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Autore: _Enya    03/11/2013    0 recensioni
[vincitrice del contest indetto da _Sebba, con 66/70]
-dal testo-
"Forse dovrei farlo, dovrei lasciarmi andare e seguire il mio sogno.
Non è forse ciò che ho sempre desiderato? Essere libera, come prima di conoscerla, sarei salva adesso.
Fu un pomeriggio umido di agosto. I vestiti mi si appiccicavano addosso, provocandomi un leggero fastidio. O forse era il sudore della mano destra, che stringeva il manico della mia valigia, troppo pesante rispetto ciò che c’era dentro. Due vestiti, qualche maglietta, due paia di jeans.
Forse c’erano troppi ricordi, sapevo che avrei dovuto metterli nel bagaglio a mano, o meglio, lasciarli a casa."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Forse dovrei farlo, dovrei lasciarmi andare e seguire il mio sogno.
Non è forse ciò che ho sempre desiderato? Essere libera, come prima di conoscerla, sarei salva adesso.
Fu un pomeriggio umido di agosto. I vestiti mi si appiccicavano addosso, provocandomi un leggero fastidio. O forse era il sudore della mano destra, che stringeva il manico della mia valigia, troppo pesante rispetto ciò che c’era dentro. Due vestiti, qualche maglietta, due paia di jeans.
Forse c’erano troppi ricordi, sapevo che avrei dovuto metterli nel bagaglio a mano, o meglio, lasciarli a casa. Ma era impossibile, la sabbia di tutte quelle estati passate si era seccata intorno alle giunture ormai vecchie, la polvere dei sentieri di montagna dove eravamo state cinque anni prima, era finita sotto la fodera, e la pioggia intensa di Londra l’aveva scolorita, lasciando la propria traccia sotto forma di un lieve odore acre. Inoltre, la sua presenza era vivida, sotto l’etichetta di riconoscimento, la sua firma, la sua ultima traccia, indelebile nella mia valigia come nel mio cuore.
Non più nel suo.
Scossi quel pensiero fastidioso, e abbandonai la mia Panda fuori l’aeroporto Fiumicino, lasciandola aperta, sicura di non rivederla più. E andava bene, avevo chiuso con quella vita. Sarebbe marcita lì, perdendo l’odore nauseante del vino e della marijuana, che tante volte avevamo lasciato lì, per nasconderli o, semplicemente, per distrazione del momento. L’avevamo presa insieme, metà per uno io e lei, la mia migliore amica. Colei con cui avevo condiviso metà della mia vita, metà del divertimento, metà delle giornate, metà delle follie.
Solo i dolori erano interamente miei. Era tutto sulle mie spalle.
Non potevo vivere con quel peso, avevo già perso cinque anni per poter realizzare il mio sogno, ciò che desideravo di più al mondo, soltanto per poter stare cinque minuti in più con lei.
Quanti cinque minuti sprecati, persi nel suo egocentrismo che mi straziava l’anima, mi girava lo stomaco, il suo modo di fare che mi rendeva totalmente indifesa e piegata al suo volere. Succube. E la colpa era mia, soltanto mia. Presi un respiro profondo al momento di buttare le chiavi tra le sterpaglie. Il momento che avevo immaginato più di tutti, il momento della gloria e della mia morte, prima di una rinascita, prima di una nuova vita da poter vivere totalmente, rifarmi da capo, cambiare in meglio. Ero fortunata, non tutti hanno la possibilità e il conto in banca per poter cambiare paese, e abbandonare tutti, la famiglia, gli amici, il lavoro. Feci i biglietti, e m’imbarcai in fretta, senza voltarmi indietro. Sapevo che se l’avessi fatto, se solo avessi provato a voltare le mie memorie verso Roma, sarei corsa indietro, avrei ripreso la macchina e sarei tornata a casa. Strinsi i denti, e guardai avanti. Sempre avanti, ogni giorno. Ho ingoiato bile per anni, credendo di potercela fare, e ce l’ho sempre fatta. Stringere i denti almeno non corrode lo stomaco.
Mi feci tutti i dodici scalini prima di salire sopra quell’aereo maledetto.
Mi feci tutte quelle due maledette ore prima di arrivare in Francia, sveglia, per la prima volta in vita mia senza cuffiette, senza musica. Non sarei riuscita a sopportare il minimo collegamento con la mia vecchia vita,sarei stata una persona totalmente nuova. Non pensai alla minima cosa, non guardai come mio solito fuori dal finestrino, a immaginare di affondare il mio viso tra le vaporose nuvole, a far finta di schiacciare come piccole formichine tutte le persone che riuscivo a vedere. Passai il tempo, con lo sguardo fisso sul nome e logo della compagnia, accuratamente stampato sul sedile di fronte a me. E dopo due ore, finì, come ogni cosa, il mio viaggio. Mi feci tutti i dodici scalini a scendere, uscii da quell’aeroporto e mi infilai dentro a un taxi. Potevo già sentire il formicolio alla gamba destra che si espandeva lungo il corpo, quella sensazione di una nuova vita, di una nuova identità, finalmente mia.
Passarono gli anni. I mesi e i giorni. Passai i miei esami, trovai un posticino dignitoso, provai e impegnai le mie giornate di tutte le attività che potessi riuscire a fare, cominciai anche a bere, non appena mi restavano un paio d’ore libere. Volevo tornare a casa esausta, buttarmi sul letto e dormire all’istante. Non controllavo quasi mai il cellulare, ma non ne avevo bisogno. Sapevo che non avrei ricevuto nessun messaggio su Whatsapp, sapevo che tutte le notifiche di Facebook era legati ai suoi aggiornamenti di stato, e mi privavo di leggerli, nonostante sapessi alla perfezione che mi avrebbero fatto crollare di nuovo psicologicamente. Eppure ne avevo bisogno, non sapevo più niente di lei, mi sentivo come una madre che aveva smesso di ricevere notizie della sua unica figlia, sentivo di appartenerle, e sentivo che lei apparteneva a me. Nonostante sapessi di non essere ricambiata, continuavo sempre a sperare, a credere che un giorno avrei trovato un suo messaggio, le avrei perdonato tutto. In cinque anni non mi ero trovata a pensarla. Si era sposata, finalmente? O aveva continuato ad aspettare il suo amore impossibile, un vecchio cantante anni 80 di cui a stento sapeva il nome? Non lo seppi mai.
Trovai un lavoro buono, dopo qualche anno, ma nessuno aveva trovato me. Rimanevo una figura di sottofondo, mentre impilavo le carte a lato della scrivania e guardavo con un sorriso spento di cortesia i miei colleghi che crescevano, si innamoravano, e mi raccontavano le loro avventure, mentre li ascoltavo, riempita di curiosità e di invidia, perché io non avevo mai conosciuto ciò che loro avevano provato, e che faceva parte della loro vita quotidiana. Ero semplicemente fuori da tutto questo, per me erano solo storie, e piccole morse allo stomaco quando entravano nei particolari della loro vita sessuale. Vivevo da sola, nonostante avessi sempre desiderato avere un gatto, e non conoscevo l’amore. Ero diventata un corpo vuoto, riempito solo di un unico sentimento che trovavo opprimente e pesante. Sperai per anni con tutta me stessa che prima o poi qualcuno sarebbe venuto da me e avrebbe spezzato l’incantesimo, e mi avesse fatto sentire tanto importante quanto lo era stata lei per me. Volevo anche io una storia, volevo trovare un ragazzo che amasse leggere e ascoltare musica, che mi baciasse sulla fronte e mi scombinasse i capelli, volevo provare una vera relazione. E invece ero sola, io e una penna, a stenografare per hobby dei documenti vecchi di mesi.
Eppure, davanti a tutto questo, mi sentivo bene. La lontananza da lei, dal suo naso a punta e dalla sua aria strafottente mi dava la forza di andare avanti. Non mi mancava lei, non avevo bisogno di vederla, né lei né tutti gli altri. Da sola ero più forte, da sola mi sentivo Dio. Riuscii anche a trovarmi, quasi due anni dopo, una specie di ragazzo, insomma, andavamo a letto insieme e mi ritrovai a non aver bisogno neanche di ascoltare i racconti delle altre, sempre uguali, in un ciclo infinito di posizioni.
La mia vita si era stabilizzata, mi sentivo bene, ero felice con me stessa, il mio equilibrio si reggeva su un filo ben teso di pace. Non accesi quasi mai il mio cellulare, non avevo un pc, né tantomeno internet. Ero sola nel mio grande, piccolo mondo, fatto di piccole felici illusioni. Ma mi sentivo incompleta. Dovevo tornare a Roma, sentivo di doverlo fare, non ero io, non più. Rifeci i bagagli, una mattina di Aprile, come una ladra che svaligia una casa, come un clandestino pronto a imbarcarsi sulla prima nave disponibile, destinazione ovunque. Avevo bisogno di sentirmi me stessa, dopo quindici anni capii che io non ero davvero felice se non avevo qualcosa da dover combattere. Ero felice quando tutto sembrava stesse per crollarmi addosso. Presi un taxi, tornai all’inizio. Il tempo è un cerchio, che certe volte necessita di essere chiuso. Di nuovo l’aereo, di nuovo le nuvole, di nuovo le persone, di nuovo le mie memorie. Ero di nuovo lì.
Nonostante tutto, ritornai da lei.


Questa storia ha vinto il primo posto in un contest di One Shot, e sono davvero fiera di me :D Per il resto, beh... Molto personale, molto introspettiva e molto... Mia. Me la sento davvero dentro, questa storia. Non so che aggiungere. Bye-
   
 
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