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Autore: Gaia Bessie    01/11/2013    4 recensioni
Qualcuno dice che, per Annabeth Castellan, la guerra non è mai finita. Lo s'intuisce dal sorriso carico di malinconia che dedica ai sottomessi della gerarchia di Crono, o dalle parole troppo dure che rivolge al marito. Siamo come estranei, Luke, estranei con dei ricordi. Eppure si dice che la vita non ci lasci mai cicatrici che non siamo in grado di sopportare. Oppure ci lascia sulla terra per essere trafitti con aghi d'acqua.
[Luke/Annabeth/Percy; OC | Post fine quinto libro alternativo| Mini long| Angst]
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Nico di Angelo, Percy Jackson, Rachel Elizabeth Dare
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Fingerò di non essermi scordata che oggi è effettivamente venerdì (My Luke, quanto sono Annabeth in questi giorni) e di aver deciso di postare a quest'ora perché sì. Mi sembra una motivazione assolutamente plausibile e certamente adattabile all'IC di un personaggio che io, personalmente, non avrei mai voluto inventare.
Dopo questo breve sclero sul mio discutibile carattere, passiamo alle premesse per questo capitolo: allora, "Dimmi che mi ami". Sorvolando che questo non lo è (leggi: lo è) un riferimento casuale e che non è assolutamente parte di uno dei miei scleri con la "s" maiuscola 
– Sil, my love, so che stai leggendo e sai di che parlo. Ma, ti prego, non dire nulla che mi faccio già abbastanza pena da sola. Dovrebbero proibirle, certe cose.
Comunque, comunico subito che è un capitolo complesso sotto molti punti di vista, sia per tematiche che per l'odio che è scaturito nei confronti di un personaggio. Chi mi conosce, a questo punto, suppongo che avrà cominciato a tremare. Detto fra noi: fa bene. Fa davvero bene.

Detto questo, non voglio spoilerare oltre, ci vediamo con le note e citazioni alla fine del capitolo. Buona lettura e grazie a chi recensirà.

 
 
 

 
Continuo a scriverlo, nella speranza che un giorno lo leggerai.
Anche se non serve a nulla.
Ma va bene così: il titolo del capitolo dice tutto.
 
 
 

Percy è vivo. Quelle poche e semplici parole le rimbombano in testa, stordendola più del dovuto e rendendo il resto confuso in una nebbia lattiginosa che le si staglia davanti, bellissima e senza confini. Alza lo sguardo, perplessa, solo per incontrare l'espressione ferita sul volto di Luke. Forse, per un attimo, le dispiace: ritornano con prepotenza quegli attimi in cui lui si è veramente curato di lei, come quando la trovava rannicchiata fra il letto e il comodino, perché aveva sognato la guerra. Di nuovo.
Lui scivolava sempre accanto a lei, con infinita dolcezza, per scacciare con le mani i suoi incubi che, lo sapeva, dovevano essere terribili.

(Ad Annabeth non era mai venuto in mente che, probabilmente, lui aveva i suoi stessi incubi. Quelli che, urlando, lo tenevano sveglio per scacciare i suoi).

Solo che non riesce a pensarci per troppo tempo: un pensiero la scuote e continua a distrarla, costringendola a concentrarsi su quelle poche parole che le hanno decisamente accelerato il battito cardiaco. Percy è vivo. E lei non ha idea di cosa potrebbe fare pur di rivederlo, adesso che potrebbe averne l'occasione.
Vede la sua immagine riflessa nello specchio appeso malamente nel bagno, incrinato su un lato, sporco di dentifricio; ha come una strana luce negli occhi, che le rischiara un po' quel volto stanco e segnato. E poi, lo vede: come un'ombra, Luke le passa accanto, le sfiora la spalla e la trascina in quella realtà ben più dolorosa dei suoi sogni.

(Oggi è martedì: per qualche sciocco scherzo del destino lei se n'è nuovamente dimenticata).

«Avevi promesso, Annabeth» è il sussurro esausto di suo marito. «Ti ho tenuta al sicuro, non farmi questo» e la guarda, implorante, stanco. «Oggi è martedì».
«Mi avevi detto che era morto» immobile, fuso nella terra insieme agli altri. Lontano da lei. «Mi avevi detto che non mi avresti mai mentito» e lo guarda, delusa. «Che non mi avresti ferita in nessun modo». Se non in quel modo sciocco, stupido, che aveva di approcciarsi a lei come se fosse più forte della realtà. E non lo era mai, Annabeth.
«Non l'ho fatto» mormora lui e gli zigomi sporgenti si pennellano di un tenue rosa chiaro. «Ti ho dato tutto, Annabeth». Troppo, vorrebbe dirle. Ho dimostrato di avere un cuore, proprio io che ero conosciuto per essere ben più freddo del comune ghiaccio, proprio io che non conoscevo nemmeno la pietà.

(Che strano. Fra di loro era lei quella fredda come ghiaccio, proprio lei che avrebbe dovuto essere tutta un cuore).

«A volte tutto non è abbastanza» risponde lei, laconica, rigirando fra le dita la fede nuziale. E reprimendo l'istinto di toglierla e gettarla via, lontano da lei. «Non trovi?».
«Non te ne andrai» dice lui, diventando tagliente come la lama di un rasoio. «Non lo farai, Annabeth, ne sono certo» e suona un po' come un'accusa. «Resterai con me».
Lei non fa nemmeno in tempo a parlare, che già lui le da la risposta a una domanda che non ha ancora posto: l'anticipa su tutti i fronti, lasciandola indifesa davanti a lui.
«Perché ti ho presa, raccolta dalla polvere quando non c'era nessun altro» risponde, semplicemente. «Perché ti ho amata quando lui non ha potuto farlo». Sorride. «Perché è mio figlio, quello che porti in grembo, non suo».
Lei sospira, affranta, di nuovo distrutta nella luce filtrata di quel bagno così piccolo, col colorito pallido di un'annegata. Vorrebbe esserlo. Ma Percy è vivo.

(Non le importa già più).

 

 

***

 

Grandi vasi vengono vuotati nel mare, una bocca che vomita polvere nera nelle profondità più recondite dell'oceano, una polvere magica pagana che lei non conosce.
«Che cos'è?» sussurra, perplessa, mentre suo marito osserva con estrema attenzione tutto il processo.
«La morte dei traditori» risponde Luke Castellan, una sfumatura di soddisfazione nella voce.
La cenere sprofonda nel mare.

 

 

 

***

 

Il Nord è una landa desolata, tutta spiaggia e relitti, una terra di mezzo piena di detriti che nessuno ha mai raccolto. Ricordi. Annabeth si trascina nella sabbia, i piedi intrappolati in quella morsa lieve e un po' umida del mare. Ogni tanto scrolla le spalle, come per mandar via la cenere che sente appiccicata sulla pelle, la morte di un traditore. Cammina verso il nulla, gli occhi persi nel mare spumoso di cirri, nelle onde che si curvano per abbracciare la sabbia ancora una volta soltanto.

(Solo che poi corre via, dopo averla sfiorata, in quella carezza dolce e un po' accennata che tornerà dopo un intervallo apparentemente brevissimo).

«Non puoi fuggire per sempre» è il richiamo debole, stanco, di suo marito. Un po' una richiesta che non esprime mai. «Non posso permettertelo, Annabeth».
Lei si volta di scatto, in un turbine di capelli dorati, in un momento in cui l'acqua si riversa sulla sabbia in una marea di spruzzi. E ride, scoprendo i denti, in un ghigno da lupo che stona terribilmente con l'espressione afflitta che è sempre stata sua: è come se avesse messo giù una maschera, gettata sulla sabbia per affidarla al mare.
«Tu non puoi permetterlo, Luke?» sibila, scostando con rabbia quelle ciocche di capelli che le coprono gli occhi. «Tu non hai idea di cosa ho passato».
Non aveva idea di cosa significasse alzarsi ogni giorno con una fitta nebbia nella testa, con le lacrime agli occhi e una voragine nel petto. Non ne aveva idea, lui che l'aveva raccolta per pura ripicca, per non lasciarla nella polvere a morire da sola. E probabilmente non capiva cosa provasse a ripetersi ogni giorno, per anni, che doveva smetterla: Percy Jackson era morto e lei era solo una di quelle superstiti che dovevano adattarsi alle condizioni imposte da un nuovo regime.
«Volevo risparmiarti tutto questo» sussurra lui, passandosi una mano sul volto per cancellare la pioggia che vi si era depositata. «Volevo renderti felice».
«Non l'hai fatto» risponde lei, affilando lo sguardo. E lo guarda sbattere le palpebre di fronte a quella nuova Annabeth che gli si palesa, in un'ostinazione che aveva dimenticato, preso com'era ad arginare la tristezza che aveva invaso quella prima Annabeth che aveva promesso di non lasciare mai. «Per farlo, dovresti lasciarmi andare».
E lui sorride, scuotendo la testa nella certezza che non lo farà mai. Inclina la testa, per guardarla meglio alla luce del sole – e l'acqua del mare è nei suoi occhi, come pioggia che si accumula lungo argini tremendamente fragili – mentre le prime gocce di pioggia gli lavano dal viso la spossatezza del viaggio.
«Rimarrò sempre con te» le sussurra, in un accenno dell'antica dolcezza. Quando erano entrambi sporchi di polvere e insanguinati. «Non ti lascerò mai».
«Vorrei tanto che non potessi farlo» risponde lei, in un sussurro. «Vorrei tanto che fossi in grado di lasciarmi andar via».

(Anche se temo che non lo farai mai).

 

 

 

***

 

A trovarlo ci stanno così pochi giorni che la speranza non fa nemmeno in tempo a sbocciare che, un attimo dopo, è già morta e sepolta sotto un cumulo di sabbia: glielo portano durante l'ennesima serata in onore di una dività presente anche in quella solitudine ostinata, durante l'ennesimo ballo voluto da un Generale troppo esigente.
Lo lasciano cadere sulle ginocchia così violentemente che il suono rimbomba in tutta la sala, lo gettano davanti le scarpe lucide del Generale Castellan, che preme così forte le dita sul braccio della moglie che probabilmente le rimarranno i segni. Annabeth Castellan sembra rimpicciolire ogni secondo che passa, seminascosta dal braccio del marito, gli occhi grigi semichiusi di fronte a quello spettacolo grottesco. Luke invece un po' sorride e la spinge avanti, per mostrarne la figura leggermente ingrossata da quel figlio – suo figlio. Il figlio frutto del seme che lui ha sparso nel ventre di Annabeth Chase – che comincia già a dilatarle i fianchi.
«Salve a te, Percy Jackson» proclama il Generale Castellan. «Ti credevamo tutti morto da tempo, ormai. È un vero piacere poterti ospitare qui».
«Vorrei poterti dire» esala Percy, lo sguardo passo sul pavimento. Alcune gocce del suo sangue hanno sporcato la linea fra le piastrelle. «Che per me è un piacere rivederti».
«Suvvia, non essere scortese: mia moglie mi è sembrata ansiosa d'incontrarti» è la risposta affilata di Luke. «Non ho il cuore di rifiutarle alcunché, sai. Dicono che non sia saggio precludere qualcosa alle donne nella sua condizione». E ride, giù risate scroscianti che fanno tremare anche i muri.
Percy Jackson si accascia sul pavimento, ancora sorretto da due Tenenti, con gli occhi leggermente appannati. Li ha visti, tutti quanti: Rachel Dare e Apollo sistemati in un angolo, due maschere di ghiaccio; Silena Beauregard con suo figlio fra le braccia e Katie Gardiner che la segue con gli occhi bassi. E Annabeth Chase – Castellan – che cerca di nascondersi dietro la schiena del marito, che cerca di correre via tirandogli la manica, urlandogli in silenzio che non riesce a sopportarlo. Ma Luke non se ne accorge, non le presta attenzione, e suo è un sorriso affilato che mira a dilaniare il cuore di Percy Jackson. Fa segno alle guardie di avanzare, le armi puntate.
Percy Jackson spalanca gli occhi di fronte alla figura della sua amica, il ventre che sporge fra le pieghe dell'abito, il sorriso triste che emerge nella nebbia. Annabeth chiude gli occhi nell'eco di quei passi che risuonano nel silenzio teso della sala. Ma la fine arriva comunque.

 

 

 

***

 

Annabeth apre gli occhi che ancora non ha sentito lo sparo, né lo scrosciare del sangue che le infradicia le scarpette. Spalanca gli occhi per vedere l'espressione sprezzante di suo marito mentre fa un gesto con la mano, rivolto alle guardie. L'attimo dopo, Percy è già stato portato via.

 

 

 

***

 

Qualcuno dice che, quando un uomo fa l'amore con una donna, si vendica di tutte le sconfitte che ha subito nella sua vita1. E questa sera, Luke si è probabilmente preso una rivincita per tutte le volte in cui lei l'ha umiliato, anche solo evitando accuratamente di rispondere a quella domanda – richiesta – che lui le getta addosso ogni notte.
Dimmi che mi ami. Ma Annabeth non lo dice mai, inghiottendo quelle parole che le feriscono la gola, preferendo il silenzio ostinato che continua a mantenere da un po'.
E, d'altronde, Luke non aggiunge mai nulla: si limita a lasciare sul suo corpo i segni del suo passaggio. Morde la pelle tenera del collo, lasciando l'impronta dei denti, assaggiando una solitaria goccia di sangue che si deposita lungo le spalle. La guarda con quel distacco gelido che le fa pensare che stia pensando a qualcos'altro, esattamente come faceva lei ogni volta che la supplicava in silenzio e la riempiva di quel profumo di cocco sintetico e gelsomino, come per chiederle scusa.
Dimmi che mi ami. Glielo urla, a volte, quando si solleva per un attimo e la guarda e non dice mai niente. Lo urla in silenzio ogni volta che la trova a perdersi nei disegni intricati – blu – della carta da parati della camera da letto. E magari qualche volta sembra davvero volerle rubare il respiro quando comincia a baciarla e lei non si ricorda più com'era quando c'era Percy, e francamente lui sa bene che probabilmente non avrà mai nulla di più da lei. Ed è questa consapevolezza che lo scava dentro, sottraendogli la linfa vitale, sottraendogli quell'attimo di respiro che prova tutte quelle volte in cui si ricorda che, per quell'unica volta, il principe azzurro è stato lui.

(Ma a cosa serve, poi, essere il principe azzurro quando la principessa preferisce palesemente andare a letto con lo sguattero di turno?).

Dimmi che mi ami. Ci aveva provato a suon di bestemmie, a farsi passare quella maledetta sensazione che gli stringeva le viscere. Aveva provato a bruciare quella voragine che gli si era aperta dentro, quando l'aveva sollevata per la prima volta – come fa ora: la trascina per i corridoi bui e un po' vecchi di quel palazzo diroccato – e l'aveva salvata solo per vincere l'ennesima scommessa con sé stesso. Che, poi, le scommesse con sé stessi dovrebbero essere quelle dove barare è lecito; ma lui, che a barare aveva imparato con la stessa facilità con cui sua madre gli aveva insegnato a succhiare il latte dal biberon, proprio non riusciva a imbrogliare il mazzo quando giocava da solo.
Dimmi che mi ami. Lei non glielo chiede mai, di lasciarla andare mentre se la trascina dietro fra le prigioni: ribelli, condannati a morte, con un futuro da cenere che galleggia sul mare. Si lascia condurre in una cella talmente isolata da apparire vuota, disabitata in quell'odore di muffa che permane fra i muri. Lì è recluso Percy Jackson.
«Hai visite, Jackson» è il sussurro tirato di Luke. «Starò qui fuori. Se solo scoprirò che l'hai sfiorata anche solo con un dito...». La minaccia cade nel vuoto e in quello sguardo duro – disperato – che rivolge alla moglie. Nella richiesta che fa sempre quando lei non se l'aspetta, come per strapparle quell'assenso che non arriva mai.
Dimmi che mi ami. Anche se, in realtà, a lui basterebbe che Annabeth non lo dicesse a Percy Jackson.

 

 

***

 

«Mi dispiace» sussurra Annabeth, raccattando una bacinella piena d'acqua e dei ritagli di stoffa accatastati su una sedia. «Non volevo che andasse così, davvero».

(Non volevo gettarvi nella polvere, farmi raccogliere e poi calpestarvi tutti. Non volevo tradirvi, proprio io che ero famosa per la mia onestà. Proprio io che ti amavo).

Percy non parla. Suo è il silenzio degli innocenti, uno strascicare un po' quei respiri che escono a fatica fra i denti, d'incagliano nella gola. Trasalisce solo quando le dita di Annabeth sfiorano i graffi che dimorano sulle sue braccia – e per lei è un po' quel dannato deja-vù che le ritorna in mente: oggi è martedì.
«Il bambino è suo?» sono le uniche parole che riescono a non graffiargli ulteriormente le labbra. Sorride, di fronte al silenzio di Annabeth. «Ti è sempre piaciuto, in fondo».
Traditrice, sembra volerle urlare, come hai potuto scegliere lui per l'ennesima volta? Come fai a non accorgerti che non è stato lui a salvare te, ma tu a salvare lui?
In realtà è mercoledì, solo che lei è ferma al giorno prima già da un po'.

 

 

***

 

Il mercoledì è diventato il loro giorno: una passeggiata fra la muffa e l'aria viziata dei sotterranei, una passeggiata con bende e disinfettante sottobraccio per andare a trovare il prigioniero peggio trattato. Percy Jackson non ha mangiato, quel giorno, ma lei si ritrova con lo stomaco chiuso di fronte all'ennesima palesazione delle angherie di suo marito nei confronti di quel rivale annientato dai combattimenti. Eppure, Percy Jackson non tenta nemmeno di salvarsi la pelle schierandosi con la controparte.
Osserva con svogliatezza il via-vai di visite nella sua cella, aspettando che si presenti quel sicario votato a fargli saltare la testa. Che non arriva.
E si confonde nella monotonia dei giorni che subisce con passività estrema, aspettando il mercoledì per le visite della signora Castellan. Sono passate sei settimane dalla prima volta, ogni mercoledì l'ha vista leggermente più ingrossata di quel bambino che Luke le ha seminato nel grembo con la forza. Sei mercoledì in cui lei gli è parsa sempre più sciupata alla luce di candele consumate, sei giorni in cui l'ha vista sempre più esausta, triste di fronte alla sua figura sfregiata. E gliel' ha detto, in un sussurro inudibile che è giunto solo a lei. Dimmi che mi ami. Percy ha fatto in tempo a guardarla un'ultima volta. E poi, lei è corsa via.

 

 

***

 

In quei giorni, con cadenza regolare, l'estate cedeva all'autunno la sua resa: nel soffiare intrepido di un venticello occasionale già si coglievano quegli ultimi riverberi di un'estate infernale. Nel mormorio che imperversava fra le foglie si poteva cogliere la sentenza emessa da Crono in persona, giunta nelle lande desolate di quella terra indomita, bruciata, portata dall'ennesimo leccapiedi in cerca di un posto di favore. E probabilmente tutti quel giorno hanno udito le grida di Annabeth Castellan, hanno visto le lacrime offuscare – ma è stato un attimo: un secondo in cui una maschera si è incrinata ed è caduta via per far posto a una nuova pelle – gli occhi verdi di Rachel Dare, come in uno smeraldo avvolto in un lembo di nebbia. Ed è arrivato in un attimo il vento gelido che ha spento ogni speranza: un tifone occasionale che ha portato pioggia e nuovole – fa così freddo che non parrebbe nemmeno così inusuale una nevicata estiva: eppure, le nuvole appaiono gelose di quella neve che non cade mai. Di pioggia, non sono poi così avare e ne lasciano cadere grosse lacrime senza sale, gettando tutta quella disperazione su chi forse se la merita almeno un po' – e anche quel vuoto che non se ne va mai. Nella luce filtrata dalle nuvole, perfino il ghigno fiero di Luke Castellan sembra slavato e offuscato in quella disperazione che avanza.
Annabeth Chase non c'è: quando è corsa via, le gonne rimboccate per non infradiciarle e lo sguardo vuoto, perso, suo marito non ha avuto il cuore di rincorrerla. Non ha nemmeno controllato se quelle gocce che le scorrevano sul volto fossero sue o delle nuvole che minacciosamente incombono su di loro, semplicemente le ha permesso di correre il più lontano possibile da lui, ancora una volta. Come sempre, da tempi immemori, per impedirle di sottostare a quella richiesta che lui le pone sempre: dimmi che mi ami. E probabilmente lei avrebbe anche risposto – e il “no” non detto probabilmente gli brucia già sulla pelle come un marchio indelebile – solo per quella volta.
Ma lui non trova ancora il coraggio di ricorrerla, come fa sempre, quando i battiti del cuore accelerano un po' e la voragine gli si spalanca nel cuore. Corrotto e dai bordi anneriti dall'unico tradimento che gli pesa sulla coscienza: quando l'ha lasciata da sola, il cuscino abbracciato e un libro chiuso in un letto vuoto. Le lacrime che scorrevano mentre lui si rivestiva in un angolo – e una parola urlata nell'aria si disperdeva pian piano: tradimento. L'ennesimo, forse il peggiore – con quella mezza verità ancora sulle labbra. E francamente non ha poi il cuore di andarle a riferire che Percy Jackson morirà presto – due settimane: due mercoledì che si succedono per portarlo alla forca – e di lui non rimarrà che la polvere che si disperde nel mare. Ha lasciato che glielo riferisse Rachel Dare, con gli occhi pieni di lacrime, con un silenzio ben più eloquente delle parole – e lui aveva assistito da lontano, come un codardo, con addosso la prima confessione che le aveva gettato addosso. La seconda, l'approssimarsi della morte di Percy, gli bruciava come una stilettata al petto che colpisce il cuore e lo lascia a sanguinare dentro la cassa toracica.

(Rimpianto: oggi è martedì e gli dispiace quasi di aver confessato, in una palese mancanza di senno che l'ha caratterizzato da quando ha imparato a barare col mazzo anche giocando a solitario. E lui ha confessato, materializzando il lunedì procrastinato alle calende greche a quello stesso martedì che non è andato poi così bene).

E un po' finge di ascoltare il messaggero di Crono che non fa altro che descrivergli nel dettaglio l'orribile pena riservata a Percy Jackson e un po' pensa allo sguardo deluso – ferito – di Annabeth mentre lui le vomitava addosso tutta la verità. E il rimpianto che lo consumava anche mentre lei non c'era.
Gliel'ha detto oggi – martedì o mercoledì? – mentre lei silenziosamente gli negava una semplice risposta a una richiesta basilare. Le ha urlato che l'ha tradita, come se lei non l'avesse visto nella delicatezza un po' insolita che le ha usato, nel profumo un po' alterato di cocco e gelsomino e qualcos'altro che gli è rimasto addosso. Stanchezza lavata da altri, ha subito compreso Annabeth: non può sempre asciugare da solo la pioggia – e le lacrime – che gli scorrono sul volto. E lei, per lui, non c'è mai.
Nemmeno quando – rimpianto – lui le chiede quell'unica cosa che lei non gli darà mai. E allora la cerca altrove, in quella prostituta bionda e un po' bassina che girovaga dietro ai soldati di Crono. Socchiudendo gli occhi, la somiglianza incrementa, gli divora il cuore. Ma la risposta non arriva. Dimmi che mi ami.

 

 

***

 

Tradimento. La parola che le riecheggia nella testa e non le dà tregua: tradimento. E sono passate due ore all'incirca da quando ha ricevuto la doppia stilettata.
Ma la verità, in fondo, è che anche lei si chiede il perché della sua reazione sproporzionata a un tradimento che non dovrebbe importarle poi così tanto.
Tradimento. Anche lei l'ha tradito – se non coi fatti – con il pensiero e le parole. E nei sogni, quando si sveglia mugolando perché di nuovo è tornato quell'incubo.

(Morte. Tutti i suoi amici morti ai suoi piedi, le orbite fisse su un punto imprecisato. Solitamente abbassa lo sguardo e si accorge di avere la mano di Luke fra le proprie, in una stretta difficile da sciogliere. Percy giace sempre poco lontano, morto. Tradito).

Adesso nemmeno riesce a guardarlo mentre si trascina sul letto, le vecchie ferite nuovamente aperte e il sangue che cola oltre i bordi. E l'odore di cocco, gelsomino, stanchezza e pioggia che dilaga nell'aria come un veleno. È lei a porgli quella richiesta, in silenzio, quando lui la guarda con gli occhi pieni di pioggia.
Oggi è martedì – mercoledì? – dimmi che mi ami.

 

 

***

 

C'è odore di pioggia, in camera da letto: l'effluvio pungente di aghi di pino e acqua stagnante che sembra non volersene andare mai, nonostante il caldo soffocante che è subentrato per sostituire il freddo pungente e innaturale che aveva accolto la notizia della condanna di Percy Jackson. Luke Castellan non si muove, brucia di febbre nelle lenzuola ormai tiepide – odore di cocco, gelsomino e sangue che si sparge ovunque – con la gentile concessione di una pezza umida ad abbassare quel fuoco che brucia sempre, senza mai spegnersi. E Annabeth lo guarda in silenzio, senza avere il coraggio di ricordargli – forse lui non l'ha mai dimenticato – che è martedì.

«Dimmi che mi ami».

 

 

***

 

Luke non ha smesso di bruciare per la febbre per tutta la durata della giornata, si è alzato per pochi minuti solo quando il sole è stato fagocitato dal mare, con gli occhi un po' appannati di fronte a un incubo che evidentemente ha preso forma davanti ai suoi occhi. Annabeth non si è mai mossa dal suo capezzale: si è alzata con lui per costringerlo a letto, ha chiuso la porta in faccia davanti a quella donna – e probabilmente le ha anche sibilato qualche insulto irripetibile, prima di sentirsi come spezzata a metà. Aveva i capelli biondi, color miele, e gli occhi di un azzurro un po' sbiadito che poteva sembrare grigio, controluce – e poi è tornata a detergergli tutto quel sangue che sembrava non volergli restare nelle vene. È preoccupata: i lividi hanno cominciato a fiorirgli sulla pelle pallida, fragile come carta, come fiori velenosi che si raccolgono alla base di quei tagli che gli squarciano la schiena. E lei non sa cosa fare, quando lui si mette a sedere e urla, posseduto da una fantasma che lei ben conosce.
Guardandolo, spesso si accorge che ha anche le lacrime agli occhi, e probabilmente non riesce a cogliere il sussurro che lei gli ha donato, in un pigolio di assenso a una domanda che lui non pone più. Ed è terrorizzata perché Luke, nei rari momenti di lucidità, non parla, si limita a raccattare carta e penna e tracciare caratteri che lei non fa in tempo a decifrare. Forse nemmeno se ne accorge ma, ogni tanto, una lacrima lascia gli occhi di Luke per tuffarsi in un mondo di carta, dove le parole decorano la pagina come farfalle. E lui non le parla, quando però le stringe la mano in una debole morsa che potrebbe voler dire qualcosa che lei non comprende. A volte si limita a ricambiare la stretta e guidare quell'arto verso il ventre arrotondato che cela quella creatura che ancora nuota nel licquido amniotico – e a quel punto Luke sorride, sempre, ma è più una smorfia di dolore che le provoca un lieve capogiro e la fa barcollare.
«Mi dispiace» le sussurra a volte, quando il delirio comincia a scivolare via per lasciargli un barlume di lucidità. «Mi dispiace, Annabeth, mi dispiace. Non volevo che andasse così, te lo giuro. Non volevo ferirti, io...» gli manca la voce per un istante, borcheggia cercando di trovare il fiato per dire qualcosa.
«Shh» lo rimbecca sempre lei, pogiandogli la mano sulla spalla. «Non parlare se non ti fa male. Va tutto bene, Luke, va tutto bene».
E non sa nemmeno lei, in fondo, se è tutta una bugia o una mezza verità. D'altronde non è nemmeno convinta che sia tutto apposto, che la vita continuerà comunque.
«Io...» mormora Luke, pianissimo, frenando la tosse che gli fa tremare le corde vocali. «Io ti amo».

 

 

***

 

L'ha colta di sorpresa, l'ha destabilizzata anche se solo per pochi attimi. Annabeth cerca di dire qualcosa, di rispondere a tono, di negare, a distruggere tutto. Non ci riesce.
Per un attimo, solo un attimo, si sente di nuovo l'undicenne piena di fiducia con una cotta indicibile per l'eroe migliore di tutto. Forse è sempre stata quell'Annabeth, in fondo, a tenerla ancorata al mondo. Ma lei non risponde, non dice niente, sorrise solo un attimo e gli accarezza la fronte bollente con la punta delle dita.
Si chiede se sia giusto eclissare anni in cui si sono feriti a vicenda, con le unghia e con i denti, con tradimenti pensati e non detti. E non trova mai risposta.

 

 

***

 

Cercando di arginare le crisi di suo marito, Annabeth ha perso di vista il tempo che scorre: è saltato un mercoledì, nella sequela veloce e un po' inattesa dei giorni che si rincorrono senza tregua. Così l'ultimo mercoledì si è trovata a rincorrere il tempo che fugge, precipitandosi in quella cella troppo vuota.
«Sei tornata» è il sussurro inudibile di un Percy spento, smunto alla luce delle candele. «Ormai non ti aspettavo nemmeno più, Cervellona».
«Scusami» è tutto ciò che riesce a dire lei, un po' invecchiata nella luce tenue che le ingrigisce le tempie. «Io... sarei voluta venire».
Io ti amo. Anche se ho preferito lui, ancora una volta, solo perché mi ha incantata con quelle parole che mi fanno capitolare ogni volta. Perdonami, se ti ho tradito di nuovo.
«Non importa» esala lui, scuotendo la testa in un sorriso amaro che non se ne va. «Se non sei venuta è perché non ti mancavo abbastanza».
Non mi ami abbastanza. Sono davvero poche, ammesso che esistano, le persone che riescono davvero a mancarti.
«Mi dispiace» ripete lei, lo sguardo basso, le mani che nervosamente stropicciano la gonna. «Davvero, io...».
«Va bene così, Annabeth» dice lui, scrollando le spalle. Sorridendo. «Dubito che riusciremo a vederci ancora» si alza, lentamente, posizionandosi di fronte a lei. «Ma non ti lascerò con Luke, te lo prometto. Devi solo aspettare».
Le sfiora la guancia con le dita, prima di tornare a sedersi sul pavimento umido di pioggia. E di lacrime. Annabeth si allontana, il peso di un qualcosa d'inconcluso che le grava sul petto, un tradimento che nel pensiero comincia già a formarsi. E una farfalla di carta che si posa su quella storia che Luke scrive, in silenzio, nell'altra stanza.

 

 

***

 

Piove a dirotto, quel giorno, dilatando decisamente i tempi di un'esecuzione fin troppo procrastinata alle ben famose calede greche, con somma irritazione di un Generale che conosce le altre mire di un ribelle senza ribellione. L'aria è piena di quell'odore un po' pungente della legna bagnata, in una parodia di palco eretta nella gran fretta e tenuta su con tralci di edera velenosa e fiori violacei che sbocciano senza sforzo, con il semplice scorere del tempo. Una farfalla solitaria continua a svolazzare attorno al Generale, confondendolo con quello sbattere di ali colorate così accattivante che gli ricorda vagamente qualche ricordo sopito: un qualche martedì che è passato in un soffio, nei bollori di una febbre anomala, quando si è forse sciolta quella patina di ghiaccio che gli avvolgeva il cuore in un abbraccio un po' antico che non lasciava tregua.
È rimasto sorpreso nel vedere che Annabeth era rimasta – ed è ancora accanto a lui, rigida in un abito bianco. Il lutto delle regine, dicevano un tempo. Con delle farfalle ricamate in argento, che volano via quando lei si muove: accade raramente, poiché è ferma come un disegno o un dipinto su tela, per cui le farfalle appaiono come fatte di una carta preziosa e fragilissima che non può muoversi – accanto a lui senza muoversi mai, una mano posata sul suo cuore per controllarne i battiti. Conosceva alla perfezione le cordinate del suo cuore, era stata in grado di trovarlo alla cieca, tracciandone alla perfezione il contorno con la punta delle dita.
Guardandola sottecchi, lui si trova a chiedersi dove si trovi esattamente il suo cuore. Ma è un pensiero rapito come un battito d'ali, una farfalla che si posa sulle sue dita e viene racchiusa dalle mani. Si guarda attorno, disorientato, quando sente la leggera pressione delle dita di Annabeth sul suo braccio. Così, quando rilassa le dita e separa le mani, la farfalla è morta, le ali spezzate. Luke nemmeno se ne accorge, preso dalla contemplazione di un gesto casuale della moglie, in quello sfioramento vagamente percepibile che gli'impedisce di riuscire a concentrarsi. Sembra tranquilla, Annabeth, nemmeno toccata dalla tragedia – solo per lei è reputata tale – che sta per consumarsi.
Si staglia davanti a quell'improvvisato palco come una colonnina d'alabastro, ancorata saldamente a quel marito pronto a vestire nuovamente i panni del'aguzzino. Il viso è una maschera tranquillissima, quasi sorridente, la mano stretta in quella del marito in un gesto vagamente romantico.
Luke Castellan è preoccupato: sua moglie non sembra minimamente scomposta dal macabro spettacolo che sta per svolgersi, ma sorride al nulla con aria serena, guardando i fiori violacei – blu – con aria serena. Chissà cosa vede, in realtà, in quell'approssimarsi di persone e piante che crescono a straordinaria velocità. Chissà cosa sente quando alza la testa di scatto, sporgendosi in avanti, come per udire un discorso appena bisbigliato. E Luke non sa cosa fare, quando la vede annuire all'aria, posando una mano sul ventre con aria estremamente colpevole, perché è solo allora che si muove e le farfalle – ancora fragili come carta – spiccano il volo.
Risuonano i passi in quel silenzio teso, imperfetto, che si sparge attorno alla platea: sembra una parodia di spettacolo, quando le guardie sfilano sulla struttura un po' precaria, trascinando ciocchi di legna un po' bagnata e tagliata malamente. Annabeth non si muove più, irrigidita nei muscoli tesi della schiena, il volto arrossato dal vento freddo che le accarezza il viso: in un riflesso involontario allunga la mano sul braccio del marito, avvicinandosi al petto, dove sente vagamente i battiti del cuore – e ne conosce l'esatta posizione – sotto la punta delle dita. A volte sembra essersene dimenticata, ma c'è stato un momento in cui ha pensato che quel cuore non avrebbe più pompato il sangue in quel corpo già troppo debilitato. In quel momento, ha davvero avuto paura, prima di sperimentare quel brivido che non provava da un po'. Libertà.
Ma ha avuto paura e non l'ammetterà mai, anche se non era martedì e poteva sentirsi esonerata dagli obblighi presi con sé stessa.
E intanto qualche fiore sboccia dal nulla e muore all'improvviso nella corrente di quei suoni – parole – che imperversano nella quiete stantia del pomeriggio, ed è un ronzio un po' fastidioso che non se ne va mai, resta come un quieto sfondo oltre quella platea che fondamentalmente non parla: e l'unico sorriso è quello della signora Castellan – e il ghigno beffardo di un marito tradito nei pensieri e nelle parole – che appare un po' fuori luogo in quel tempo e in quello spazio, ma mai quanto la mano del marito che stringe la sua e non la lascia mai. Dicono che la guerra non sia mai finita, per Annabeth Chase. Si sbagliano. La guerra è finita da tempo anche per lei, quando hanno tagliato anche l'ultimo brandello di speranza a cui si aggrappava: non esistono guerre da combattere in eterno e nemmeno lei è così sciocca da provarci.
E poi succede che lo vede e quel sorriso finisce nel dimenticatoio, come quel principio di ribellione che avrebbe potuto metter su: Percy appare più debole a ogni passo che compie, strascicando i piedi lungo la superfice irregolare del suo palco amatoriale. Sembra sul punto di cadere nel nulla, fra le persone, sul Generale Castellan che lo guarda con calma glaciale che stordisce. Ma Percy Jackson non si ferma, cammina velocemente verso il centro del palco, degutendo a fatica davanti alla pira.
Lo issano lì sopra come se fosse un bambino, due guardie che lo sollevano con una facilità che sconfina nell'innaturalezza, imprigionandolo fra una corda e la legna.
È in quel momento che Annabeth Castellan si volta verso suo marito, in un turbinare di farfalle di carta, lo sguardo implorante come se lui potesse davvero fare qualcosa: come se Luke Castellan avesse il rimorso necessario per salvare Percy Jackson, proprio lui che era famoso per la sua mancanza assoluta di sentimenti.

(Ma un cuore l'ha sicuramente: sua moglie ne conosce le esatte coordinate e ne riconosce quasi la forma).

Il Tenente Greengrass sale sul palco con una torcia in mano, fuoco bluastro che divampa subito: ha appena il tempo di gettare l'oggetto ai piedi della pira che le scintille aggrediscono il legno. Forse nessuno se n'è accorto, ma Annabeth Castellan sta piangendo: si tiene al braccio del marito, leggermente piegata in avanti per mascherare i singhiozzi che le rimbombano nel petto. Luke l'ha notato, in un'altra vampata di rabbia che gli scalda le viscere con lo stesso fuoco che aggredisce la pira.
«Non devi piangere» le sussurra, con l'approccio rigido e un po' guardigno che usa quando non sa bene cosa dirle. «Non se lo merita, Annabeth».
«Non sto piangendo» risponde lei, in un sussurro. Perché, se Annabeth piange è solo perché è riuscita a graffiarsi con i suoi stessi artigli, ferendosi mortalmente.
«Vorrei essere l'unico in grado di ferirti in questo modo» mormora, affranto. Le stringe la mano, incerto, dondolando sui talloni. «Vorrei che tu ti facessi ferire solo da me».
«Forse lo vorresti» concorda lei, inclinando leggermente la testa. Controluce, i suoi capelli assumono riflessi biancastri, gli occhi le tinte del mare all'alba. «Ma io non mi farei mai ferire da te, Luke. Non più». Non più.
Quelle due parole lo fanno sobbalzare, proprio mentre le fiamme intaccano la legna appena sotto i piedi di Percy Jackson. Non più. Proprio lui che si era convinto di non averla mai ferita e che mai l'avrebbe fatto, lui che aveva detto che l'avrebbe sempre tenuta al sicuro. Non l'aveva fatto. E quella sicurezza gli ribolliva nelle vene insieme al sangue, disorientandolo: la certezza assoluta di aver compiuto i passi necessari per avvicinarsi – allontanarsi – da lei l'aveva convinto a salvarla.
Fa per dire qualcosa, ma viene interrotto dalle urla agghiaccianti di Percy Jackson: il fuoco gli si arrampica sulle gambe, bruciandole. L'attimo dopo è già svenuto per il fumo e l'eccessivo dolore, il fuoco che gli divora le punte dei capelli e tutto il resto, in quel fumo acre e immondo che si diffonde ovunque. E sprazzi di cenere che viene già dispersa dal vento e arriva al mare, si perde nella pelle della platea, appena dietro il resto. Annabeth chiude gli occhi, davanti al fuoco che avanza e divora.
Quando li apre, Percy è già morto. È cenere fumante che si sparge sulla legna del parco, che raccolgono in un'urna che consegneranno al mare.
«E adesso che succede?» sussurra qualcuno dalle retrovia, sbattendo il piede annoiato da uno spettacolo ormai terminato. Annabeth si volta, cercando qualcosa. Qualcuno.
«E adesso si muore» risponde, sottovoce, facendo sobbalzare il marito ancora al suo fianco. Adesso si muore. Luke la guarda, gli occhi già appannati e quelle parole che premono già per uscire fuori dalla gola: non più.
Ma, quando, fa per rispondere realmente si accorge di non avere abbastanza parole per definire bene il concetto. Si accorge di non avere parole e basta, forse escluse quelle che dice di martedì – non ricorda che giorno è, però – e a cui lei non replica mai. Ma non lo dice: a cosa servirebbe?

 

 

***

 

Percy è morto. È l'unica cosa che riesce a realizzare quella notte, quando gli incubi non le permettono di addormentarsi con serenità. E Luke non c'è, forse perso nel letto di una qualche sgualdrina che un po' le somiglia, abbastanza lontano per permettere agli incubi di assediarla. E Percy è morto.
Ha passato così tanto tempo a crogiolarsi nell'idea di un mondo senza di lui che, adesso, la realtà ha assunto quella parvenza di realtà filtrata che è delle fantasie. Le sorge il dubbio di non aver sognato tutto, perfino la cenere sui vestiti e sul volto di quando l'hanno sparsa nel mare. Si sveglia e ricorda che lei l'ha guardato bruciare.
Percy è morto. Se ne rende finalmente conto una di quelle sere solitarie, quando vede Luke tornare ubiraco fradicio e con il colletto della camicia allentato e la faccia stravolta: il volto di chi ha cercato a lungo qualcosa o qualcuno. E Luke la cerca nelle prostitute bionde che le somigliano, dato che lei è diventata ormai una presenza intangibile e muta, che non fa che passare il dito su una porzione leggermente più scura di polso – e forse se ne rende allora: sta tornando. La nebbia che si era diradata sta tornando, le urla di diventare cenere – e parla solo a monosillabi e solo su sollecitazione.
Percy è morto. Ma lei è viva e Luke non sa proprio cosa fare, con lei.

 

 

***

 

Un giorno è così temeraria da scendere in spiaggia, dove le orme sono divorate dalle onde. Luke la segue, cauto, come se temesse di vederla fagocitata dall'oceano.

La cenere galleggia sul mare.








1Dal film "Lezioni d'amore".

   
 
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