscita a sopportarlo e anche se il destino prima o poi ci avesse diviso.
Ogni cosa di mio cugino riusciva a ricordarmi costantemente che non sarei mai  riuscita a stargli lontana: il modo in cui si metteva un ciuffetto di capelli dietro l’orecchio, o quel modo stupido che aveva di salutare i suoi amici, addirittura il suo modo di ingozzarsi mentre mangiava. 
Avevo bisogno di lui perché era l’unico capace di farmi smettere di piangere, l’unico che riusciva a ricordarmi che il mondo era di più e che non era tutto lì, nella mia testa, nelle quattro mura in cui era rinchiuso il mio cervello che a volte scalpitava per uscire. 
Di Janis amavo l’espressione dolce che assumeva quando mi chiamava “Lenticchia”, quella cosa strana che faceva con gli occhi quando alludeva a qualcosa che sapeva mi avrebbe messa in imbarazzo e anche il suo modo di essere così protettivo con me.
Dentro di me, però, sapevo che tutto questo non ci avrebbe portato da nessuna parte. 
Lui invece non lo sapeva: nel vocabolario di Janis le parole “impossibile” e “fallimento” non erano contemplate, lui andava sempre avanti fregandosene di quello che sarebbe successo, perché era fatto così e alla fine di come avrebbero reagito gli altri gli importava poco.
Febri era una via di mezzo tra me e Janis, era quello che si frapponeva tra me e lui e cercava di farci collidere nel verso giusto e io avevo un disperato bisogno di lui, perché altrimenti mio cugino avrebbe finito per assorbirmi, e di questo avevo una tremenda paura. Per questo quando confessai l’inconfessabile, Febri si arrabbiò.
«Quand’è che Janis imparerà a pensare col cervello?» sbottò, cercando di mantenere un tono di voce basso e cortese nonostante il suo umore fosse tradito dalla vena ben evidente sulla sua fronte. «Sei sua cugina, porca puttana!»
«Febri, stai calmo» dissi io, guardandomi intorno e accertandomi che gli altri fossero ancora tutti in acqua.
Per tutta risposta lui afferrò una pietra e la lanciò con rabbia sulla sabbia, facendo allontanare un bambino che stava giocando a pochi metri da noi.
Lo guardai negli occhi segnati da due profonde occhiaie e lui distolse lo sguardo, stringendo i pugni. «Febri, da quant’è che non dormi?» chiesi, posandogli una mano sul braccio.
«Un po’» ammise, brusco. «Ho problemi con quella ragazza di cui vi parlavo.»
«E quando hai intenzione di presentarcela?» insistei, sperando di chiudere in questo modo il discorso Janis. Non volevo che Febri si arrabbiasse con me o con lui.
«Quando la situazione si normalizza» disse. «Ma non cercare di cambiare discorso, Mara. Perché hai baciato Janis? Lo sai com’è fatto!»
Abbassai il volto, sentendomi un po’ colpevole. Mi portai le ginocchia la petto e lanciai un’occhiata alla riva, dove mio cugino aveva preso Gaia sulle spalle le faceva fare i tuffi, con Freddie e Marco che ridevano a pochi metri da loro. Cercai di scacciare il moto di rabbia che sentivo nascere.
«So che non dovevo» dissi, un po’ sconsolata. «Tutto questo è un vicolo cieco.»
Febri sospirò, passandosi una mano tra i capelli scuri e scoccandomi un’occhiata di rimprovero. Aveva un’espressione delusa e amareggiata, una di quelle che mi faceva sentire tremendamente in colpa e forse sapevo cosa stava pensando: che tra noi tre le cose non sarebbero state più come prima. 
Io e Janis non avevamo ancora parlato di quello che era successo qualche giorno prima: avevamo semplicemente fatto finta di niente, anche se ogni tanto lui mi lanciava occhiate allusive e cercava sempre il contatto fisico. Gli altri ragazzi non avrebbero mai potuto notare che c’era qualcosa che non andava, perché in fondo eravamo imparentati, ma Febri non era come loro. Sapeva che tra me e Janis c’era sempre stato qualcosa di strano, anche se nessuno ne aveva mai parlato.
«Conosco Janis meglio di chiunque altro» disse poi, grave. «Se non otterrà quello che vuole finirà male, Mara. Ormai sono cinque anni che vi osservo e fidati, non si accontenterà di qualche bacio di nascosto.»
«Lo so!» scoppiai, passandomi le mani tra i capelli. «Che cosa credi, che non abbia pensato solo a questo negli ultimi giorni? So perfettamente che Janis sta solo aspettando il momento giusto per costringermi a parlare di quello che è successo!»
Febri mi scoccò un’occhiataccia. «Ti dico io cosa succederà: Janis da te vorrà qualcosa di concreto che tu non sarai in grado di dargli, perché è tuo cugino e hai paura di quello che potrebbe succedere. Questa cosa lo farà star male, molto male, lo ucciderà dentro, perché non è il tipo che si accontenta, lui è il tipo che vuole tutto e lo vuole subito, infatti con te ha aspettato fin troppo. Le cose a metà lo logorano, quindi a questo punto probabilmente ti odierà e troverà il modo di vendicarsi, perché lui è fatto così.»
Mi sentivo come se le parole di Febri mi stessero schiacciando e mentre lo guardavo dritto negli occhi mi sembrava strano, quasi irriconoscibile: non riuscii a trovare il mio amico, là dentro. Mi stava dicendo quelle cose quasi con cattiveria e non con comprensione, come aveva sempre fatto, ma come se volesse farmi male. Le stava dicendo con quel piacere perverso che si prova quando si va da qualcuno a dire “te l’avevo detto”.
Non ebbi modo di rispondergli perché gli altri tornarono bagnati fradici alla nostra distesa di asciugamani e Janis si sedette dietro di me, abbracciandomi e dandomi un bacio umido sulla spalla che mi fece rabbrividire.
«Di che parlate, amici?» disse, stringendomi la pancia. Io sorrisi voltando la testa verso di lui, rendendomi conto che quanto era vicino a me riuscivo a sentirmi più tranquilla e in pace. 
Mentre ero con Janis il pensiero di quello che sarebbe successo tra me e lui se ne andava, ma quando ero da sola o quando lui non c’era, il ricordo di quel bacio e la paura per le conseguenze arrivavano a tormentarmi, impedendomi di dormire e facendomi fumare una sigaretta dopo l’altra per il nervosismo. Non potevo rischiare di perderlo perché senza di lui sarei stata incompleta, non sarei stata più io, ma non potevo neanche averlo accanto. 
Janis era uno di quei ragazzi che da una persona vuole tutto, sfinendola a volte, ed era vero che un amore segreto o difettoso come quello che potevo dargli io sarebbe stato insufficiente e l’avrebbe ucciso. Ma dargli quello che voleva lui avrebbe ucciso me.
«Del fatto che il caro Marco prima o poi smetterà di studiare e andrà a lavorare alle poste» mentì Febri, con un sorriso. «Quelli come lui finiscono sempre alle poste!»
«Che schifo» disse Marco, che si era lasciato cadere malamente sul suo asciugamano tra Gaia e Freddie. «La morte piuttosto che lavorare alle poste come mio padre!»
«Fossi in te ci farei un pensierino» disse Freddie, allegro. «Vedo la tua laurea in lettere allontanarsi sempre di più!»
Ridemmo tutti, anche Marco, nonostante quell’anno non si fosse dato molto da fare con lo studio e dovesse subire le continue pressioni di suo padre che voleva a tutti costi che si mettesse a lavorare.
«Beh, ragazzi, io vi saluto» disse Febri, alzandosi e mettendosi in testa il suo solito cappellino da baseball. «Ci vediamo stasera da Rob.»
«Dove vai?» gli chiese Gaia, che si era già sdraiata sul suo asciugamano pronta a prendere il sole come una vera lucertola.
«A soddisfare le mie voglie carnali» rispose lui, ammiccando allusivamente.
Io risi mentre gli altri ragazzi cominciavano a fare battute a sfondo sessuale e si raccomandavano di usare le precauzioni. 
Non sapevamo che quelle raccomandazioni erano del tutto inutili, perché in realtà Febri non stava vedendo nessuna ragazza.

 

Estate 1989
 

Gettai la cenere nel pacchetto vuoto di sigarette che avevo sul comodino e continuai a guardare il fumo che saliva piano verso il soffitto. Le mura della mia stanza erano di un arancione sbiadito, uno di quei colori caldi che mi facevano sentire a casa; quelle della stanza in cui abitavo per l’università erano invece bianche e asettiche, fredde, e mi inquietavano. Se Febri ci fosse stato, sicuramente mi avrebbe aiutato a dipingerle o mi avrebbe regalato qualche quadro, uno di quelli che dipingeva lui, per rendere la stanza meno spoglia. 
Voltai la testa e davanti agli occhi mi si parò una foto che avevo sul comodino; sorrisi amaramente pensando che erano passati esattamente due anni, poco tempo se paragonato a quello di una vita intera, eppure era cambiato tutto. Quella foto ci ritraeva tutti insieme: io, Janis, Febri, Freddie, Marco, Gaia e anche Rob, felici, con dei ridicoli cappellini in testa e una torta di compleanno con scritto “Tanti auguri Febri”. Era il 25 luglio 1987. Gettai un’occhiata al calendario: 25 luglio 1989.
«Mara, posso entrare?» disse la voce di mia madre, dall’altra parte della porta.
«Sì.»
Mia madre spalancò la porta ed entrò in camera, cominciando a raccogliere i vestiti che la sera prima avevo malamente gettato in terra. «C’è tuo cugino che ti aspetta di sotto» mi disse. «Ha detto di darti una mossa perché lui e quell’altro vostro amico hanno solo un’ora di permesso.»
Annuii e spensi la sigaretta, alzandomi lentamente. Mi sentivo il viso arrossato e la mente stanca, incredibilmente stanca.
«Mara, si può sapere perché tu e tuo cugino continuate a frequentare ancora queste persone?»
Lanciai un’occhiata di sbieco a mia madre, infilandomi le scarpe. «Perché sono nostri amici.»
«Quell’Alfredo non mi piace, non mi è mai piaciuto» commentò mia madre. «Neanche Fabrizio mi piaceva, e infatti…»
Mi cadde una scarpa per terra per lo stupore; mia madre in qualche modo riusciva sempre ad essere inopportuna, anche se non lo faceva apposta. Raccolsi la scarpa e me la infilai velocemente, adesso ansiosa di uscire da quella stanza. «Hai pensato di telefonare al figlio del dottor Serli? Potreste andare a mangiare qualcosa insieme, una sera di queste…»
«Mamma, non è giornata» sbottai, prendendo la borsa e infilandoci dentro portafogli e sigarette.
«Per te non è mai giornata!» disse mia madre, appoggiando i miei vestiti sulla sedia e guardandomi con le braccia conserte. Io le voltai le spalle e uscii dalla mia camera.
«Ci vediamo dopo» dissi, cominciando a scendere le scale in fretta. Uscii di casa sbattendo la porta e trovai Janis in macchina, armato di occhiali da sole e sorriso spento.
«Guarda che non finisce qui!» sentii mia madre gridare. Mi girai e mi accorsi che si era affacciata dalla mia finestra. «E smettila di fumare così tanto, che sei in età fertile!»
Scossi la testa in direzione di mio cugino ed entrai in macchina, accomodandomi nel posto del passeggero e aprendo il finestrino.
Lui suonò il clacson in segno di saluto. «Ciao zia!» urlò mentre partiva. Mia madre gridò qualcos’altro, probabilmente qualche raccomandazione, ma noi non la sentimmo.
«Perché tua madre era arrabbiata?» mi chiese, con lo sguardo fisso sulla strada.
«Vuole che cominci a frequentare quell’idiota di Giacomo Serli. Lo sai com’è lei, si è sposata a diciott’anni quindi pensa che io che ne ho ventidue dovrei già avere almeno due figli…»
«Sì, sono anni che fa così» commentò Janis amaramente. Si girò per un millesimo di secondo nella mia direzione e il mostro con le sue fattezze, quello che avevo nella pancia, mi graffiò le pareti dello stomaco. Deglutii ed evitai di raccontargli ciò che mia madre aveva detto su Freddie e Febri.
«Dov’è Freddie?» chiesi.
«E’ già lì.»
«E Gaia?»
«La va a prendere Marco.»
«Perché non ci sei andato tu?»
«Perché volevo venire da te.»
Janis voltò la testa verso di me e sorrise teneramente; per un attimo sul suo viso riuscii a scorgere il ragazzo pieno di vita e di speranza che era stato un tempo, esattamente un anno prima. Dopo cinque minuti arrivammo a destinazione e Janis accostò la macchina al marciapiede, io lanciai uno sguardo dal finestrino e, con gli occhi che cominciavano a pizzicarmi, feci un profondo sospiro e scesi dalla macchina.
Mio cugino fece il giro e mi raggiunse, prendendomi per mano e cominciammo a camminare. Il cimitero del mio paese era piccolo ed era tutto bianco: le mura che lo circondavano erano chiarissime e anche il cancello era dipinto di bianco, cosa che secondo me era abbastanza inquietante. Era pieno di gatti randagi e oleandri, penso un po’ come tutti i cimiteri.
Camminavo tenendo la testa bassa, non ricordando bene la strada dato che non mettevo piede lì da un anno, e seguivo mio cugino tenendolo per mano. Lui camminava velocemente senza neanche guardarsi intorno, segno che era andato lì più volte di quante avessi immaginato. Appena avvistammo gli altri in lontananza liberò la mia mano dalla sua presa e ci avvicinammo.
Marco era ad una decina di metri da Gaia e Freddie e stava fumando una sigaretta dando le spalle agli altri; loro due invece erano abbracciati e Gaia piangeva. Marco mi aveva detto che piangeva sempre, quando andava lì. Io probabilmente ancora non riuscivo a rendermi conto di dove mi trovavo e perché, dato che era la prima volta che ci tornavo dal funerale, ma quando la vidi, quella scritta nera sul marmo bianco, mi sentii come se non ci fosse più la terra sotto i miei piedi. Afferrai velocemente la mano di Janis e intrecciai le mie dita alle sue, di nuovo, noncurante del fatto che gli altri mi avrebbero visto, e lo feci con una stretta talmente forte che lui contraccambiò con altrettanta impazienza. Per un attimo pensai ingenuamente che se mi fossi aggrappata a lui sarei rimasta ancorata al terreno, ma poi lessi attentamente la scritta nera.
“Ci allontaniamo e poi ci ritroviamo più vicini. Fabrizio Galea, 25 luglio 1967 – 28 agosto 1988”.
Trattenni un singhiozzo e chiusi gli occhi.
Febri se ne era andato per sempre.

   
 
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